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martedì 23 agosto 2005

Essere donna in Honduras

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Nasciamo differenti, nel fisico, nella modalità di sviluppare ragionamenti e sentimenti, dice la bibbia che Dio ci ha fatto "uomo e donna, differenti e complementari", ma mai, come quest'anno ho sentito tanto la marcata differenza sociale, di ruolo, di possibilità di sviluppare le proprie potenzialità che esiste tra i due generi.

L'Honduras mi sta dando la possibilità di rifletterci a fondo, vedendo e vivendo situazioni sulla mia pelle. Ho sempre rispettato tutte le culture, piu' o meno aperte nei confronti dell'ingresso della donna nella società, per questo non avrei pensato di trovarmi costretta a dire "povere le donne in questo paese, loro devono cavarsela in questa società maschilista".
Mi rendo conto che io fra qualche mese me ne vado e la costante sensazione di essere osservata, giudicata, poco presa in considerazione per quello che dico, se non terminerà del tutto, diminuirà notevolmente.
Le donne autoctone invece, molte delle quali sottomesse dal tipo di cultura maschilista, non hanno alternative migliori se non quella di sperare che i loro figli crescano con una mentalità un po' più progressista nei confronti del sesso femminile.

Come donna, cresciuta in un'altra cultura che ha fatto negli ultimi 50 anni passi giganti a favore dell' emancipazione della donna, che vive ora in un paese dove le donne sono in questo lungo cammino, soffro con loro quando si rendono conto della loro condizione sottomessa, si lamentano e desiderano trovare nella società uno spazio di più ampio respiro; e con loro spero che non siano solo giudicate per il numero di figli che hanno, per la loro condizione famigliare, se non per la loro capacità di pensare, di rendersi utili, dare idee e costruire un futuro diverso per il loro popolo.

La vita della donna in Honduras si differenzia molto dalla città alla campagna.
Essere donna "cittadina" è difficile, perchè sempre di più ci si rende conto della difficoltà di gestire la parte di retaggio culturale maschilista ancora profondamente radicato nella mentalità della società. Ci si rende conto di quanto sia faticoso cercare le piccole cose che fanno parte della vita quotidiana e dei sogni di tante donne: studiare, avere una vita economicamente indipendente, una famiglia con la quale condividere, un uomo con dei valori, che ti ami e ti rispetti, senza trattarti come la schiava di casa. Alcune donne, gia mature e con esperienze alle spalle, preferiscono quindi consapevolmente rimanere sole, rifiutando di avere un uomo che sanno le farà soffrire, perché dirà bugie, le picchierà, avrà altre donne, ecc.
La vita della donna in comunità invece è differente, meno consapevole della propria condizione o forse solo più abituata agli abusi maschili. Essere donna qui, con tutti i suoi aspetti negativi che ha, mi permette di parlare più apertamente con le donne, entrare nelle cucine delle comunità, "tortillare" con loro, ascoltando storie di donne ferite dalla vita, ferite dal loro stesso uomo, che la maggior parte delle volte le ha lasciate per un'altra, abbandonandole con figli completamente a loro carico, donne che stanno con un marito che permane con più amanti, tornando spesso a casa sbronzo, costrette, per debolezza, per cultura e per incapacità di ribellarsi a subire violenze fisiche e morali.
Le donne in una comunità, passano la loro vita servendo il padre, prendendosi cura fin da bambine dei piccoli di casa, spesso non vanno a scuola oltre la terza elementare, si sposano mediamente a 15-16 anni, cominciando quindi a servire nella propria casa, circondate da una marea di bambini che pian piano vengono al mondo.
Alcune, più serene, forse più "fortunate", forse anche meno consapevoli del fatto che una donna può essere anche altro oltre che mettere al mondo e curare bambini, non si fanno domande, guardano la vita che giorno dopo giorno le assorbe, le poche che se ne rendono conto, perché escono dalla propria comunità, paragonano la loro vita con quella cittadina, apparentemente più libera, ma piena di bugie, forse più che nel campo. Sapendo che non possono far altro che accettarla, visto che non hanno i mezzi economici per rendersi indipendenti e, spesso, se vogliono tornare a casa i genitori non le accolgono più in casa.
Suscita sempre ilarità spiegare che alla mia età non ho ancora figli, che non sono sposata,che ho solo un fratello e che tutto questo è abbastanza normale nel posto dove vivo io.
Mi sento da una parte molto indietro, da una parte tiro un sospiro di sollievo; a 25 anni dimostro l'eta che ho e non i classici 10 anni in più dei visi consumati dalla fatica, dalle sofferenze fisiche e morali della maggior parte delle donne campesine.
Semplici riflessioni, basate sulla mia vita qua, di vite che quotidianamente incontro, con cui mi confronto, cercando di capire qualcosa in più.

Monja Zanini

martedì 10 maggio 2005

Mi domando...

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Ritorno a Santa Rosa.
Quando uno si lascia una comunità alle spalle ha sempre tanti pensieri nella testa.
Io ho ricominciato a fumare, nella speranza di riuscire ad ordinarli meglio, ma il groviglio è sempre abbastanza complesso e difficile da districare.
Con il mio collega Ricardo ci siamo divisi equamente i compiti: lui guida all'andata, e a me tocca sempre al rientro.
La strada del ritorno e' fatta di passaggi concessi a chi ci chiede di fermarci, di buchi enormi e di polvere che entra dai finestrini, di animali lungo il cammino, di bambini scalzi, di donne che trasportano pesi sulla testa e di uomini che camminano con un machete nella mano. La strada del rientro e' fatta anche dei mille pensieri che affollano la mia mente.

Quante volte mi sono chiesta che cosa ci faccio qui, qual è il mio ruolo, se posso davvero essere utile a qualcuno.
Elaboro e rielaboro senza avere una risposta chiara, l'unica cosa che ho di certo sono le immagini che si vanno accumulando da quando sono arrivata qui.

C'è Joaquín che inizia la celebrazione della parola con una canzone dei Guaraguao, "No basta rezar" e le donnne sedute nei banchi che lo seguono attente.

C'è padre Efraín che mi mostra il pezzo di terra che la comunità sta lavorando e mi ripete "Andiamo avanti, passo a passo".

C'è un alunno della Scuola di Educazione Popolare che mi dice di guadagnare 50 lempira al giorno (quasi 2 €, ndr) e di dover mantenere otto figli, però, continua, non mi stanco di lottare.

C'è una maestra, che tutti i giorni prende il suo cane e sua figlia di quattro anni e se ne va a lavorare in un asilo alla periferia della città, un posto che a molti sembrerebbe l'inferno, eppure lei ci crede e in quel posto fa la differenza.

Chissà se riuscirò a darmi una risposta, se prima di rientrare capirò davvero se sono utile o meno.

Forse un giorno, giudando, avrò un'illuminazione.

O forse è la domanda ad essere sbagliata, forse il senso, la chiave, sono le persone stesse che conosco, le situazioni che vivo, le buone vibrazioni che continuano a mandarmi questa gente.
Forse davvero bisogna imparare ad ascoltare a fondo, prima di "pensare a come fare per...".
Per ora mi sembra già molto avere la possibilità di stringere la mano di Izzy, risalendo la costa di un monte, dopo aver visto come lavorano i campesinos di una cooperativa.
E pensare a quante mani ho ancora da stringere.

Roberta Mo