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domenica 28 gennaio 2018

BEIT BEIRUT O LE FERITE DI UNA GUERRA

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Nel cuore di Beirut, precisamente nel quartiere di Dowtown, sorge una decadente costruzione oggi nota come Beit Beirut, “la casa di Beirut”. Nessuno chiama più quell'edificio col suo vero nome, Palazzo Barakat, anche perché è ormai passato quasi un secolo da quando Nicholas Barakat, nel 1924, commissionò il progetto di questa dimora gentilizia. 

Palazzo Barakat era costituito da otto appartamenti abitati da alcune famiglie della classe media. L’edificio si affacciava sull'angolo formato da due delle arterie principali del traffico di Beirut: Independence Street e la Beirut-Damasco. Probabilmente negli anni Trenta la capitale libanese non era ancora coperta dal pesante velo di smog che si respira oggi e Palazzo Barakat non era esposto alle grida dei clacson come lo è ora. 


Palazzo Barakat doveva sicuramente catturare lo sguardo dei passanti. La pietra dal fragile colore giallo formava sottili colonne che ricordavano vagamente l’architettura greca. Sempre un ibrido, Beirut. Una città posta nel bel mezzo del Mediterraneo e che trae la propria identità dalle contaminazioni, dagli incroci e dagli stili commisti. E con le sue ariose facciate, Palazzo Barakat doveva sicuramente incarnare lo spirito beirutino: la ricchezza mostrata sempre con distratta eleganza. 

Poi accadde. Il 13 aprile 1975 il mondo finì e nessuno sembrava aspettarselo. Eppure la gente doveva sapere. Le guerre non scoppiano mai da un giorno all’altro. Serve ben più di una scintilla, più dei colpi di mitra che lacerarono l’aria di Ain El Rummaneh, quel giorno di primavera. 

Una guerra per procura, naturalmente. C’era Israele che stava cacciando il popolo palestinese dalla sua terra, la Siria con le sue mire espansionistiche e i precari equilibri confessionali in Parlamento. Le guerre scoppiano fra i potenti, ma sono i piccoli che le scontano. In Libano tutti cominciarono a sentirsi minacciati da tutti e nel ’75 iniziò il conflitto. 



Palazzo Barakat divenne suo malgrado un simbolo di guerra. La sua posizione, proprio in corrispondenza della Linea Verde, lo rese la postazione ideale per i cecchini. La sua architettura permetteva ai combattenti di nascondersi fra le sue colonne, di annidarsi nei suoi spazi interni. E da Sodeco altri guerriglieri rispondevano col fuoco, ferendo la facciata di Palazzo Barakat. 

Passarono gli anni e la guerra finì. Ma Beirut era stata ormai profanata. I lutti e le perdite portarono le varie comunità religiose ad autosegregarsi. Così Beirut Est divenne la roccaforte dei cristiani, mentre a Beirut Ovest trovarono rifugio i musulmani. Achrafieh e Hamra divennero i nuovi centri di una città ormai bicefala e Palazzo Barakat perse la sua centralità. 



Ecco cos’è Palazzo Barakat oggi. Una casa fantasma dalle cicatrici indelebili. Durante la ristrutturazione gli architetti hanno rinforzato il suo fragile scheletro con delle protesi di metallo. Ormai disabitato, Palazzo Barakat ha perso la sua alterigia nobile ed è diventato Beit Beirut, un museo della memoria. E con quella strana commistione di pietra e ferro, Palazzo Barakat è diventato ancora una volta lo specchio di Beirut, una città ibrida che si vuole moderna, ma che non riesce mai a sbarazzarsi del suo passato.



venerdì 22 dicembre 2017

Contraddizioni

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Beirut è piena di contraddizioni. Non c’è parola che riassuma meglio la prima impressione che questa città trasmette quando ti trovi di punto in bianco immerso nelle sue vie, così simili e al tempo stesso così diverse da ciò a cui il nostro occhio occidentale è normalmente abituato. Contraddittorie sono un po’ tutte le città moderne, spazio per eccellenza dell’incontro tra ricchezza e povertà, luogo dove milioni di individui di diversa provenienza ed estrazione sociale si trovano a convivere lato a lato, dove miriadi di storie individuali e collettive si incrociano, e le differenze balzano subito all'occhio, colpiscono, lasciano spiazzati. Eppure a Beirut, città uscita da quindici anni di guerra civile e da diverse invasioni straniere, l’ultima avvenuta solo una decina di anni fa, queste contraddizioni appaiono elevate all'ennesima potenza,  i contrasti emergono ovunque: tra gli edifici che riempiono la città, tra i mezzi e le persone che la popolano, negli spazi che la compongono, tra la città e la geografia circostante.







Grattacieli altissimi ed edifici moderni disegnano il profilo della città. Eppure, spesso essi sorgono al lato di edifici vecchi e malandati, a volte a pochi passi da case diroccate, alcune delle quali portano ancora i segni di proiettile lasciati dagli anni di guerra. Passeggiando per le sue vie, ci si imbatte spesso in case abbandonate o inagibili, eppure in tutta la città si continua a costruire edifici nuovi, le gru si innalzano al cielo, segnando gli scorci che questa città regala.














Nei quartieri più ricchi locali alla moda in stile occidentale riempiono le strade. A Mar Mikhael, zona di Beirut famosa per la movida notturna, decine di locali ben curati ed arredati con gusto – molto hipster – offrono cibi e bevande di tutti i tipi. Gli interni ordinati e raffinatamente curati nei particolari urtano però con l’ambiente esterno, spesso trasandato e lasciato all'incuria. I marciapiedi sono frequentemente sconnessi e tappezzati di escrementi dei cani portati a passeggio, i bidoni dell’immondizia sistemati lungo la strada in maniera approssimativa, i rifiuti abbandonati per strada. Soprattutto, migliaia di fili elettrici tirati da una casa all'altra ricoprono le strade ed i vicoli, si ingarbugliano attorno ai pali della luce senza apparente logica.





Nei bar e nei pub di Hamra, altra zona famosa per i suoi locali, la gente beve e si diverte, mentre sui marciapiedi circostanti donne siriane circondate da tanti figli, alcuni neonati, fanno l’elemosina, i bambini più grandicelli ti rincorrono, chiedendoti di comprar loro un gelato o qualche caramella. Le strade della città sono percorse da SUV nuovi ed ingombranti – come altrove, la dimensione della macchina sembra un modo per ribadire il proprio status sociale – e da macchine sportive, truccate e rumorose.  I motori potenti e le dimensioni ingombranti delle macchine sembrano però alquanto superflui e poco funzionali, in una città le cui le strade interne sono strette e fittamente parcheggiate e quelle principali sono sempre intasate dal traffico, in cui rimanere imbottigliati è la norma. Nelle stesse strade in cui questi macchinoni cercano di muoversi è possibile incontrare carretti trainati a mano, persone che vendono grano turco bollito ed altri cibi economici, o altri baracchini mobili dove puoi comprare un caffè turco a mille lire (poco più di 50 centesimi di euro). Lo stesso caffè, se comprato nel centro commerciale di Ashrafiyyeh, una delle zone più benestanti della città, può costare cinque o sei volte tanto. I prezzi oscillano in alto e in basso a seconda del quartiere, ed anche la geografia urbana cambia con essi. Esempio lampante è il centro città, completamente diverso dai quartieri limitrofi. Interamente ricostruito dopo la guerra, avrebbe poco da invidiare ai centri storici di tante città europee, con i suoi portici e i suoi edifici eleganti in pietra giallo sabbia. Ma, a causa della speculazione edilizia che ha accompagnato la ricostruzione ed il conseguente aumento dei prezzi, il centro appare oggi desolato, quasi fantasma: le persone che camminano per le sue vie si contano sulle dita di una mano, molti dei negozi e dei bar che dovrebbero animare i suoi portici sono chiusi in attesa di un proprietario, le vetrine impolverate e gli interni lasciati all'incuria. Malgrado le poche persone, le strade sono strettamente sorvegliate da numerosi militari, che camminano fiaccamente per le vie semi deserte.











D'altronde, l’esercito è la manifestazione più tangibile dello Stato libanese, che appare allo stesso tempo estremamente presente ed estremamente assente. Presente nei posti di blocco, nei numerosi militari armati che si incrociano per le strade, nei mezzi blindati che si trovano in giro, come il carrarmato piazzato in mezzo alla rotonda di Daura. Presente anche nella sua forma simbolica: le bandiere con il cedro si vedono ovunque, alcune sventolano enormi come quella in piazza Sassine, una più piccola si muove sui faraglioni di Rauche. Ma assente nella dimensione dei servizi offerti al cittadino, visti il costo altissimo del sistema sanitario, le carenze nella fornitura di elettricità ed acqua, i limiti dei trasporti pubblici. 








Infine, i contrasti sembrano innati persino nella morfologia nel territorio in cui Beirut sorge. Essa è infatti adagiata sul mare ma circondata dalle montagne, basta poco più di mezz'ora di macchina per passare da zero a mille metri, dalle spiagge alle foreste di conifere. Montagne che, a differenza di quelle a cui i nostri occhi sono normalmente abituati, sono però fittamente costruite e popolate, di notte si accendono e migliaia di puntini gialli le illuminano.






Tutte queste sono solo alcune delle contraddizioni racchiuse in Beirut,  città che offre tanto ma pretende tanto, che tanti amano e tanti detestano. Quanto a me, per il momento mi mantengo neutrale, cerco di divincolarmi nel traffico, esploro a piedi la città per tentar di comprenderla. Tra qualche mese, saprò dire a quale dei due gruppi appartengo.

venerdì 27 ottobre 2017

VERSO BEIRUT

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VERSO BEIRUT

La notizia che stessi partendo un anno per Beirut ha suscitato in alcune persone a me vicine stupore, sbigottimento, persino paura. Negli occhi di altre ho invece letto il fascino che una sola parola – “Libano” – poteva innescare.
Tre ore di volo separano Milano da Beirut, la capitale di questo paese poco più grande delle Marche e quasi dimenticato del Medio Oriente. Un paese con cui condividiamo lo stesso mare. Eppure da noi si sente parlare solo di Siria e di Iraq, Talvolta di Giordania e Israele, ancora meno di Palestina. Tuttavia il Libano non viene normalmente citato a casa nostra. C’è chi si ricorda della guerra civile del 1982 e poi del conflitto con Israele nel 2006.
Per chi si interessa di Medio Oriente, invece, il Libano evoca un’immagine esotica, talvolta mitizzata. Chi ha studiato arabo – come me – ha ben presente il ruolo di protagonista che il Libano occupa sulla scena politica, sociale e culturale araba. Noi, studenti o ex studenti, abbiamo sempre sentito citare Beirut come culla della letteratura araba contemporanea, una città vivace e brulicante, quasi un’isola felice racchiusa nella polveriera mediorientale.

In realtà credo di sapere ben poco del Libano. Ne parlo spesso, in queste settimane. Con i miei colleghi, con i responsabili del progetto, con le ragazze appena tornate da un anno di Servizio Civile a Beirut. E l’immagine che si sta creando nella mia testa è quella di una delicata scultura di cristallo, in bilico su qualcosa di instabile. Un oggetto bellissimo e precario.
Il Libano è da sempre stato un crocevia di comunità diverse che quasi mai hanno convissuto in maniera pacifica. Cristiani maroniti, cattolici, ortodossi, armeni, siriaci, caldei. E ancora musulmani sunniti e sciiti. Drusi. E molti altri.
Poi, nel 1948 è stato fondato lo Stato di Israele. E numerosi palestinesi hanno cominciato a fuggire verso il Libano, quel paese dei cedri così vicino, ma in cui hanno incontrato difficoltà e porte chiuse. Una sorte analoga è toccata ai siriani, sessant'anni dopo.

Non conosco così bene il Libano. Ne parlo spesso, ma continuo a non afferrarne l’essenza. Allo stesso tempo mi interrogo su cosa sia questo paese. Mi chiedo su cosa potrò fare lì, partendo da ciò che mi è stato spiegato. Ho sentito parlare di attività educative con bambini siriani, donne scappate da situazioni di abusi e violenza. E mi chiedo cosa potrò mai fare io per queste persone. Io, che non so cosa sia una guerra. Io, che non so quanto pericoloso sia appartenere a una certa comunità e ritrovarmi nel quartiere sbagliato.
Ciò nonostante, credo di aver colto una piccola parte di ciò che forse rappresenta il Libano: una terra che accoglie tutti. A volte malvolentieri. A volte vendicandosi brutalmente di chi, scappando da una guerra, cerca rifugio all'interno delle sue frontiere. Però accoglie. Per il momento, è tutto ciò che so.

giovedì 26 ottobre 2017

SPERANZE

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C’era una volta la zia di un bellissimo bambino nato da poco più di una settimana. Deve dormire molto, recuperare le energie, nutrirsi e stare con la sua mamma e il suo papà. D’altronde nascere non è mica una cosa da poco. Di energie gliene serviranno in grande quantità per affrontare la vita, gli amori, le delusioni e le mille avventure che lo aspettano. E questa sua zia non ha troppi consigli da dargli sulla vita. Spera solo di trasmettergli la sua stessa voglia di vivere e di incontrare l’umanità, di tuffarcisi dentro e di rimanerne, perché no, anche un po’ scottati. Spera che un giorno possa vedere con occhi curiosi e gentili, mai sazi di scoperte. Spera che non si accontenti mai delle cose così come sono, ma che abbia dentro di sé la forza per cambiarle. Spera di raccontargli come mai un giorno è partita per il Servizio Civile in Libano, a Beirut, per incontrare altri bambini come lui, padri e madri proprio come i suoi, per ascoltare le loro storie e sentirsi un po’ più vicina a chi non viene mai ascoltato. Spera di fargli capire che questa terra è grande, piena di colori, odori e popoli, è inaspettata, a volte severa e ingiusta, ma la abitano persone con cui incrociare lo sguardo e dalle quali si può imparare. E così questa zia, che poi sono io, sta per iniziare questa avventura con tanta speranza e con tanto coraggio, lo stesso con cui spera di contagiarlo. 

lunedì 4 settembre 2017

La mia presenza in Libano

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Il Libano è un Paese che ti fagocita nella sua storia e nelle sue contraddizioni fin dal primo sguardo. E’ possibile accorgersene già in aereo, guardando fuori dal finestrino, quando si ha l’impressione di atterrare quasi nel cuore della sua caotica capitale, Beirut.

Conoscere il Libano significa quindi farsi sorprendere non solo dalla bellezza del territorio, dai volti delle persone e dal fascino di una cultura millenaria, ma anche dai contrasti sociali e dalle ingiustizie economiche, che si possono intuire anche dopo pochi giorni di permanenza nel Vieux Pays [1].

Per attraversare 200 km di autostrada lungo la costa libanese, occorrono circa 5 ore a causa del traffico, puntuale, che si incontra ai frequenti security check-point, dove è sempre necessario rallentare, alzare i propri occhiali da sole, guardare negli occhi la guardia armata di fucile d’assalto e attendere per una frazione di secondo il suo via libera.
Lungo la strada è facile notare grattacieli avveniristici, edifici abbandonati, pareti traforate da colpi di proiettile, antiche chiese, eleganti moschee, ville da sogno, campi formali per rifugiati palestinesi, fast food, persone ai lati della strada in attesa che qualcuno offra loro un lavoro per la giornata, spiagge bellissime, spiagge ricoperte di pattumiera, bandiere di Hezbollah issate lungo l’autostrada, innumerevoli pubblicità di prestigiosi college universitari e profonde vallate, qualche volta deturpate da case costruite senza rispetto per il prezioso paesaggio libanese.


Sono arrivato qui, forse per dare un volto alle notizie sui giornali e incontrare storie lontane dalla mia quotidianità. Ho così conosciuto due storie: la storia dei rifugiati siriani e iracheni, che fuggono dalla guerra, e la storia di donne migranti, che arrivano in Libano per lavorare come domestiche e si ritrovano però in un incubo di violenza domestica e sfruttamento.



Ho incontrato queste storie all’interno degli shelter, centri di accoglienza per persone in condizione di fragilità, creati e gestiti da Caritas Lebanon. Qui gli operatori di questa organizzazione, lavorano per dare supporto a queste persone nel corso della loro permanenza negli shelter, assieme anche al contributo di tre ragazze italiane, che in Libano svolgono il proprio servizio civile e che mi hanno guidato e accompagnato nel corso di questa entusiasmante esperienza.

Sono arrivato come volontario, senza sapere esattamente cosa queste persone si aspettassero da me e mi sono quindi messo a loro servizio con gli strumenti che avevo: la mia storia, il mio volto, il mio sorriso, la mia energia e, forse soprattutto, la mia presenza.

Ma quale presenza? In che modo avrei dovuto “esserci”? Che tipo di relazione avrei dovuto instaurare con i beneficiari dello shelter?
Con il passare dei giorni ho capito che volevo essere una presenza discreta: desideravo entrare nella loro vita con delicatezza con il solo obiettivo di far loro sapere che nel mondo esistono altre storie e altri volti pronti ad accoglierli.

Oggi mi auguro quindi non tanto che si ricordino di me, ma che resti solo il ricordo di un gioco, di uno sguardo, di un sorriso o di una carezza, nella speranza di aver lasciato un segno di presenza, interesse e amore, a persone che spesso hanno conosciuto solo indifferenza, dolore o persino violenza.

Sono entrato negli shelter per qualche ora o per qualche giorno e quando sono uscito mi sono accorto di un recinto attorno a queste strutture, fatto di mura più alte e più spesse di quello che sembravano all’inizio.
Penso di aver visto la prigione che separa, talvolta, le persone fragili dal resto del mondo.

Prima di andarmene, ho provato a guardare negli occhi le persone che ho incontrato, un’ultima volta, con sguardi veloci, con inquadrature sfuocate sui loro volti. Questo è stato il mio tentativo, per l’ultima volta, di accogliere le loro storie e la loro prigione.

Enrico



[1] Vecchio Paese, con questo nome gli emigrati libanesi rievocano la patria lontana.


giovedì 17 novembre 2016

Beirut mi sta sfidando

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Beirut mi sta sfidando.
Mi sfida il suo traffico, il rumore dei clacson, lo smog e le sue polveri.
Mi sfidano le strade, che sembrano un campo da gioco dove macchine anarchiche fanno a gara a chi passa per prima o a chi trova lo spazio più angusto dove infilarsi per guadagnare qualche metro.
Mi sfida l'odore di spazzatura ammucchiata a cielo aperto e mi sfida questo quadro disordinato di case ammassate senza ordine né criterio.
Ma più di tutto mi sfida la sua lingua, che tanto mi affascina e tanto mi confonde. Una lingua che si fa muro quando il suo suono non mi riporta a niente di conosciuto. Mi capita per strada, sui taxi, nei centri in cui lavoro. E così ci sono domande che non trovano risposta, curiosità che non trovano informazioni, approcci che non trovano dialogo.
Me ne sto accorgendo piano, giorno dopo giorno.
È da due settimane che sono arrivata in Libano quando, in circa tre ore di viaggio, un aereo mi ha portata dall'Europa al Medio Oriente. Con una sensazione mista di spaesamento e stupore, mi sono trattenuta sulla soglia e ho sbirciato da lì.
Lunedì ho cominciato a lavorare a tempo pieno e, sarà per i ritmi definiti, sarà per l'incontro con i colleghi locali, sento di aver cominciato ad addentrarmi, lentamente, in questo Paese, piccolo ma complesso. Tuttavia, per ogni passo che muovo sembra comparire di fronte a me un mattoncino e, mattoncino dopo mattoncino, quel muro.
Capita quindi che mi ritrovo in un taxi guidato da un signore con il viso segnato dagli anni che, indicando fuori dal finestrino, mi mostra qualcosa che non riesco a vedere e mi racconta una storia che non posso capire.
Capita che, dopo svariati tentativi di comunicazione che non hanno portato alcun frutto, ricambio con sguardo dispiaciuto e colpevole lo sguardo profondo e curioso delle ragazze siriane ed etiopi che vogliono sapere di più sulla straniera appena arrivata dall'Italia.
E allora, nei casi in cui il tempo lo permette, riscopro altre forme di comunicazione e tra gesti, mimi e un po' di fantasia si costruisce insieme un linguaggio condiviso, che mi costringe ad andare oltre un fiume di parole accostate con disattenzione e mi impone di essere presente e attenta, per capire l'altro e quello che cerca di dirmi.
Nel frattempo, inizierò la settimana prossima il corso di arabo e, da non-alfabetizzata, ricomincerò da capo per imparare a leggere e scrivere un alfabeto che non conosco e, passo dopo passo, addentrarmi un po' di più nella complessità di questo mondo.
Beirut mi sta sfidando e io accetto la sfida.

Giulia



la sfida


lunedì 24 ottobre 2016

Che il mare mi porti

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Mi chiamo Giulia, ho 26 anni, sono nata a Padova e sono cresciuta in provincia.
Da piccola mi facevano molta paura gli insetti e i cani e non ero una grande amante della fatica fisica. Non so se per contrappasso o per sfida, quando ho compiuto otto anni mi sono iscritta al gruppo scout del paese per uscirne solo diciassette anni dopo.
È così (ma non solo) che è cresciuto in me il desiderio di guardare un po’ più lontano, la curiosità di conoscere quello che c’è oltre al mio emisfero e il sogno di entrare, chiedendo permesso, all’interno di altri per provare a guardare come sembra il mio visto da lì.
Sono una persona tendenzialmente molto indecisa, mia mamma dice che è così fin dalla nascita: esco?! no no, non esco.. esco?!.. umh.. aspetta un attimo che ci penso!
Ed è così che quando ho terminato le scuole superiori non sapevo cosa fare e per cercare l’ispirazione ho trascorso 8 mesi in Irlanda come Au-Pair. Quando sono tornata mi sono accorta che le idee non mi si erano proprio chiarite e fu così che, ascoltando un po' la pancia e un po' i consigli, mi sono iscritta alla facoltà di Servizio Sociale.
Gli anni dell'università sono stati molto interessanti, non solo per la mia crescita formativa ma anche personale. Un ringraziamento speciale vorrei rivolgerlo al professor Bruce Leimsidor per l’abilità e la passione con cui, dall’interno di un’aula, riusciva a mostrarci la realtà che c’era fuori e il lavoro sul campo. Durante le sue ore di lezione è nato in me l'interesse per il diritto d’asilo che mi ha portato a svolgere il tirocinio presso il Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) di Padova, un’esperienza in Sicilia con l’associazione Borderline Sicilia Onlus e infine un lavoro come operatrice dell’accoglienza in un Centro di Accoglienza Straordinario (CAS) per richiedenti asilo.
Mentre ero in Sicilia ho potuto osservare molto da vicino il fenomeno dell’immigrazione e questo mi ha permesso di capire quanto siano diverse le cose rispetto a come vengono dipinte. Per questo, nonostante avessi un buon contratto di lavoro, ho deciso di mettermi in ricerca di altre occasioni che mi permettessero di avvicinarmi al fenomeno, con il desiderio di osservarlo da quante più angolature possibili.
Quando nel sito della Caritas Ambrosiana ho trovato il progetto di Servizio Civile Estero in Libano non ci potevo credere. E quando mi hanno chiamata per dirmi che ero stata selezionata.. ancora meno!
Manca l'ultima settimana di formazione e il due novembre si parte, direzione: Beirut.
Non vedo l'ora di imbarcarmi per questo viaggio, di prendere il largo, di remare con forza e determinazione ma anche di lasciare che il mare mi porti.
Come ogni avventura che si rispetti, incontrerò giorni di burrasca e altri di calma piatta, sarò spinta da venti forti e accarazzata dalla brezza leggera.
Un onore e un privilegio che spero di saper meritare.

Giulia

avventura

mercoledì 31 agosto 2016

Una Beirut senza schemi

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Sabato 6 e 12 Agosto 2016

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L’autista del taxi numero 31 è decisamente il più spericolato. Per le vie di Beirut si rischia la vita a ogni curva. I semafori, le corsie, i sensi unici sono tutte convenzioni occasionali. Ridicolo rispettarle. Tra un sorpasso a destra a novanta all’ora in pieno centro abitato e continui incidenti sventati per un pelo, si sfreccia tra macchine scassate, pulmini strapieni di gente e pedoni temerari.
Il service è il modo più diffuso ed economico per girare per il libano: le macchine con la targa rossa sono taxi che raccolgono più persone dirette nella stessa direzione. Sono ovunque e chiunque li guida, tendenzialmente uomini non troppo discreti che usano WhatsApp e Candy Crush dall’inizio alla fine della corsa, amanti dei rally con gli altri taxi e dell’aria condizionata gelida. Il clacson è l’intercalare costante di qualsiasi viaggio col service. Si suona per offrire un passaggio ai pedoni, per annunciare che si sta per passare, per salutare un altro taxi, per esprimere apprezzamento per qualsiasi forma di sesso femminile, per passare il tempo. Non sai se concentrarti sul paesaggio, sui passeggeri estranei, sulla musica araba, sull’interminabile serie di potenziali scontri mortali o sull’autista.
Nel caso del taxi numero 31, indubbiamente l’attenzione se la guadagna tutta l’autista.
È un armeno sulla sessantina, con pochi capelli bianchi che spiccano sulla carnagione olivastra.  I vispi occhi  azzurri guizzano continuamente tra noi passeggeri e la strada. Scherza e ride come un pazzo tutto il tempo, senza timore di mettere in mostra quella scarsa dozzina di denti che gli rimangono in bocca. Io e i miei compagni di viaggio parliamo un po’ con lui anche se è impossibile avere una conversazione sensata senza neanche una lingua in comune. Si presenta. Non ricordo il suo nome. Non lo ricordo perché ne ha tre. Un nome armeno, uno arabo e uno francese. Tre nomi per una sola persona. Tre persone per una sola anima.
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A Beirut è così.

In Libano non c’è niente di certo. Puoi programmare il service per le 9 ma non sarai mai sicuro che il taxi arrivi prima di un’ora di ritardo. Puoi vedere un semaforo rosso ma non è detto che l’autista freni. Puoi incontrare un uomo ma non sarai mai certo di chi sia. Di tutte i migliaia di volti in cui ti imbatti per Beirut, non sai se gli occhi che ti scrutano appartengano a un libanese o a un siriano o a un palestinese, ad una semplice donna di colore o ad una migrant worker sfruttata, ad un maronita o a uno sciita o a un sunnita.

Ti muovi in un aggrovigliarsi di identità incerte, di maschere e volti con troppi nomi. Attento a non perderti.

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 Puoi cercare rifugio, uno scoglio sicuro nella solidità dei palazzi della città. Ma non ci riuscirai. Provaci se vuoi, ma scoprirai che l’apparenza inganna davvero: una casa trivellata può rivelarsi un futuro museo (http://www.beitbeirut.org/english/thehouseen.html) così come un parcheggio si può scoprire essere una ex linea di demarcazione che separava le fazioni della guerra civile (la Green Line).
Il centro di Beirut è deserto. Dove prima della guerra civile si snodavano i vicoli del suk, sorgono costosi negozi con prezzi improponibili in palazzi modernissimi, praticamente disabitati. La maggior parte degli edifici storici è stata espropriata, abbattuta e sostituita dalle costruzioni all’avanguardia della ricchissima compagnia edile di Hariri, Solidere. Architettura perfetta, se non fosse completamente inutilizzata. Vuota.

 Un’area è presidiata e l’esercito fa passare solo i turisti. In giro non si incontra anima viva, solo noi e i piccioni. Tra una moschea e una chiesa si innalza una torre dell’orologio in antica pietra rossastra. Orologio firmato Rolex. C’è un silenzio incredibile in confronto al normale frastuono di clacson, voci e sgommate. Nessun richiamo di muezzin e nessuna campana rintoccare. Sembra che anche l’aria sia un po’meno inquinata. Però neanche la minima sensazione di quiete. Nessuna pace, nel cuore di una città angosciata.

Niente certezze in una Beirut fatta di quartieri sciiti malfamati e un lungomare costellato di yacht.
Case con bar di lusso al piano terra e martoriate dai proiettili della guerra civile al primo piano.
Ragazzi con i costumi fluorescenti che fanno il bagno tra i rifiuti gettati tra gli scogli lungo la Corniche e bambinetti che ti supplicano di farti lucidare le scarpe.
Il profumo dolciastro degli sbuffi di vapore dal narghilè e il tanfo di rifiuti bruciati che impregna l’aria già densa di smog.
Negozietti di manaish allo zatar e Mc Donalds.
Risate scatenata dalla dabke ballata coi siriani in un locale affollato e la macabra danza delle facce dei giovani martiri di Hezbollah su fogli appesi ai lampioni.

Dicono che per non perderti in un Paese straniero devi lasciarti trasportare dalla sua cultura, cambiare prospettiva, schemi interpretativi. 
Ma a Beirut non ci sono schemi.

Claudia

giovedì 23 giugno 2016

Ad agosto vado in Libano. “Ma chi te lo fa fare?”

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Stupore, paura, ammirazione, scherno, a volte indignazione: le reazioni di amici e parenti alla notizia di una tua prossima partenza per il Libano sono molto variegate ma allo stesso tempo monotone, spente, scondite, inappropriate. 



“È pericoloso!”


Ma va? E io che pensavo di andare ad Ondaland. Che poi, se ci si pensa bene, all’oggi cosa non è pericoloso? Ci sarebbe da chiudersi in casa e vivere di stenti, di tragitti brevi casa-lavoro-casa, divano-bagno-cucina, tv-pc-smartphone: ma forse il pericolo è proprio quello, no? Forse è più pericoloso non lasciarsi trasportare dalle proprie inclinazioni. E se corpo e mente ti dicono di partire, tu giustamente parti: altrimenti sarebbe “pericoloso”.


“Ma lì ci sono la guerra, l’Isis, le bombe, i neri, i dinosauri…”


Ma va? Che poi a rispondere così sembra che io stia sottovalutando la minaccia, autoproclamandomi come l’eroe coraggioso a dispetto di tanti codardi. Beh, così non è. Ognuno trova il proprio coraggio nel quotidiano, nell’inseguire i propri obiettivi. Ma se il vostro non è uguale al mio, non prendetemi per scemo o per spericolato. Voglio farlo, ho l’opportunità di farlo e quindi lo faccio. Ho alle spalle Caritas, un’organizzazione molto solida e ben affermata sul territorio, che si occupa e preoccupa di tutto quanto concerne la nostra sicurezza. Non sto partendo zaino in spalla verso l’ignoto: c’è dietro un progetto di formazione preliminare che ti prepara e ti assiste in tutte le fasi.


“Ti ammiro, usi l’unico mese di ferie per il volontariato”


Sì, è così, potrei sicuramente spendere quel tempo in maniera più convenzionale. Ma sfatiamo un mito: non parto per salvare il mondo, non parto solo e soltanto per gli altri: parto in primo luogo per me stesso. Non parto con pacchi di lasagne precotte da distribuire ai bambini che si vedono nelle pubblicità all’ora di pranzo, come non parto per fermare le guerre, le bombe, l’Isis e i dinosauri. Parto per ascoltare, quindi per ricevere: credo nelle persone e in tutto quello che mi potranno regalare raccontandomi la loro storia, consegnandomela in dono perché io possa, tornato a Legnano, montare lenti nuove sugli occhiali da cui guardo il mondo.

Quindi sì, parto per volontariato, ma vi assicuro che non sarà affatto un sacrificio. Sarà anche relax, divertimento, gruppo, sorrisi, canti, balli. Quello che cerco è la genuinità del rapporto tra persone.
Giacomo

giovedì 27 febbraio 2014

Live from Beirut

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Eccoci in quel di Beirut, finalmente! Nell'attesa della nostra nuova casa ( a proposito, preparatevi al meglio!) cerchiamo di entrare subito in sintonia con la realtà e la cultura dove vivremo per tutto l'anno.. E che c'è di meglio che imparare i primi rudimenti di arabo per parlare di un prodotto "localissimo": le olive! Ecco qui Alberto, il nostro capo,  esibirsi in uno splendido slang:
 " Io le olive, non le volevo":


Se parlate arabo, oppure avete amici bresciani, vi sorgerà qualche dubbio ...

lunedì 26 agosto 2013

Libano - Cosa vuol dire essere un rifugiato?

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Vuol dire scappare dalla Siria per salvare la tua vita e quella delle persone più care.

Vuol dire andare al centro Caritas, ritirare lo scatolone con gli aiuti umanitari e portartelo da solo a "casa", anche se pesa tantissimo. Almeno questo lo vuoi fare da solo, vuoi dimostrare che sei ancora capace di darti da fare per la tua famiglia, anche se intorno a te sai che le persone ti vorrebbero aiutare. E queste persone non fanno niente, perché immaginano cosa stai provando e non vogliono ferirti ulteriormente. È come se ci fosse un codice di comportamento. Però a ringraziare ci provi, perché anche tu, tempo fa, hai fatto il volontario come loro.

Vuol dire affittare una casa in un campo profughi palestinese, che esiste da circa 60 anni e pagare una stanza 500 Dollari al mese. Forse gli altri si dimenticano di aver vissuto la stessa condizione che hai vissuto tu, ma, nella disperazione di non avere diritti da 60 anni e di non potersi pagare le cure più costose come la dialisi, senza la quale non potrebbero sopravvivere, lucrano sulla tua di disperazione.

Vuol dire che alcuni aiuti inviati dalle ONG internazionali arrivano scaduti e non possono essere utilizzati, perché è passato troppo tempo da quando sono stati raccolti a quando sono arrivati. Le motivazioni non si conoscono, ma, anche se sei profugo e disperato, i cibi scaduti non li puoi mangiare e nemmeno darli ai tuoi bambini.

Vuol dire che una volontaria viene dai tuo figlio, gli chiede come si chiama in un arabo stentato e cerca di farlo sorridere disegnando. Tu le sorridi e capisci che lei fa quello che può, ma sai che tuo figlio ci metterà un po’ a sorridere di nuovo, perché si trova in un posto che non è casa sua, e non lo sarà per molto tempo.

Vuol dire che il giorno prima sei un ragazzo dagli occhi buoni, studente di ingegneria e il giorno dopo  fai il cameriere in un bar in Libano, perché hai scritto sul tuo profilo Facebook contro il regime. Sai che, se tornassi in patria, saresti arrestato e quindi, sempre con gli stessi occhi buoni, forse perché non hai perso la speranza, cerchi di far passare una bella serata a sette volontari italiani che si vogliono rilassare.


Vuol dire che, nonostante tu non sia più giovane, abbia lavorato una vita e voglia finalmente goderti i frutti del tuo lavoro nella tua terra, sei costretta a scappare dal tuo paese e ad essere accolta in un centro Caritas, perché non sai dove altro andare.
Vuol dire sperare che tutto questo finisca, non tanto per te che la tua vita l'hai già fatta, quanto per i tuoi figli e i tuoi nipoti, perché non debbano vivere quello che tu hai vissuto. 




lunedì 19 agosto 2013

Libano - Fili invisibili

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Tornare a casa dopo un viaggio è difficile. Tornare a casa dopo un'esperienza che ti segna come quella che abbiamo vissuto noi diventa veramente complicato.

Un giorno, tornando dal campo profughi palestinese di Dbayeh, ho trovato la "parola del giorno" e la trovo perfetta anche adesso. La parola è FILO. Questo perché percorrendo le quattro strade all'interno del campo non si potevano non vedere. Fili della corrente, fili per il bucato, fili ovunque. Anche a Rayfoun avevamo i nostri fili: per stendere, quello spinato che limita lo shelter, i fili per le collane e i braccialetti... Alla fine anche noi abbiamo tracciato i nostri fili. Le relazioni che abbiamo instaurato con le donne, con i bambini, con le persone che abbiamo incontrato e con le quali abbiamo condiviso anche solo un sorriso, come per esempio le donne siriane con i loro figli a Beirut, con cui l'incapacità di comunicare era evidente, ma, con un semplice gesto, siamo riuscite a scattare una foto insieme, sono i nostri fili, invisibili agli occhi, ma visibili con i gesti, i sorrisi, con il cuore.



È stato un cantiere particolare. Intenso, profondo, purtroppo breve. Un cantiere dove i fili tra le persone sono così stretti che la felicità e la tristezza degli altri diventano anche le proprie, dove anche un piccolo gesto ti fa sentire accolto, a casa.

Allo shelter ho avuto la possibilità di sperimentare un miscuglio di sensazioni così diverse tra di loro, ma di così profonda intensità che il filo che partiva da me sembrava così corto e poco forte rispetto a tutto. Solo riconoscendo il fatto di essere uguale agli altri, senza pregiudizi e barriere mi sono resa conto che il mio filo è forte solo se ci sono gli altri. Le donne che vivono allo shelter hanno una forza incredibile che traspare da tutto quello che fanno. Una forza che non è facile da descrivere, che accoglie senza paura, che dona senza timore, che combatte per la dignità e per la propria vita e quella dei figli. Ripensando ai giorni passati, rivivo quei momenti insieme di condivisione delle loro vite, ma anche di gioco, risate, balli, della giornata del salone di bellezza e della presentazione dei propri Paesi, la preparazione della pizza… Tra tutti gli esempi di quanto questi fili siano forti ce n'è uno che mi emoziona in modo particolare: l'accoglienza, la gioia, gli abbracci dopo una giornata passata fuori. È stato un momento unico, come se noi fossimo ritornati a casa e loro non aspettassero altro che rivederci.


Posso dire di aver ricevuto tanto, molto di più di quello che avrei mai potuto immaginare. I fili che ho lasciato lì, li porto nel cuore con la speranza che un giorno la vita ci faccia ritrovare. Altri, come quelli con le mie compagne di viaggio, so che li potrò rendere ancora più forti perché abbiamo veramente vissuto un'esperienza incredibile, unica, che ha lasciato qualcosa dentro a ciascuna di noi. Ringrazio tutti per aver avuto la possibilità di vivere questo cantiere… le mie compagne di viaggio, le donne i bambini… tutti. Grazie!
Giulia




mercoledì 14 agosto 2013

Libano - Abbraccio di nuvole

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Tra le immagini che affollavano la mente prima della partenza sicuramente c'era quella di un'estate torrida qua in Libano, e anche il terrorismo psicologico dei nostri coordinatori aveva contribuito all'ansia di mettere in valigia i vestiti più leggeri e di munirci di crema solare protezione 50.
Del resto, siamo in Libano,  questo ci si aspettava….
Ma, tra le tante cose che appaiono diverse qui rispetto a quello che la nostra mente ci aveva suggerito, anche i colori e il clima vogliono stupirci. 

Oggi allo shelter siamo avvolti da un'atmosfera molto suggestiva che ci isola, ci abbraccia, quasi a proteggerci.
Tutto è circondato da nuvole grigie, che nascondo il versante opposto della montagna, coprono i paesi arroccati sotto a Rayfoun e chiudono il cielo sopra di noi. È strano guardarsi intorno e non scorgere nulla, girarsi e toccare l'umidità, sentire le nuvole qui accanto a noi, è come se le nuvole chiudessero la protezione dei cancelli e lasciassero spazio solo a noi qua dentro.
Forse a rendere lo spettacolo più suggestivo è l'idea di isolamento che lo accompagna. Qui le donne non possono assolutamente uscire dai cancelli. Sono protette, trovano un rifugio che riesca a restituire loro una piccola parte di quella serenità che hanno perso, provano a ricercare la forza e la determinazione al di fuori da tutto quello che di orribile la società libanese ha loro mostrato, ma sono anche prigioniere.
Tale reclusione sembra una questione molto difficile da accettare e da condividere: tenere "prigioniere" delle donne che hanno come unica colpa quella di aver provato a cercare fortuna in un paese forse non pronto ad accoglierle; anche noi abbiamo faticato a renderci conto di cosa possa significare il lavoro del Migrant Center di Caritas, a dargli una giusta dimensione nella vita di queste ragazze.

La desolazione è uno degli stati d'animo che maggiormente emerge dai loro racconti. Si sentono sospese, trattenute qui a causa anche di tempistiche delle pratiche burocratiche dispersive e lunghe, che si oppongono alla possibilità di soddisfare il motivo per cui hanno raggiunto questo paese.
Stare nello shelter fa sentire queste donne inutili per la loro famiglia lontana, preoccupate dall'idea del fallimento del loro progetto migratorio e bloccate nelle loro aspettative.

Tanta la delusione, che ormai ha preso il posto della rabbia, tanto il dolore che accompagna la malinconia, ma ancora di più è la speranza di tornare a vedere cosa ci sia al di là di queste nuvole e la determinazione che anche nei loro giorni, così come nelle estati libanesi, tornerà la luce, quella limpida della felicità! E proprio alla loro forza, che sembra provenire da una caparbietà che non pensavo potesse davvero esistere,  la sera libanese regala i suoi tramonti…





giovedì 28 aprile 2011

Uomini e no

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Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli imprescindibili. (Bertolt Brecht)

Sono giorni pesanti, in cui i pensieri si rincorrono e si affollano in una mente già troppo intasata. Sono le 3 di notte, la speranza è tanta, la voglia di sentirsi annunciare finalmente la tua liberazione aumenta di minuto in minuto.
È un tam tam di notizie, di gente che ti contatta per avere info, per passarti link, per condividere e alimentare l’illusione della buona notizia.
Poi il vuoto, il silenzio e infine l’urlo, che non è vero, che non può essere vero, che si sono sbagliati, che forse sei ancora li a combattere.

Aspetto la smentita in silenzio, con gli occhi lucidi, con l’irrazionalità di chi sogna sempre e non vuole crederci.

Come per ogni lutto c’è bisogno di tempo per metabolizzare e neanche il tempo spesso riesce a colmare quei vuoti. Perché non c’è umanità in tutto questo, perché restare umani adesso è un utopia.
Le dietrologie non mi sono mai piaciute, ma il perché me lo chiedo sempre.

Probabilmente l’unico modo per ricordarti non sono le lacrime, ma continuare a stare dalla parte degli oppressi, dalla parte degli ultimi e restare umani…anche quando non c’è nulla di umano intorno.

Sei stato testimone del fatto che la storia viene scritta dalla gente comune e questa è la storia che vorrei i miei figli leggessero…
...a winner is a dreamer who never gives up.

Buon viaggio, questo 25 Aprile è per te.

A Vittorio Arrigoni

Hanno ucciso tutti

Ibrahim Nasrallah
(trad. Wasim Dahmash)

Hanno ucciso tutti
hanno ucciso tutti i minareti
e le dolci campane
uccise le pianure e la spiaggia snella
ucciso l'amore e i destrieri tutti, hanno ucciso il nitrito.
Per te sia buono il mattino.
Non ti hanno conosciuto
non ti hanno conosciuto fiume straripante di gigli
e bellezza di un tralcio sulla porta del giorno
e delicato stillare di corda
e canto di fiumi, di fiori e di amore bello.
Per te sia buono il mattino.
Non hanno conosciuto un paese che vola su ala di farfalla
e il richiamo di una coppia di uccelli all'alba lontana
e una bambina triste
per un sogno semplice e buono
che un caccia ha scaraventato nella terra dell'impossibile.
Per te sia buono il mattino.
No, loro non hanno amato la terra che tu hai amato
intontiti da alberi e ruscelli sopra gli alberi
non hanno visto i fiori sopravvissuti al bombardamento
che gioiosi traboccano e svettano come palme.
Non hanno conosciuto Gerusalemme … la Galilea
nei loro cuori non c'è appuntamento con un'onda e una poesia
con i soli di dio nell'uva di Hebron,
non sono innamorati degli alberi con cui tu hai parlato
non hanno conosciuto la luna che tu hai abbracciato
non hanno custodito la speranza che tu hai accarezzato
la loro notte non si espone al sole
alla nobile gioia.
Che cosa diremo a questo sole che attraversa i nostri nomi?
Che cosa diremo al nostro mare?
Che cosa diremo a noi stessi? Ai nostri piccoli?
Alla nostra lunga dura notte?
Dormi! Tutta questa morte basta
a farli morire tutti di vergogna e di sconcezza.
Dormi bel bambino.

venerdì 11 febbraio 2011

Da tre notti sogno in francese

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Da tre notti sogno in francese
A svegliarmi è un sussulto amletico, un dubbio stringente: cosa mai si saranno detti gli eroi che popolato i miei sonni? Non gli sto dietro. Cerco nella memoria, e ritrovo solo una infinita onomatopea di vorticose “r” sbiascicate, di dittonghi criptici, di singhiozzanti sillabe tronche.
Monica, la mia collega, sembra uscita ieri dalla Sorbona di Parigi.
I colleghi della Caritas Libano se la cavano niente male col francese.
La mia lingua invece arde, incendiata dalla pirotecnica linguistica di questo medio oriente poliglotta. Una domanda in francese per una risposta in arabo. Uno stacco in inglese.
Forse questo parla francese. Come si diceva in arabo? Quello è arabo classico! Prova in inglese...
L'italiano è un dessert, ce lo teniamo per la sera, a casa.
Poi si va a dormire. E lì, da tre notti, ricomincio col francese. Mio malgrado.
Welcome to Beirut people.
Paolo

martedì 18 gennaio 2011

Non per caso

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Il servizio civile all'estero non viene per caso. Lo insegui per anni interi, riempiendo l'attesa con l'immaginazione.

Per arrivare a scrivere su questo blog i sedici membri del gruppo di cui faccio parte hanno superato selezioni in cui si sono confrontati con decine di aspiranti. Oggi, a due settimane dalla partenza, li attende in confronto più atteso: quello con loro stessi.

Amo pensare che il blog dei volontari in servizio civile nasca con questo scopo: raccogliere brandelli di vite vissute non per caso.

Inseguo Beirut da anni. Lascerò che sia lei a descrivermi, attraverso questo blog. Io, da parte mia, proverò con questo blog a descrivere Beirut.
Buona Lettura!
Paolo Martino