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venerdì 24 aprile 2009

I sette pischelli - Vinto c'è!

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Che ci faccio io qui? Domanda che a volte arriva come un pugno alla testa. A dire il vero un paio di cose intellettuali, con cui non vi tedierò – ora no! – e poi c’è Vinto.

Martedì e giovedì pome, ore 17 circa, scappo traballando tra le mie valigie – computer, libri, pranzo al sacco come all’asilo – e salgo sul mio primo scassato bus. Circa 40 minuti su una strada diroccata, tutta dritta a parte le rotonde, e trafficatissima. Il mio viaggio si ferma a Quillacollo, romanticamente nota come l’antitesi/complemento a Tiwanaku, casa del sole, per la cultura andina è dove la luna riposa. Nulla di romantico in questa caotica piazza stile mercato in cui sbarco.

Mi intrufolo tra mille bus e persone e salgo su un camioncino di quelli tipo “il mezzo di trasporto adatto per il tuo lavoro!”, solo con i finestrini, muchas veces inchiudibili. Passa aria manco fossero una retina. In totale un’ora per arrivare da quella piccola banda di giovani che mi è stata regalata. Sette: Juan Carlos, Celedonio, Victor, Gerardo, Gregorio, Limber, Teófanes. Tutti ragazzi, tra i 15 e i 20 anni.

Tre mesi fa ho iniziato con la migliore vena efficientista. Sono qui a fare matematica e inglese, ecco. E facciamo, caschi il mondo, matematica e inglese. Però mancava sempre qualcosa. Alla fine, mi dicevo, tu non sai nulla di questi ragazzi, potrebbero essere chiunque, e loro di te. Così tra qualche cazzotto – metaforico, tranquilli! – qualche distenzione e l’insostituibile condivisione di qualche chicco di grano tostato o cioccolata, mi sembra di imparare qualcosa. A volte dolci, a volte conflittuali. Curiosi e a tratti sfuggenti, mi stanno insegnando che una vena di tenerezza e disponibilità a farsi trasformare, ricompensano. Umanamente con dei sorrisi, dei grazie, qualche storia sulla loro vita e mille domande sulla mia. E, ne sono certa, così loro impareranno meglio anche l’inglese!

giovedì 5 marzo 2009

Habemus casa

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Da due settimane abbiamo una casa qui a Cochabamba. Non che prima vivessimo in strada, sarebbe stata un po’ estrema come esperienza di servizio civile.. Vivevamo in una chiesa.

Ad essere precisi, nella casa parrocchiale di Condebamba. Nell’umile periferia di Cochabamba, un chiesa bianchissima e due preti grandiosi, un giardino con la frutta, una cucina grande e la mitica Irene cuoca. Molta gente in giro a diverse ore del giorno e anche della notte. Nessun party, cari miei, piuttosto molte storie e bisogni in cerca di soluzione e soddisfazione.

Per circa tre mesi, quando raccontavo che vivevo in una chiesa, amici e sconosciuti mi facevano quella faccia lì. Quella che ti dice che, insomma, chi ti sta davanti non può essere proprio sincero perché sta male fare commenti acidi su luoghi religiosi... ma che, appunto, qualcuno ci starebbe pure. Ma come, non esci? E i tuoi spazi? Ma vai a messa tutti i giorni? E se un giorno non torni o torni tardi? Quella batteria di domande che io stessa mi sono posta e che tre mesi or sono avrei fatto a mia volta.

In realtà la difficoltà più grande non stava nelle mancate uscite o nelle rinunce a chissà quale divertimento, di fatto poche e anche giustificate. La cosa più tosta, ho capito, è stato vivere dove non c’è orario per dare una mano, e neppure limite ad ascoltare. Tutto entra nella tua casa senza chiedere permesso. Storie belle e sorrisi, vicende tristi e impensabili senza distinzione. Difficile confrontarsi con tanto bisogno e solida generosità. Lo standard è alto, e la mia disponibilità, ho scoperto, fatta di una pasta più molle. Non lo dico con moralismo o chissà quale senso del peccato. Solo credo mi abbia messo molto in discussione convivere con questo mondo senza troppe pareti.

Ieri Martina è tornata a casa, quella che condividiamo io e lei nel centro della città, e mi ha inondato della vita di Condebamba. Passata di lì, ha trovato riunioni in sala, Padre Sergio – il mitico parroco di Condebamba – appresso a non so quale faccenda della sua comunità, i bimbetti fuori dalla chiesa che le danno un assalto di abbracci. In me si sono mischiati conforto e nostalgia: che serenità guardare la mia cucina con la porta chiusa, ma che perdita - di occasioni per imparare, conoscere e crescere - lasciare fuori tutta quella vita!

domenica 1 febbraio 2009

Do-me-ni-ca!

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Domenica pome, quel momento dei momenti liberi-noia-relax. Fa’ un tot che non scrivo sul blog, mi dico. Fa’ un tot che quell’idea oggi scrivo non mi attraversa la testa. Come sarà la domenica SCE? Oggi mi sento al mare.

Uno s’immagina l’esotico: viaggi per mete arrischiate, esplorazioni di quartieri off-limits. Oppure chessò, servizio: visita centro bimbi zona poverella, chiacchiera sui massimi sistemi, dove andrà questo sfigato paese?

E invece oggi domenica, calma. Sollevo presto il mio corpo dal letto, lui avanza verso doccia, mi baño, come si dice qui. Colazione! Mangio senza fretta le cose che piacciono a me – dubito, quasi solo a me: pappetta d’avena, succo di frutta, caffé.

Fuori sole. Libro in giardino, ecco, questo sí che è proprio un piacere, libro sotto il sole in giardino. Mi rapiscono le parole e seguo le frasi. Continuo finché lo stomaco reclama a ripetizione: ho fame!!!

Mangio, e da due giorni ogni volta mi stupisco di me. Ho una nuova amichetta, Molletta! Mangio io e poi pulisco gli avanzi già puliti e li propongo a questa miaaao. Bruttina e coccolosissima. Tutti qui mi dicono che i mici durano poco. Io mi dico che capperelli finché c’è, è Molletta! Molletta!
Esco con Marti che si è messa il cappello bianco da cuoca e compriamo le uova. Dieci, por favor. Sole che spacca le pietre ancora alle quattro. Caldo secco ma non troppo. Io passeggio al mare. In effetti in un mare di polvere e vento. Che bellezza i miei piedi scuriti dal sole e sporchi di terra!

mercoledì 17 dicembre 2008

Finalmente, Chapare

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Purtroppo avevo un sonno pazzo, e lungo il tragitto per il Chapare che mi avevano detto bellissimo ho dormito. Eppure curiosissima. Del Chapare, del tropico, qui a Cochabamba me ne avevano parlato più volte come di un paradiso. Fiumi, giungla! E tante volte era ritornato con quella cantilena “Ehe, se vedessi il tropico...” e dei puntini di sospensione che si allargavano nello spazio tra l’ultima parola ed un sospiro.
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Il Chapare si estende a est di Cochabamba dopo l’ultimo residuo di montagne boliviane. Zona di turismo, coca e frutta tropicale è incanto e orrore. Fiumi larghi e sinuosi carichi di pesci che nella stagione delle pioggie rubano spazio alla terra e uccidono esseri umani. Alberi altissimi e fecondi, fitta maglia verde che dona frutti. Pianta di coca che da’ pane ed energia ma può trasformarsi in polvere bianca e mortifera.

Finalmente, Chapare. Riapro gli occhi sulla strada per Eterazama, centro di poche case e tanta terra. Per noi abituati a posti in cui ci si pesta i piedi anche stando fermi, il Chapare è un verdissimo deserto.

Ad Eterazama ci andiamo per visitare una scuola in costruzione: corsi di infermeria, agronomia e informatica. La scuola è inspiegabilmente grande per i miei occhi, ma tra un succo di ananas e un fazzoletto pieno di sudore scopro che in quella zona che a me sembra deserta ci sono più di 8000 giovani. Con pochi sbocchi in loco, spesso emigrano verso le città o l’estero in cerca di lavoro, studio e stimoli. La scuola vuole mantenerli lì, con le loro famiglie e un lavoro dignitoso. Dignitoso nella paga ma anche nella costanza e possibilità di fare una vita serena.

Qui in Chapare non sempre si può. Da una parte i prodotti della terra – frutta tropicale, più che altro – sono venduti sul mercato interno e internazionale a prezzi troppo bassi per dirsi dignitosi o equi, dall’altra brucia la piaga della produzione di cocaina. La coca in Bolivia è prima di tutto una pianta tradizionale dai molti usi terapeutici e sociali. All’estero è nota per tutt’altro. Ondeggia nella testa la parola, e subito la lingua l’articola: cocaina.
Saltellando tra le buche e scansando le fronde abbondanti sulle strade del Chapare, penso che qui inizia quel viaggio infausto che passa mani e frontiere. In Chapare lascia soldi facili, insicurezza, disgregazione, violenza, mafie. Penso questo guardando un paesaggio meraviglioso e penso che sì, con i loro occhi abituati a tanta bellezza, i giovani di qui meritano davvero qualcosa di meglio! Bello!