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lunedì 23 agosto 2010

Solo la Moldova va in tv, ma solo Smakiya va su abouna.org!!

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ora non c'è il tempo per ringraziare il nostro gruppogita per il miracolo che ha fatto nel mezzo del deserto giordano. io e il partente gnes (per tutti gli SCE che non lo sapessero, e immagino che siano più o meno tutti, il caro compagno di dis-avventure mediorientali mi molla per lanciarsi verso nuove ed esaltanti avventure...buona fortuna, dafda!) ci ripromettiamo, in un momento più tranquillo, di raccontare a tutti come è andato il cantiere dalle nostre parti.
per il momento vi linko il sito che parla di noi (chiaro per tutti, no?!). l'articolo l'ha scritto uno dei volontari locali che ha lavorato con noi in queste settimane.

poi una domandina ai miei shabab: ma quand'è che tornate, che io mi annoio?

martedì 15 giugno 2010

Storie di ordinaria follia (calcistica)

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Sabato 12 giugno. Un mio collega giordano entra in ufficio con un foglio stampato formato lenzuolo.

- Vedrai che ci tornerà utile per le prossime settimane. Attaccalo in bella vista.

Comincio a leggere. Sabato 12, ore 14.30 Argentina-Nigeria. Ore 17.30, Corea del Sud- Grecia. Ore 21.30, Inghilterra-Stati Uniti. Domenica 13, ore 14.30 Algeria-Slovenia.. C’è pure l’aggiustamento all’ora locale.

Continuo a non capire.

- Vedi, giovedì scorso abbiamo chiamato una parrocchia per organizzare un incontro per oggi, ma non c’è stato verso. Ci son troppi tifosi dell’Argentina. Idem per mercoledì, abbiamo dovuto rimandare la riunione perché i comitati non si vogliono perdere la partita della Spagna.
- ?
- In una parrocchia di Zarqa hanno allestito un mega schermo per poter vedere le partite. Per l’Italia stai sicuro che ci sarà un bel po’ di gente.
***

Pomeriggio dello stesso giorno. Rainbow Street, Jabal Amman. Questa via, coi suoi cafè e coi suoi locali sfavillanti è uno dei luoghi della movida ammanita. Tornando dall’ufficio mi fermo in un fast-food per prendere uno shawarma (una specie di piadina con kebab di pollo). Lo schermo è sintonizzato su Argentina-Nigeria. Esco col mio panino e mi accorgo che TUTTI i bar e i café che mi circondano sono sintonizzati sulla partita, con volumi in alcuni casi davvero imbarazzanti. Mi mancano i video delle discinte cantanti libanesi che parlano di amore eterno e di buoni sentimenti.

Passo oltre i ragazzini che vendono i gagliardetti delle squadre (ma avranno anche quello della Corea del Nord? Ammetto che non mi fermo a controllare..), ma non posso fare a meno di constatare che i Suv che tentano di schiacciarmi i piedi tifano chiaramente Brasile - le bandierine che escono dai finestrini non mentono.

E’ tutto molto folcloristico. Almeno fino a quando non mi imbatto in due giordani con la parrucca, la maglia dell’Argentina e la faccia pitturata con strisce bianco-azzurre-blu. Questo è già più inquietante.

La partita volge al termine. Non sono ancora a casa quando degli improbabili caroselli stanno già festeggiando la vittoria di Maradona e soci in giro per la città.
***

Domenica 13 giugno. Entro in una cartoleria per cercare del materiale di cancelleria. Il commesso è letteralmente sdraiato sulla sua sedia girevole, non mi guarda nemmeno. Una gracchiante telecronaca in arabo sta catturando tutta la sua attenzione. Serbia – Ghana.

- Ancora 0-0?
- Già, non è una gran partita.
- Ma per quale tieni delle due?
- No per nessuna, io son per il Brasile.

Faccio per incamminarmi verso casa, ma ho dimenticato di prendere la frutta. Dal baracchino del fruttivendolo, non più grande di 4m per 4, mi arriva di nuovo la familiare voce del telecronista di Al-jazeera Sport. Sto scegliendo delle fragole quando tutto si ferma. Rigore per il Ghana. Ragazzini del quartiere, anziani sheykh che non capiscono che sta succedendo, signore coi bambini che sono lì per comprare pomodori e mulukhye si ammassano a portata di televisore. Quasi mi emoziono quando l’attaccante ghanese la butta dentro, anche se mi sorge il dubbio che gli altri spettatori non stravedano per gli africani.
***

Oggi, martedì 15 giugno. Questa mattina vado in prigione a visitare un detenuto. Le guardie fanno i loro controlli di rito e mi chiedono documenti.
- Francese?
- No, italiano.
- Ma che è successo ieri?

Per un attimo mi si gela il sangue. Oddio, cosa abbiamo combinato ieri? Ma è solo un attimo e gli rispondo.

- Guarda, non me ne parlare. Anche a me girano le scatole per questo pareggio!

Succede in Giordania

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Man sentenced to 10-year prison term for murdering his sister
By Rana Husseini - Jordan Times

AMMAN - The Criminal Court on Monday sentenced a 25-year-old Jordan Valley resident to 10 years in prison for murdering his unmarried sister in July 2009.
The court first handed the defendant, a company employee, the death penalty for the premeditated murder of his 26-year-old pregnant sister on July 9.
But the tribunal immediately decided to reduce the sentence to 10 years in prison because the victim’s father dropped charges against his son.
The court also acquitted a 37-year-old taxi driver, H.M., who was standing trial on charges of raping the victim, for lack of evidence. Leggi tutto...


www.jordantimes.com

giovedì 27 maggio 2010

Il sole a strisce. 5

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Febbraio. Quando incontro per la prima volta *** rimango basito. Quanti anni deve avere..settanta? Il corpo incurvato, il viso rugoso e un paio di occhialetti tondi danno a questo sudamericano un’aria quasi buffa. Non posso fare a meno di provare subito tenerezza e simpatia per lui. In Italia un signore del genere riesco ad immaginarmelo alla bocciofila, a giocare a carte davanti a un bicchiere di vino rosso.
Se non fosse che ci troviamo in un carcere giordano. E che lui, sudamericano, è dentro per droga e si trova a oltre 10mila chilometri di distanza dal suo Paese. Un solo viaggio, ma gli hanno trovato addosso parecchi chili di cocaina.
Gli mancano i vestiti, la maglietta che ha su gliel’ha data il sacerdote che lo visita da un po’ di tempo. Non ha abbastanza soldi per comprarsi le cose all’interno della prigione (la lametta da barba o le sigarette). Non parla una parola di arabo, e non riesce nemmeno a comunicare col medico del carcere per raccontargli dei suoi problemi di salute. L’unico che gli da’ una mano è un ragazzo peruviano di 19 anni, anch’egli dentro per droga, che gli fa da traduttore.
Ha lasciato sette figlie in Bolivia, l’ha fatto per loro. Tutte ragazze, mi dice orgoglioso, e che hanno bisogno di lui. Ora mi chiede di aiutarlo, di aiutarle, mi strattona la giacca e mi chiede di aiutarlo. Mi prende molta pena per lui. E’ qua solo da cinque mesi, e se davvero sarà condannato per droga non uscirà di prigione prima di 10-15 anni. Gli dico che ne parlerò con i miei colleghi, che cercheremo di aiutarlo. Che faremo il possibile. Ma cosa faremo esattamente? Non ne ho idea.

- ***** -
Maggio. In questi mesi sono tornato più volte a trovare ***. E’ sempre lì. Gli abbiamo portato dei vestiti, delle carte telefoniche, dei soldi per comprarsi le sigarette. Abbiamo cercato di trovargli una tutela legale ma non ci siamo ancora riusciti. Quando mi vede si illumina, e mi rendo conto che per lui questi quindici minuti sono importanti. Passa due, tre, anche quattro settimane ad aspettare il mio ritorno. Saluti, sorrisi, conversazioni tra due (quasi) perfetti sconosciuti. 15 minuti.

sabato 15 maggio 2010

62 anni

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Oggi sono 62 anni. Il 15 maggio del 1948 gli eserciti di Egitto, Siria, Libano e Transgiordania entrano in Palestina invadendo il neo-proclamato Stato di Israele, dando il via a una guerra regionale che risulterà nella sconfitta delle forze arabe, nell’espansione del territorio di Israele e nella fine di ogni proposta di spartizione fatta dalle Nazioni Unite.

Oggi i Palestinesi e tutto il mondo arabo ricordano l’inizio della
Nakba, la catastrofe - Il giorno in cui i più di 700mila persone sono diventate improvvisamente una nazione di rifugiati.

Parlare di Palestina in Giordania significa parlare di oltre il
60 percento* della popolazione del regno, una testimonianza vivente di quello che hanno significato gli eventi del ’48 e dei decenni successivi. Ma ora i Palestinesi sono stanchi, rassegnati, hanno paura per il loro futuro. Dopo 62 anni di sofferenze, umiliazioni e rabbia la speranza se n’è quasi completamente andata.





Fayrouz

Sanarji'u (We shall return)


We shall return to our village one day
and drown in the warmth of hope
we shall return
though time passes by
and distances grow between us.

O heart don't drop wearied
on the path of our return
how it wounds our pride
that birds tomorrow will return
while we are still here.

There are hills
sleeping and waking on our pledge
and people who love
their days comprised of waiting
and nostalgic songs
places where willows fill the eye
Bending over the water
while afternoons in their shade
drink in the perfume of peace.

We shall return
the nightingale told me
when we met on a hill
that nightingales still
live there on our dreams
and that among the yearning hills
and people there is a place for us
0 heart then
how long has the wind scattered us.
Come, we shall return
let us return.
* Questo dato comprende anche seconde e terze generazioni di palestinesi ma si tratta di una proporzione di massima non esistendo, com'è ovvio, statistiche precise a riguardo.

martedì 4 maggio 2010

Tra i banchi di scuola in Medio Oriente

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C'è la scuola superiore dove le famiglie della Damasco bene mandano a studiare le proprie figlie; c'è la scuola femminile di Yarmuk, dove oltre il novanta percento degli studenti sono figli di rifugiati palestinesi; c'è la scuola media di Jaramana, organizzata su due turni per riuscire ad assorbire le decine di ragazzi iracheni arrivati negli ultimi anni; c'è la scuola elementare maschile nella periferia rurale damascena, dove i ragazzini siriani, oltre alle materie curriculari, imparano anche i primi rudimenti di agricoltura e zootecnia.

Un interessante documentario prodotto dalla BBC sul sistema educativo in Siria. Gli autori hanno filmato quattro scuole nella città di Damasco durante un intero anno scolastico, restituendo un ritratto del Paese che va contro molti degli stereotipi occidentali sul mondo arabo.



BBC/Open University

What’s it like to grow up in Damascus, the oldest capital city on earth, deep in the heart of the Arab world?
Syrian School does something no series has done before. The production team have been allowed a remarkable degree of access so you can follow a year in the life of four schools in Damascus, a high pressure crossroads in the Middle East. Filming real life in schools, in homes and on the street, this programme creates a unique portrait of education and family life in a city that has rarely, if ever, been seen in this sort of intimate detail.



Syrian School - Part 1 from Yazan Badran on Vimeo.

domenica 18 aprile 2010

La Rivoluzione

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Siria, deserto orientale. Sei ore di viaggio in un pullman di linea puzzolente degli anni settanta, senza spazio per le gambe e con l’intrattenimento di ben DUE film egiziani. Arriviamo a Raqqa, una polverosa cittadina che da’ il nome a tutta la provincia settentrionale sull’Eufrate. Il letto del fiume si trova appena prima della città, placido e melmoso. Un paesaggio surreale, dove un corridoio verde di campi coltivati interrompe una distesa sconfinata di sabbia.

Decidiamo di proseguire, la nostra meta finale è il lago al-Assad poco più a Nord. Riusciamo a farci portare alla stazione degli autobus, e con 25 centesimi a testa prendiamo la strada per la città di ath-Thaura, fiduciosi di poter trovare un ostello di un qualche tipo. Il pullmino sgangherato corre sulla strada piena di buche. Siamo dentro in dodici e mi tengo lo zaino sulle ginocchia, mentre una litania coranica ci tiene compagnia durante il viaggio.

Ath-Thaura, in arabo rivoluzione. Una città nata e cresciuta tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, quando si è trovata ad ospitare le migliaia di operai reclutati per costruire la diga più grande del Paese, la diga Tabqa. Una città costruita sul sogno del partito Ba’ath – il partito siriano di orientamento socialista ancora oggi al potere – di poter trasformare questo pezzo di deserto nel granaio del Paese, sviluppando un’agricoltura moderna e meccanizzata (con ancora poco successo, in realtà). Una città che si è sviluppata sulle rive di uno dei più grandi laghi artificiali del mondo, alla cui creazione hanno contribuito quasi 13mila persone, tra manodopera locale e ingegneri sovietici - erano gli anni della cooperazione economica tra Mosca e Damasco.


Ad ath-Thaura non ci sono alberghi, e non sembra una città particolarmente accogliente. Sono le dieci di sera, il conducente ci da’ dei pazzi per esserci avventurati in questa zona senza avere nessun contatto. Stiamo quasi pensando di tornare a Raqqa quando Mahmud - carnagione scura, tunica blu lunga fino ai piedi e sandali – dal fondo del pulmino si offre di ospitarci a casa sua. Ospitare tre sconosciuti (io, mio fratello e un suo amico) in zaino da campeggio che balbettano due frasi in arabo. Qui pare la cosa più naturale del mondo. Facciamo i kilometrici controlli di rito, ci registriamo alla stazione di polizia dando fotocopie fronte e retro, e poi ancora fronte del nostro passaporto. Ora siamo ufficialmente sotto la responsabilità e la protezione di Mahmud, ci dice il poliziotto, si scusa per i controlli ma questa zona è sotto un controllo particolare per via della diga.

Casette bianche col tetto piatto, con un cortiletto interno pavimentato e il bagno all'esterno (così uno può sopportare i disturbi intestinali contando le stelle nel cielo); bambini e giovani che corrono scalzi per strada e che ci guardano incuriositi; donne velate che ci osservano dalle piccole finestre delle loro abitazioni. Il quartiere a un certo punto sembra quasi fermarsi al nostro passaggio. I tradizionali “Welcome, welcome!” – ormai un marchio di fabbrica in qualunque area turistica mediorientale – qui non sono ancora arrivati e lasciano spazio a uno stupore e a una curiosità sorprendenti nella loro semplicità.


La notizia del nostro arrivo deve averci preceduto, a casa del nostro ospite tutta la famiglia ci sta aspettando. Ci sono almeno altri otto fratelli (sicuramente me ne son dimenticato qualcuno), ci sono i figli di un paio di questi che ci scorrazzano attorno. C'è la capofamiglia - un personaggio che sembra uscito direttamente da qualche epopea beduina di altri tempi, se non fosse per la sigaretta che tiene tra le dita - con un vestito nero che la copre dalla testa ai piedi e che lascia intravedere solo le rughe del viso. Ci togliamo le scarpe e le calze, ci portano in cortile dove c'è una bacinella e del sapone. Sempre sotto gli occhi del quartiere, ci laviamo faccia e piedi - addirittura una donna ci porta via le calze per lavarcele a mano - e torniamo dentro.


Il pavimento della stanza è ricoperto di tappeti, la gente siede per terra. Si parla di tante cose. Di quello che facciamo noi, del loro lavoro - sono quasi tutti muratori e stuccatori che girano per lavoro, vanno e vengono da Giordania, Libano, Damasco - di religione – sono musulmani sunniti praticanti - della famiglia. Far capire che ho studiato storia mediorientale e che lavoro per una organizzazione non-profit risulta piuttosto semplice, anche se non riescono a spiegarsi cosa ci faccia un italiano così lontano da casa. Però quando dico loro che ho quasi 26 anni e non son ancora sposato non ci crede nessuno, e per rafforzare il concetto mi presentano i bambini di uno di loro, ormai sposato e padre di famiglia a 25 anni. Dell’Italia non sanno niente, se non che ha una squadra di calcio dove giocano “Totti, Del Piero, Baggio”, e che sicuramente le ragazze là sono bellissime. Non ce n'è uno che parli una parola di inglese - è molto divertente vedere i miei compagni di viaggio destreggiarsi in grandi conversazioni gestuali mentre io cerco di tradurre almeno il senso di quello della loro comunicazione. Mi sto così crogiolando nel mio terzomondismo quando uno dei fratelli più grandi, sui 35-40 anni mi allunga il suo telefono per farmi vedere un paio di foto sul cellulare: Jean-Claude Van Damme e Jackie Chan, i suoi due attori preferiti. Non mi ero proprio accorto della televisione con tanto di decoder per il satellite.

E poi arriva la cena. Pollo con riso speziato, hommos (la crema di ceci), verdure, pane arabo, e naturalmente tanto tè. Un classico dell’ospitalità araba, ma sempre gradito. Hanno preparato tutto le donne di casa ma non si fanno vedere: in quanto maschi e in quanto non appartenenti alla famiglia (essere stranieri poco importa), ci è consentito mangiare solo con gli uomini della famiglia. Solo quando mi alzo per andare a lavarmi le mani nel cortile le vedo, sorridenti ne sedute in cerchio a discutere e mangiare tra di loro. Alcune di loro fumano sigarette, cosa che nella cultura beduina non viene considerata sconveniente.

Ci preparano i letti per la notte e ci lasciano tutto il salotto, dove presumibilmente di solito deve dormire tutta la metà maschile della famiglia. Questa sera dormiranno fuori nel cortile o in corridoio, e ovviamente non possiamo farci niente. Così come non potremo rifiutare la colazione del giorno dopo a base di falafel, crema di yogurt, aglio, carne, e ceci, patate fritte, uova, olive e formaggio. E una visita al lago con il loro camioncino.

In una zona del genere, dove la popolazione è da secoli abituata a convivere col deserto e le sue durezze, l’ospitalità finisce per essere la base della vita sociale comunitaria. Ospitalità vuol dire mettere a disposizione dell’ospite tutto, vuol dire offrire le cose migliori che si hanno senza chiedere niente o quasi in cambio. Non sempre è facile per un occidentale accettare pienamente questo tipo di ospitalità, che significa anche essere completamente in balia dell’ospitante e dei suoi programmi (e al quale non ci potrà sottrarre). Significa anche condividere una socialità intensa e totalizzante al quale forse non siamo più avvezzi, abituati a una distinzione tra pubblico e privato che assume confini molto diversi.
N.B.: Ringrazio Dimitris per le belle foto che potete vedere, è stato lui a documentare il viaggio

lunedì 15 marzo 2010

Il Libano, Israele, gli indiani..e una mucca!

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E' un articolo un po' datato, risalente all'estate scorsa, ma con un suo perchè..

Libano-Israele: tanto rumore per… una mucca!
di Lorenzo Trombetta
Rubrica Damasco-Beirut, Limes

Turbanti blu indiani della missione Onu schierata nel sud del Libano (Unifil) intenti a spargere sale su una vacca 'israeliana', morta dopo esser scivolata in territorio libanese: non è il titolo dell'ultima fatica cinematografica di Lina Wertmuller, ma la scena che si è presentata lo scorso 19 agosto a un ipotetico passante lungo il settore orientale della Linea Blu di demarcazione tra il Paese dei Cedri e lo Stato ebraico.

Vittima dell'arsura ferragostana, una mucca assetata proveniente dalle colline di Kfar Shuba, rivendicate dal Libano e occupate da 42 anni da Israele, è scesa a valle verso un fontanile in località 'Bab Hassan' (la porta di Hassan). Alla vista dello specchio d'acqua, la mucca sembra abbia inciampato scivolando in un 'wadi' solitario. Sotto il sole e forse con uno o più arti fratturati, l'animale è presto passato a miglior vita, offrendo il suo corpo all'appetito di rapaci e altri animali che popolano uno dei confini più caldi del Medio Oriente.

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sabato 27 febbraio 2010

Un fiorino!

2 commenti:

Dove i volontari italiani provano a fare le cose per bene, con metodo, informandosi prima. Dove decidono che ne sanno a sufficienza per richiedere il permesso di soggiorno, e allora ci provano davvero.

Prima tappa. Stazione di polizia di Jabal Hussein.

Poliziotti all’entrata.

- Cosa volete?
- Siamo stranieri, dobbiamo rinnovare il permesso di soggiorno. Siamo italiani. La nostra ambasciata ci ha detto di venire qui per il rinnovo del visto.
- Dove abitate?
- Jabal al-Lweibdeh.
- Di che nazionalità siete?
- Siamo italiani.
- Ok, prego. Terza porta sulla destra.

Rapidità encomiabile. Stai a vedere che la cosa si risolve in un attimo. Altro che la burocrazia italiana.

Terza porta sulla destra. Sono dentro in quattro.

- Siamo italiani, vorremmo rinnovare il permesso di soggiorno e…

Nessuno dei quattro apre bocca, solo uno muove leggermente la testa verso destra. Un movimento rapido e impercettibile – solo chi è stato nei Paesi arabi sa di cosa parlo – ma inequivocabile: abbiamo sbagliato porta, dobbiamo andare nell’ufficio a fianco.

Quarta porta sulla destra. Tre poliziotti, un uomo e due donne.


- Cosa volete?
- Vorremmo fare il rinnovo del permesso di soggiorno per tre mesi e..
- Da dove venite?
- Italia.
- Dove abitate?
- Jebel al-Lweibdeh. Ci hanno detto di venire qua e…
- Uhm, al-Lweibdeh. No, non è qua che dovete venire.
- Ma veramente.. l’ambasciata ci ha detto…
- Tsk, Tsk. Dovete andare alla stazione al-Madina.
- Ma questa stazione è più vicina a casa nostra. Davvero dobbiamo andare là?
- Si, sicuro.

Seconda tappa. Stazione di polizia al-Madina.

Wasat al-Balad, città vecchia di Amman. La parte più bassa e più inquinata della città, la più incasinata, la più affascinante. Il taxi ci mette un’ora per fare il chilometro di strada che separa il nostro ufficio dalla downtown ammanita.

Eccoci alla stazione al-Madina. Un poliziotto ventenne in tuta mimetica, la carnagione scura tipica dei giordani di origine beduina, ci accoglie.

- Cosa volete?
- Siamo italiani. Siamo qui per il permesso di soggiorno. Ci hanno mandato da Jabal Hussein e…
- Prego. Di sopra.

Mentre saliamo andiamo incontro a una nuvola di polvere. Degli operai stanno tirando giù dei calcinacci dai muri. Arriviamo al secondo piano. Due stanze sono completamente sventrate, non si riesce nemmeno a respirare per la quantità di polvere. Guardando meglio intravediamo degli agenti. La stazione di polizia è proprio su questo piano.

Entriamo in uno degli uffici appena rinnovati. L’odore di vernice è veramente fastidioso, devono aver ridipinto la stanza qualche ora prima.

- Cosa volete?
- Siamo italiani. Siamo venuti qui per fare il rinnovo del visto e..
- Dove abitate?
- Abitiamo a al-Lweibdeh.
- Ah. Ma allora non dovete venire qui.

Ecco. Lo sapevo che dovevamo insistere a Jabal Hussein. E noi che ci siamo fidati..

- Ma come? Ci hanno mandato qua da Jabal Hussein. Hanno proprio specificato di venire qua.
- Un attimo. Prego, sedetevi.
- Veramente stiamo volentieri in piedi. E’ tutto il giorno che stiamo seduti.
- Prego, sedetevi.

La stazione è un brulicare di gente in divisa. Nella stanza accanto alla nostra ci sono cinque poliziotti, forse sei. E una gabbia metallica con dentro un ragazzino. Sembra di vedere una di quelle serie americane degli anni settanta-ottanta, dove c’è sempre un borseggiatore che viene portato in centrale per “accertamenti”.

Diverse persone si avvicendano nel “nostro” ufficio. Io e Marta ci rialziamo, non ne possiamo più di stare seduti. Io faccio per appoggiarmi al muro, giusto il tempo di impiastricciarmi la giacca di vernice bianca ancora fresca.
Arriva un altro agente. Confabula con quello di prima, poi si rivolge a noi.

- Cosa volete?
- Siamo italiani. Siamo qui per il permesso di soggiorno..
- Dove abitate?
- Stiamo a Jabal al-Lweibedeh..
- Sicuri che dovevate venire qua?
- Si si, ci hanno proprio detto così..
- Un attimo. Prego, sedetevi.
- No grazie, rimaniamo in piedi.
- No, per favore. Sedetevi.

Torniamo a sederci. Fuori dalla stanza gli operai stanno stuccando il corridoio sotto gli occhi di mezza centrale. Il ragazzino nell’altro ufficio è sempre nella gabbia, però ora sta sorseggiando una Mirinda (tipica bevanda giordana al gusto di zucchero).

Chissà chi tra noi uscirà prima da qua.

Ritorna il primo ufficiale che avevamo incontrato. Lavora al computer, ci chiede i passaporti, ci chiede il test dell’AIDS che abbiamo appena fatto per poter chiedere il rinnovo. Forse ci siamo. Ci fa segno di seguirlo. Bisogna incontrare il mudir, il comandante della stazione. Ripassiamo di nuovo attraverso la nebulosa di polvere e ci troviamo in una sala molto elegante. Ci accoglie un uomo sulla quarantina, con fare cordiale. Scribacchia i nostri nomi su un promemoria. Torniamo nell’ufficio di prima. Riconsegniamo il passaporto e il test dell’AIDS. L’impiegato tira fuori un timbro da una cassetta di sicurezza.

Questa volta è fatta. Oso chiedere conferma.

- Questo è il visto per i tre mesi giusto?
- Si, cioè..no.

- In che senso?
- Questa è l’attestazione di residenza. Non posso farvi il permesso di soggiorno.
- E quindi?
- Dovete andare alla stazione di polizia Filadelfia. Domani però, perchè adesso l'ufficio è chiuso.
- Ma quindi qui non avete fatto..cioè non è possibile fare…dobbiamo proprio tornare…
- Stazione Filadelfia. Bukra (domani).

Terza tappa. Stazione di polizia Filadelfia.

Questa volta ci portiamo rinforzi. C’è con noi Amin, il responsabile logistica del nostro ufficio, uno di quei personaggi che difficilmente avrebbero un senso fuori da un Paese mediorientale. Questa volta la stazione di polizia è situata dalla parte opposta del centro città, verso l’antico Teatro Romano. Ci ributtiamo nel traffico, facendo lo slalom tra i taxi clacsonanti e i camioncini del gas.

La stazione di polizia Filadelfia sta sopra un negozio di vestiti.

Mi vien da pensare che non sia un buon segno.

Al piano terra ci sono due agenti.

- Salve. Siamo qui per il permesso di soggiorno. Siamo italiani e dovremmo fare il rinnovo dei tre mesi..
- Si. Dove abitate?
- Abitiamo a Jabal al-Lweibdeh.
- Perché siete venuti qua?
- Ci hanno detto di venire qua. Siamo andati a Jabal Hussein e ci hanno detto di andare nella stazione di al-Madina. Da al-Madina ci hanno mandato qua.
- Di che nazionalità siete?
- Italiani.
- E dove avete detto che abitate?
- A al-Lweibdeh.
- Un attimo. Prego.

La guardia ritorna al suo gabbiotto. Alza la cornetta del telefono, discute animatamente col suo interlocutore. Si gira verso di me.

- Mi spiace. Oggi non si può.

Gelo.

- Perché non si può?
- Non si può. Il computer è rotto. Non si può fare niente fino a domenica prossima. Tornate settimana prossima.
- Come rotto? Ma non possiamo tornare domenica! Abbiamo bisogno di farlo ora!Ma c’è solo un computer in tutto l’ufficio?
- Mi spiace.
- Non possiamo andare da qualche altra parte?
- No.
- Non c’è nessun posto dove possiamo andare per il rinnovo del permesso di soggiorno?
- No. Però se volete potete andare alla stazione di Marka. Magari lì ve lo fanno, insh'allah.

Beato fatalismo. Ritorniamo da Amin, che ci aveva atteso in macchina. Ormai la giornata è persa, tanto vale provare anche Marka. Nel frattempo si alza il vento, trascinandosi dietro delle minacciose nuvole nere. Tutto congiura contro il nostro permesso di soggiorno. Amin chiama qualcuno per avere indicazioni su dove sia la stazione di polizia. Dal tono concitato della telefonata sembra che stia utilizzando il suo aiuto da casa, e non voglia assolutamente sprecarlo.

Quarta tappa. Stazione di polizia di Marka.

Marka, zona di periferia, una delle aree di Amman a più alta densità di popolazione palestinese, a mezz’ora di macchina dal nostro ufficio. Questa volta Amin entra con noi. Andiamo dritti al secondo piano, ci dirigiamo verso una stanza dove due ufficiali stanno amabilmente conversando. Lasciamo le presentazioni ad Amin, per cinque minuti buoni è lui a condurre il gioco. Poi uno degli agenti si gira verso di noi e sorride.

- Italiani? Conosco l’Italia.. sono stato a Vicenza, molto bello.. voi di dove siete?
- di Milano.
- Ah, bella città. E cosa volete?
- Abitiamo a Jabal al-Lweibdeh, volevamo chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno per tre mesi e..
- A Jabal al-Lweibedeh?
- Si.
- Ma non dovreste farlo qua.
- Ci hanno detto di venire qua. Siamo andati a Jabal Hussein, poi alla stazione di Madina, poi a quella di Filadelfia ma c’era il computer rotto.

Ormai è diventata una questione di principio. Sono pronto ad andare a chiedere il rinnovo anche ad Aqaba se necessario. Invece succede l'impensabile.

- Dovevate venire subito da me. Anzi, d’ora in poi venite sempre qua, ve lo faccio io. Mi piace molto il vostro Paese. Si mangia davvero bene.
- Grazie, ma..
- Datemi i passaporti, faccio in un attimo.

Dopo un minuto ci restituisce i passaporti. Non crediamo ai nostri occhi, il rinnovo effettivamente c'è.


Usciamo dalla stazione ancora rintronati, chiedendoci se tutto ciò abbia avuto un qualche senso. Forse è il caso di berci sopra del te'...

sabato 20 febbraio 2010

L'uomo del fare

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INTERVISTATORE: “In questi primi dieci anni di regno Lei ha radicalmente trasformato l’economia della Giordania. Si tratta di un Paese senza risorse naturali che è riuscito a crescere in modo costante e consistente. Come ci è riuscito? Quali sono le lezioni che Lei ha imparato da questa esperienza?”

RE: “Prima di tutto, mai arrendersi. Non accettare “no” come risposta. Ci sono settori della società giordana che alle mie proposte di riforma sociale non fanno che rispondermi “tsk”, che questa cosa non potrà mai accadere perché è impossibile, perché non ci sono i soldi, ecc.. Ma non bisogna lasciarsi intimidire dai “no” che arrivano dalla società. Si cade, ci si rialza e si continua a provare. Io sono quel tipo di persona che vuole che le cose siano fatte oggi, e non domani. Dobbiamo dare un futuro alle giovani generazioni, bisogna dar loro un’istruzione, e la Giordania può davvero rappresentare un modello per l’intero Medio Oriente. Bisogna avere coraggio, non accettare la sconfitta e non accettare un “no” come una risposta ai nostri tentativi di cambiare le cose”.

Un uomo del fare, di quelli che piacciono tanto anche a noi in Italia. Così re Abd’Allah di Giordania ha cercato di presentarsi all’opinione pubblica internazionale. In questa intervista, condotta da Fareed Zakaria di Newsweek International in occasione del World Economic Forum di Davos di qualche giorno fa, Abd’Allah non si è risparmiato, parlando per oltre mezz’ora sui grandi temi della politica interna e regionale del suo Paese: la questione palestinese, le relazioni regionali e internazionali con l’Iran, la promozione di riforme economico-sociali in Giordania e lo stato del processo democratico nel suo Paese. Dimostrando anche doti di eccellente comunicatore.




I temi dell'intervista

La Questione Palestinese

Abd’Allah è da tempo un convinto sostenitore della soluzione dei due Stati, secondo le linee guida della
Arab Peace Iniative formulata dalla Lega Araba nel Summit di Beirut del 2002. Le ipotesi circolanti su un possibile impegno politico o militare del suo Paese in Cisgiordania, alimentate da alcuni politici israeliani, vengono invece smentite con forza: è lo stesso re a riconoscere che i territori sulle due rive del Giordano sono ormai due entità politico-nazionali ben distinte, e gli stessi palestinesi rimasti in Cisgiordania non sarebbero favorevoli a un ritorno di fiamma pre-1988. Senza contare che il suo Paese, già in difficoltà sotto la pressione di oltre 3 milioni di palestinesi (tra rifugiati e non) e di 400mila rifugiati iracheni, non sarebbe in grado di farsi carico di un territorio economicamente e socialmente devastato.

Il re ha sottolineato la scarsa credibilità di cui godono gli USA in questo momento presso gli stati arabi. Anni di politiche scriteriate da parte dell’amministrazione Bush, così come un’azione ancora timida e inefficace da parte del governo Obama hanno suscitato seri dubbi sulla capacità degli Americani di favorire un processo di pace duraturo tra Israele e Palestina. Abd’Allah è però ben cosciente che rinnovati negoziati di pace senza il sostegno attivo degli Stati Uniti sono semplicemente impraticabili. L’auspicio è che Obama cominci finalmente a esercitare una leadership forte e illuminata, e che i primi progressi possano già vedersi in occasione del prossimo summit della Lega Araba (in programma in Libia nel mese di marzo). Altrimenti anche la soluzione dei due Stati diventerà presto un miraggio, condannando la regione mediorientale alla perenne instabilità.

Questione iraniana e lotta al terrorismo

Il re è convinto che il conflitto israelo-palestinese sia la principale causa delle relazioni tumultuose tra il mondo arabo e il mondo musulmano da una parte, e il mondo occidentale, di cui Israele rappresenta una sorta di avamposto, dall’altra. Come sottolineava già in una precendente
intervista, sono infatti ben 57 gli Stati che ancora oggi non riconoscono Israele (quasi un terzo delle Nazioni Unite), più di quelli che non riconoscono la Corea del Nord. Da questo peccato originale, secondo Abd’Allah, discenderebbero anche le tensioni tra l’Occidente e l’Iran – quest’ultimo fattosi protettore dei diritti dei palestinesi e dei libanesi sciiti in chiave anti-israeliana – oltre che la diffusione del terrorismo di matrice islamica in diversi Paesi, tra cui la Giordania.

La lotta al terrorismo rappresenta una priorità del Paese da parecchi anni, addirittura da prima degli eventi del 11/9. La necessità di garantire la sicurezza interna - anche questo angolo di Medio Oriente ha avuto il suo 11 settembre di sangue, rappresentato dagli attentati di Amman nel novembre 2005 – è il presupposto che legittima il governo giordano a intervenire in diverse aree del mondo per combattere Al-Qaeda. Spesso lavorando in stretta collaborazione con gli americani, come rivelato di recente dalla
morte di un agente dell’intelligence giordana, impegnato in Afghanistan a fianco di alcuni agenti CIA.

La Giordania, la modernità e il processo democratico*

Il re tenta in ogni modo di accreditare l’immagine di una Giordania lanciata verso la modernità, stabile ago della bilancia in Medio Oriente. Un Paese musulmano “moderato”, di mentalità aperta e tollerante, che condanna apertamente l’estremismo islamico e gli atti terroristici, che si spende per il dialogo interreligioso - come sottolineato dall’iniziativa “
A Common Word” e dalla recente visita del Papa ad Amman – che cerca di incoraggiare un ambizioso programma di riforme interne per favorire la partecipazione democratica. Abd’Allah è convinto che un sistema non possa diventare democratico solo grazie a riforme istituzionali calate dall’alto, quanto piuttosto in ragione di un maggiore coinvolgimento dal basso delle forze progressiste della Giordania. Per questo è necessario incoraggiare la creazione di una middle class attenta ai problemi del Paese, rispettosa degli interessi della collettività e competente nella gestione della cosa pubblica. Per questo è necessario coinvolgere le comunità locali nel processo decisionale, secondo una strategia di decentralizzazione dei poteri che si vorrebbe maggiormente rispettosa delle diverse tessere identitarie che compongono il mosaico giordano (la divisione del Paese in governatorati va in questa direzione).

*Gli analisti politici non sono concordi nel giudicare l’azione riformatrice della monarchia, soprattutto a livello politico. In particolar modo, il recente scioglimento del Parlamento e la decisione di posticipare le elezioni alla fine del 2010 sembrano mettere in dubbio la veridicità dell'attuale processo di democratizzazione.

venerdì 22 gennaio 2010

A 150 chilometri da Amman

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Il mio primo pensiero è stato di uscire dalla sala. Una bambina viene mostrata in primissimo piano, su un letto di ospedale. Viene circondata da due medici, che le praticano iniezioni, che le infilano dei tubi su per le narici del naso, che tentano disperatamente di rianimarla. La videocamera si avvicina morbosamente ancora di più, si ferma sui suoi occhi vitrei spalancati. Ma la bambina è già morta. L’inquadratura cambia, va a riprendere un padre di famiglia disperato. Davanti a lui il corpo esanime del figlio di tre anni, colpito da una bomba nei pressi del parco giochi del suo villaggio.

Gennaio 2009, Striscia di Gaza. Israele ha appena lanciato l’operazione Cast Lead (“Piombo fuso”), con l’obiettivo di colpire le infrastrutture militari di Hamas e assestare un duro colpo all’organizzazione palestinese. Gaza, uno dei territori a più alta densità di popolazione del mondo, viene prima bombardata e poi invasa da truppe di terra, subendo nell’arco di tre settimane di conflitto pesanti perdite civili.

To Shoot an Elephant, documentario proiettato nei giorni scorsi alla Royal Film Commission di Amman, è un resoconto visivo scioccante di quei 21 giorni. Nato dalla collaborazione tra il freelance spagnolo Alberto Arce e l’attivista palestinese Mohammad Rujailah, To shoot an Elephant segue le eroiche operazioni di soccorso prestate alla popolazione civile da parte di medici, infermieri e personale paramedico di ogni sorta, mostrando come si possa fare embedded journalism anche al fianco della Mezzaluna Rossa. Il risultato sono quasi due ore di immagini crude, sgradevoli, in certi punti insostenibili. Ma che rimangono una delle poche testimonianze dirette di ciò che è accaduto, e che non deve essere dimenticato.

Qui potete scaricare gratuitamente il documentario (in licenza Creative Commons). Per chi volesse approfondire la questione segnalo lo speciale di Al-Jazeera (l’unico grande media network ad avere dei corrispondenti sul posto durante gli eventi) e il corposo rapporto stilato dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani.

sabato 16 gennaio 2010

Il sole a strisce.0

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Le ragazze escono dalle celle a piccoli gruppi e si allineano nel cortile interno. Filippine cingalesi, indonesiane: ne contiamo circa quaranta, ma probabilmente ce ne sono almeno altrettante rimaste dentro. Basta volgere lo sguardo alle porte di ferro ormai chiuse, dove decine di volti incuriositi si alternano febbrilmente dietro gli spioncini. Devono avere tra i venti e i trent’anni, forse di più. Alcune ci salutano con un sorriso, incredule di ricevere finalmente una visita.

Siamo nella sezione femminile del carcere di Juweideh, periferia meridionale di Amman. Qui si trova l’unico carcere femminile della Giordania, con tanto di sezione per le cosiddette detenute temporanee. Qui vengono condotte le donne immigrate clandestine con permesso di soggiorno scaduto.

Riesco a parlare con una ragazza filippina. Con la voce rotta dal pianto mi racconta di esser venuta in Giordania per lavorare come collaboratrice domestica, e di esser stata trovata dalla polizia sprovvista di permesso di soggiorno. Non si può permettere di pagare la multa, così le autorità la trattengono in carcere. Un’altra ragazza mi dice di aver già pronti i soldi per potersi “comprare” l’uscita dal Paese, e di aver ancora abbastanza denaro per il viaggio di ritorno nelle Filippine, ma per qualche ragione è ancora in carcere. Qualcosa deve essersi inceppato ed è ancora qui, da più di due mesi.

Sono partito da questa piccola esperienza per raccontare il dramma delle lavoratrici domestiche straniere in Giordania. La stragrande maggioranza di queste provengono dall’Asia Meridionale e Orientale, soprattutto da Indonesia, Filippine e Sri Lanka. Lasciano il Paese di origine sperando di trovare qui un lavoro dignitoso, contribuendo così a sostenere la famiglia rimasta in patria, ma finiscono spesso in una spirale interminabile di sfruttamento: sono vittime di abusi e maltrattamenti – se non di veri e propri pestaggi - da parte dei propri datori di lavoro; lavorano dalle 16 alle 19 ore giornaliere, spesso dovendo aspettare mesi per ricevere lo stipendio o parte di esso (a volte sono le agenzie di reclutamento a trattenere parte dei soldi); vengono tenute segregate nella casa dove lavorano per impedirne la fuga.

A volte, anche quando le ragazze riescono a fuggire, l’amara sorpresa è dietro l’angolo. Impossibile lasciare il paese: il datore di lavoro, responsabile per legge dell’adempimento, non ha mai provveduto all’estensione del loro permesso di soggiorno. Non potendo pagare la multa – ogni giorno di presenza irregolare in Giordania costa alla persona un dinaro e mezzo – le ragazze finiscono così in carcere, senza sapere se e quando riusciranno a uscire. In alcuni casi la situazione è ancora peggiore: non volendo rischiare conseguenze penali o amministrative per l’irregolarità, alcune famiglie cercano di liberarsi delle lavoratrici denunciandole alla polizia per maltrattamenti o per furto (è recente la notizia di una collaboratrice cingalese imprigionata, e poi rilasciata per mancanza di prove, in seguito all’accusa di aver rubato alcuni gioielli e aver abusato della bambina della famiglia presso cui lavorava).

Del resto, come mi dice una terza ragazza a Juweideh, la fuga può anche essere sorprendentemente breve. Una volta raggiunto il miraggio del rimpatrio, molte sue connazionali hanno ripreso subito la strada della Giordania, finendo nuovamente in carcere. Lei però non ci potrà riprovare: sul passaporto le hanno messo un timbro recante la scritta “Denied Entry”, che verosimilmente le impedirà di rivedere le colline di Amman per almeno cinque anni.

Secondo Amnesty International sarebbero oltre 70.000 le collaboratrici domestiche presenti in Giordania, di cui circa 30.000 non registrate. Diverse organizzazioni, tra cui Human Rights Watch, hanno denunciato questa pratica, in contrasto con le stesse leggi giordane. Lo stesso governo si sarebbe impegnato a emendare la propria legislazione del lavoro, promettendo di dedicare un’attenzione specifica ai diritti delle lavoratrici domestiche.


Per chi volesse ulteriormente approfondire la questione:
Report di Amnesty International;

Analisi di Human Rights Watch sulla nuova legislazione del lavoro in Giordania;

Articolo del Jordan Times a proposito di un recente caso di maltrattamento.

martedì 1 dicembre 2009

'Id, Damasco

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La ‘Id Al Adha, o “Festa del Sacrificio”, è una delle feste più sentite dai musulmani, paragonabile per importanza alla Pasqua cristiana. La famosa cerimonia dello sgozzamento del montone ricorda il medesimo sacrificio rituale che Ibrahim (Abramo) fece per adempiere alla volontà di Dio. Commemorando le gesta di Abramo, arrivato quasi a sacrificare il suo unico figlio Isma'il pur di superare le prove divine, la ‘Id vuole celebrare la fede e la totale sottomissione a Dio. Durante questi giorni (i cosiddetti “giorni della letizia”) ogni forma di digiuno è severamente proibita, le famiglie si riuniscono per mangiare i tradizionali piatti di carne di agnello, e anche i più bisognosi non vengono dimenticati (partecipano ai banchetti o ricevono direttamente dalle famiglie una parte dell'animale macellato).

Per un turista occidentale, andare a Damasco durante i giorni di ‘Id può essere un esperienza alquanto surreale. La prima impressione è che la città sia anestetizzata. I negozi fuori dal centro sono tutti chiusi, per le strade si aggira solo qualche venditore ambulante con il suo baracchino di cianfrusaglie. I tassisti sono pochi e svogliati, per andare in qualunque parte della città bisogna rinunciare al rassicurante tassametro.

La città vecchia, soprattutto a partire dal pomeriggio, è invece l’esatto contrario. Una bolgia che comincia dal suq al-Hamidyie, sfavillante galleria ottomana dove si concentrano i negozi più eleganti della città, continua oltre la moschea Ommayade, epicentro dei festeggiamenti, e finisce a Bab Tuma, il quartiere cristiano dove si condensa la movida damascena. I tradizionali ristoranti, all’interno di stupende case con cortile, registrano alla sera il tutto esaurito. Con i negozi ufficialmente chiusi, ogni metro quadrato disponibile viene preso d’assalto da banchetti e carretti ambulanti: oggettistica religiosa, giocattoli per bambini e paccottiglia d’importazione, ma anche pannocchie lessate, succhi di mora e limone, fave, falafel e caramelle gommose.

Torme di bambini, adolescenti e giovani camminano scanzonati per i vicoli, rincorrendosi avanti e indietro tra la folla. C’è anche chi si spruzza con la schiuma da barba, chi cerca disperatamente di incunearsi tra la gente con un pratico e maneggevole SUV 4x4 - i più temerari hanno parcheggiato nei pressi della moschea - oppure chi si lascia prendere eccessivamente la mano dal clima di euforia (assistiamo in un solo giorno a ben tre risse, fatto più unico che raro a Damasco).

'Id, un prologo

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Decidiamo di partire per Damasco giovedì. Andiamo di buon passo alla stazione di ‘Abdali, in attesa di uno di quei fantastici taxi che per 11 dinari ti portano fino in Siria. Aspettiamo fiduciosi che il solito procacciatore di turisti ci abbordi con la domanda di rito: “’A-Shaam?” (per Damasco?). Invece niente. La piazza è silenziosa in una maniera inquietante; domani (venerdì) comincia la ‘Id, ci dicono, nessuno si muove dalla città.

Continuiamo, la vacanza in Siria non può proprio essere rimandata. Con qualche dinaro in meno in tasca rispetto al previsto, alla fine riusciamo a partire ugualmente. La strada si estende rettilinea, monotona, e attraversa il deserto giordano lasciandosi alle spalle minuscoli villaggi. Il tassista, tra una telefonata e l’altra, a un certo punto ci indica delle case di pietra diroccate. E un cammello.

"Lo vedi quello?" - ci dice - "E’ per la ’Id. La gente si sta preparando. Compra cammelli, mucche o montoni. Se in casa si è in tanti fratelli il cammello è la cosa migliore, anche se è una grossa spesa. Si può arrivare a spendere anche 1.500-1.800 dinari [stessa cifra in euro]. Mettiamo invece che i fratelli sono cinque. Con 1.200 dinari si comprano una mucca, la fanno macellare e poi la distribuiscono a tutti, anche ai poveri. Altrimenti se uno è da solo può scegliere di prendersi un montone a 200 dinari. E’ la soluzione più comoda, soprattutto in città. Ne stavo giusto parlando con mio fratello al telefono, così trovo tutto organizzato al mio ritorno domani ad Amman."

venerdì 6 novembre 2009

Vivere sani

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Girando per le vie di Amman capita a volte di imbattersi in banchetti curiosi. Come quello che vende succo di canna da zucchero. Il gestore ne prende una e te la trita al momento, facendola passare nel macchinario che potete vedere qui a fianco.

Ora, sapevo che i succhi di frutta fanno generalmente bene all'organismo; ma questo è niente in confronto agli effetti benefici che questa bevanda ammanita avrà sul vostro corpo. Traducendo direttamente dall'inglese giordano, e chiedendo venia per eventuali errori:

- sostegno sessuale (??)
- abbassamento del colesterolo
- prevenzione dell'arteriosclerosi
- pulizia del torace (intestino?)
- miglioramento della vista
- prevenzione della tensione nervosa
- prevenzione di dolori alle articolazioni
- attivazione della circolazione sanguigna

Nel dubbio, io l'ho provato. A parte il gusto, che comunque non è niente male, vi saprò dire qualcosa in più nei prossimi giorni. Attendo fiducioso.

mercoledì 21 ottobre 2009

"Baba, ci sono gli immigrati!"

6 commenti:
Shabab, abbiamo l'onore del primo post dall'estero!!

Si potrebbe partire da questo, dal figlio di 6 anni del nostro padrone di casa, che vedendoci arrivare dalla strada grida alla famiglia "baba, al muhajiriin!" (papa', ci sono gli immigrati!). Ora, chiunque in Italia si sarebbe un po' imbarazzato a ricevere un appellativo simile; noi, invece, sotto sotto siamo molto contenti di non esser stati ancora considerati degli ajnabi (stranieri).

L'avventura è cominciata molto presto. Forse prima del previsto, se consideriamo che la nostra cara Sce 2009 Sara ci ha raggiunto con un ritardo di 24ore. Risultato: ad attenderci all'aeroporto di Amman abbiamo trovato un "omino" di nome Farah, ora nostro collega. Immaginatevi 100 kg di uomo montati su 1,80m che, alle 3 del mattino, cerca di farsi riconoscere tenendo in mano un microscopico biglietto da visita col logo Caritas. Allo stesso modo, anche la casa Caritas è immensa (ci vuole un megafono per comunicare da una parte all'altra). E, prese le misure con la casa, adesso cominciamo a prenderle anche con il lavoro che ci aspetta. Con calma, senza fretta. Molto alla giordana.

Se a Roma si fa come i romani, ad Amman si fa come gli ammaniti.

A presto,
Marta e Davide (e Sara)

P.S. Un in bocca al lupo a tutti gli Sce, aspettiamo vostre news!!