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mercoledì 12 settembre 2018

Il vero tesoro del Libano

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Viaggio sulle tracce del Lebanon Mountain Trail, il primo sentiero di montagna ad attraversare il Libano da nord a sud.



Il Libano nasconde un tesoro, incastonato tra la costa mediterranea ricoperta di edifici ad ovest e i verdi campi della valle della Beqaa ad est. È un tesoro fatto di profonde valli, montagne dai pendii lievi e dalle cime per lo più arrotondate, frutteti ricoperti di fiori in primavera e carichi di frutta d’estate, foreste sempreverdi di pini, abeti e rari cedri, monasteri e luoghi di culto,  villaggi più o meno sperduti e gente ospitale. Uno scrigno pieno di bellezza ed ancora incontaminato, in una terra che, se lo sguardo si limita alla fascia costiera dove le più grandi città sorgono, Beirut in primis tutta protesa verso il mare, sembra aver subito pesantemente gli effetti più nefasti della modernizzazione: edilizia selvaggia, cementificazione, inquinamento dell’aria e delle acque, traffico selvaggio, plastica ovunque. Un tesoro che si può scoprire solo zaino in spalla, se ci si lascia alle spalle l’autostrada sempre ingorgata che collega le città della costa da nord a sud e ci si inoltra in una delle tante valli che tagliano le montagne in direzione ovest-est, un tesoro che si può conoscere a fondo solo se si è disposti ad abbandonare i tempi frenetici della città ed adottare i tempi lenti ma costanti del passo di montagna.  






L’idea stessa del Libano, d'altronde, viene dalla montagna. Il Monte Libano è il cuore del paese, ne costituisce l’essenza profonda, almeno geograficamente e storicamente. Laban erano le montagne che si stagliavano al cielo a pochi chilometri dalla costa mediterranea, montagne ricche di fiumi, acqua e neve durante l’inverno. “Laban” perché questa parola, usata oggi in arabo per riferirsi allo yogurt, veicolava  l’idea di bianchezza e perciò bene descriveva quelle cime ricoperte di neve, la loro unicità in una regione povera d’acqua. Laban è diventato Lubnan, ed ha dato il nome alla catena montuosa stessa, il Monte Libano. Proprio da una parte di questa regione montagnosa, secoli dopo, nacque la prima idea di Libano, quando nel 1861 le potenze europee decisero che un’entità autonoma doveva essere creata all'interno dell’impero Ottomano in pieno declino per proteggere le comunità cristiane che vivevano nell'aerea. Con l’inizio del mandato francese, sessantanni dopo, il “piccolo Libano” essenzialmente montuoso fu allargato notevolmente, inglobando i territori circostanti e le comunità che vi vivevano. Veniva così creato il “Grande Libano” e la demografia ne usciva completamente mutata, non più un’entità a grande maggioranza cristiana, ma un paese pluriconfessionale che inglobava cristiani di diverse confessioni, musulmani sciiti e sunniti, drusi. Anni di guerra civile e ingenti ondate migratorie - prima da sud (Palestina) e più recentemente da Nord ed Est (Siria) - hanno complicato ulteriormente il panorama sociale ed antropologico di un paese dalla sua nascita fragile, ed alterato quell'equilibrio demografico teorico tra musulmani e cristiani su cui si basa tuttora il sistema politico libanese. 



Differenza territoriale tra il "Piccolo Libano" creato nel 1861 (in verde scuro) ed i confini del Libano attuale nati con il mandato francese (in azzurro). 



Malgrado l’allargamento avvenuto con il mandato francese, che ha dato al Libano i suoi confini attuali, il Monte Libano continua a costituire la spina dorsale del paese. Esso si estende da nord a sud per circa 170 chilometri, dividendo la fascia costiera dove sorgono le città libanesi più importanti – Beirut, Tripoli, Tiro e Sidone – dalla Beqaa, larga valle pianeggiante prevalentemente agricola e rinomata per i suoi vini (grazie ai mille metri d'altitudine a cui si estende),  limitata a ovest dal Monte Libano stesso e ad est dalla catena montuosa dell’Anti-Libano. Il Monte Libano è formato da montagne prevalentemente tondeggianti e poco scoscese, che partono basse vicino al mare per poi crescere verso l’interno, superando i duemila metri ed arrivando a toccare i tremila nella zona più settentrionale della catena. Qurnat el Sawda, con i suoi 3093 metri, ne è la cima più alta.



Afqa, sorgente del fiume Nahr Ibrahim.



Addentrarsi nel Monte Libano, soprattutto nelle sue zone più remote, è come entrare in un mondo differente, a volte sembra quasi di cambiare paese, eppure ci si è spostati di poche decine di chilometri dalla costa. L’aria diventa pulita, i rumori svaniscono, la natura prende di nuovo il sopravvento sul cemento. Le persone ti accolgono calorose e desiderose di scambiare due chiacchiere, ti offrono quello che hanno, invitandoti ad entrare nella loro casa, per pranzo o per cena, insistono affinché tu ti fermi a dormire. Il Monte Libano è un tesoro sconosciuto ai più che visitano il Libano, ai turisti che si limitano alle mete più famose, passando frettolosamente in macchina per fare qualche foto ai famosi Cedri di Dio, ma proseguendo poi oltre verso Baalbek o scendendo di nuovo verso il mare. Eppure, esso rappresenta la vera meraviglia del Libano, una grande ricchezza da promuovere e proteggere.







Da qualche anno esiste un’associazione che ha deciso di valorizzare questa tesoro, creando il primo sentiero di trekking che percorre tutto il Monte Libano da nord a sud, attraversando così longitudinalmente anche gran parte del paese. La Lebanon Mountain Trail Association, nata grazie ad un progetto di ECODIT ed i finanziamenti dell’Agenzia Americana per lo Sviluppo (USAID), è stata infatti  creata nel 2007  con l’obiettivo di incentivare il turismo sostenibile in Libano e di mostrare e proteggere le bellezze naturali ed il patrimonio culturale di questo paese. Il risultato tangibile di questo progetto è stato la creazione, in soli due anni, del Lebanon Mountain Trail, un sentiero di montagna lungo 470 chilometri che unisce l’estremo nord del paese alle al suo estremo sud, passando per più di 70 paesi di montagna e snodandosi ad altitudini comprese tra i 600 ed i 2000 metri dal livello del mare. 



Tracciato del Lebanon Mountain Trail, dalla sua primissima tappa nel nord del paese a pochi chilometri dalla Siria, Andqet, all'ultima nell'estremo sud, Marjaayoun, a una decina di chilometri dal confine israeliano.



Il Lebanon Mountain Trail è diviso in 27 sezioni, ognuna delle quali unisce due delle 28 tappe in cui esso è suddiviso. Ogni sezione varia in difficoltà e lunghezza, con dislivelli che vanno dai 500 ai 1200 metri e con lunghezze che variano dai 10 ai 20/25 chilometri. Il sentiero inizia nell’Akkar, la regione più a nord del Libano, partendo dalla cittadina di Qubayat (anche se ora una sezione numero 0 è stata creata prima di Qubayat, dal villaggio di Andqet). Il lungo tracciato si snoda verso sud con una lieve flessione verso ovest, attraversando zone remote fino ad arrivare alla valle della Qadisha, famosa per i suoi monasteri che da secoli ospitano comunità monastiche cristiane. Il sentiero sfiora i famosi Cedri di Dio e poi continua verso sud, addentrandosi nella regione centrale del Libano – Il Monte Libano politico – ed attraversando villaggi cristiani e musulmani fino ad arrivare nello Chouf, la regione meridionale della catena montuosa, rifugio storico della comunità drusa. Il sentiero prosegue poi nell'estremo sud del paese, zona prevalentemente sciita, fino a terminare nella cittadina di Marjaayoun, a una decina di chilometri dal confine con Israele (per percorrere quest’ultimo tratto, gli stranieri devono chiedere l’autorizzazione all'esercito libanese).   



Valle della Qadisha vista da Bsharre. 



Grazie al Lebanon Mountain Trail è possibile avere una visione tutta nuova del Libano. Esso permette di scoprire le sue bellezze naturali nascoste, di annusarne i profumi, ascoltarne i rumori, contemplarne i colori. In primavera, le valli e i pendii del Monte Libano si riempiono di fiori, si colorano di un verde acceso, l’acqua abbondante rende la natura florida e rigogliosa. Da nord a sud, il Monte Libano è zona di frutteti ed il percorso spesso ci passa attraverso, si cammina tra distese di meli o ciliegi in fiore, coltivati sui terrazzamenti costruiti sopra i lievi pendii di queste montagne. Le ginestre e le margherite colorano i prati, mentre le api ronzano e volano operose da un fiore all'altro.  Lungo il cammino, non è raro incontrare arnie dove esse vengono allevate.


















Andando verso l’estate, gli stessi frutteti si caricano di frutta, ad agosto gli alberi sono carichi di mele rosse e verdi, i rami si piegano sotto il loro peso. In altre zone, le conifere sempreverdi si stagliano verso il cielo, soprattutto abeti e pini, più rari i famosi cedri del Libano, che a causa del proprio legno pregiato hanno subito gli effetti nefasti di secoli di deforestazione ed oggi sono presenti soprattutto in aree protette, come la riserva naturale dello Chouf, quella di Tannourine o i famosi Cedri di Dio vicino a Bsharre.  









La riserva dei Cedri di Dio di Bcharre vista dall'alto. In essa si trovano i cedri più antichi del Libano. In altre riserve, più recenti ma anche più estese, si sta procedendo con una lenta opera di riforestazione. Nella riserva dello Chouf, è addirittura possibile "adottare" un cedro.




Eppure, il Lebanon Mountain Trail non permette solo di scoprire le bellezze nascoste del Libano. Percorrerlo significa avvicinarsi al Libano stesso, comprendere meglio la varietà culturale, religiosa e confessionale che caratterizza questo paese, è un modo per entrare in contatto diretto con questa pluralità, fonte di ricchezza ma inevitabilmente anche di contrasti. Con i suoi 470 chilometri, il percorso attraversa numerosi villaggi, alcuni grandi e popolati, altri piccoli ed isolati, lungo il cammino si incontrano musulmani, cristiani, drusi, ci si imbatte in chiese, moschee, monasteri e santuari. Le persone sono sempre felici di scambiare due chiacchiere, ed ogni incontro permette di comprendere meglio la complessità di questo paese, di aggiungere un tassello alla propria comprensione. 



Santuario di Nabi Ayyoub - vicino alla cittadina di Niha, nello Chouf -  luogo sacro per la comunità drusa. 





Chiesa di Saint Shallita, vicino a Qubayat 




Gli incontri, d'altronde, costituiscono forse la vera ricchezza per chi decide di intraprendere il Lebanon Mountain Trail, parzialmente o per intero. Attraverso i sentieri di montagna, lungo le strade agricole sterrate che spesso il percorso segue, si incontra un popolo che, lontano dalla frenesia anonima della città, si riscopre nella sua ospitalità più autentica. Non c’è stata una volta, tra le varie in cui ci siamo cimentati in una o più tappe di questo lungo percorso, in cui qualcuno non ci abbia stupito con un’accoglienza calorosa, un gesto gentile, un invito. 

Sulla strada da Maaser el-Chouf a Niha – nello Chouf, la parte meridionale del Monte Libano – abbiamo incrociato un signore che trasportava due borse cariche di fichi sul dorso di un asino. Lui ci ha fatto cenno di avvicinarsi, senza parlare ha preso una manciata di fichi e ce li ha offerti, dicendoci poi di prenderne quanti volessimo. Noi, con i nostri schemi mentali, pensavamo volesse venderceli, invece era solo un gesto di cortesia gratuita, che ci ha fatto cominciare il trekking con un sorriso.  

Tra Qubayat e Teshaa – dalla parte opposta, nell'estremo nord – i coltivatori di mele hanno fatto lo stesso, invitandoci a raccoglierne quante volessimo direttamente dall'albero. Un signore simpatico, dalla pancia sporgente, il fiatone per la salita appena fatta ed il fucile a tracolla, ci ha invitato a prendere mele e noci, “questo è tutto vostro,” ha detto indicando gli alberi che crescevano sul suo terreno, ha rivolto lo stesso invito a due macchine che passavano lungo la strada, poi ci ha chiesto ripetutamente se volevamo cenare o dormire a casa sua. Poco prima, un pastore dagli occhi chiari e l’accento poco comprensibile aveva fatto lo stesso, invitandoci a dormire nella sua dimora tra i pascoli. La sera prima a Qubayat George – il proprietario di un bel campeggio con bungalow in pietra, il Jabalna Ecolodge – ci aveva invitato a cena con famiglia ed amici, con loro avevamo mangiato e bevuto in abbondanza: mutabbal, kebbe di carne cruda, tabbule e carne di maiale alla griglia, il tutto accompagnato da numerosi bicchieri di araq. Il giorno dopo a Teshaa, piccolo paesino sperduto tra le montagne dove siamo arrivati al tramonto dopo parecchie ore di camminata, le persone ci hanno accolto sorprese ma ospitali, più famiglie ci hanno invitato ad entrare a prendere un caffè, mentre i bambini del paese ci hanno riempito di domande, offrendosi di accompagnarci a vedere una sorgente poco distante. 






Tra le strade di montagna spesso abbiamo fatto l’autostop, per tornare al paese dove avevamo lasciato la macchina la mattina stessa. A caricarci più di una volta sono stati ragazzi siriani, che passavano con camioncini da lavoro o con macchine mezze scassate, e spesso allungavano il proprio tragitto pur di portarci dove dovevamo andare, felici di aiutarci. Sulla strada tra Afqa e Aqqoura si è fermata una macchina con a bordo un uomo e una donna, anch'essi siriani. Malgrado fossimo cinque, hanno insistito affinché salissimo tutti, una di noi si è trovata sulle gambe della donna seduta sul sedile davanti. La coppia, loquace e simpatica, ci ha accompagnato alla macchina e poi ci ha invitato ripetutamente a prendere un caffè nella loro casa. Abbiamo così conosciuto la loro famiglia ed ascoltato le loro storie, il caffè si è trasformato in una cena abbondante e deliziosa preparata in fretta per gli ospiti inattesi, abbiamo passato con loro diverse ore e li abbiamo salutati solo a notte inoltrata. 

Ogni volta che ci siamo incamminati tra le cime del Monte Libano, esso ci ha riservato qualche sorpresa. Lungo il Lebanon Mountain Trail ogni tappa nasconde infatti piccoli o grandi tesori, ogni camminata riserva un incontro. Sulle sue tracce si riscopre tutta la bellezza del Libano, e si riesce finalmente a capire perché i libanesi siano così innamorati della propria terra. 

Pochi giorni fa, passeggiando tra i meleti carichi di frutti, mi sono tornate alla mente le parole di un libro da poco iniziato in cui il protagonista, un uomo libanese in esilio volontario in Francia a causa della guerra civile, ricorda con nostalgia l’odore della propria infanzia, della propria terra. Una terra fertile ed ospitale, ricca di odori, colori e sapori da scoprire e storie da ascoltare, se si è disposti a mettersi lo zaino in spalla ed incominciare a camminare. 

“Durante la sua lunga permanenza in Francia [Karim] sognava le mele del Libano, il loro profumo si mischiava a quello del caffè, e lui inalava l’odore della sua infanzia. […] La fragranza delle mele si mischiava con il profumo dei chicchi di caffè nelle mani di suo padre il farmacista, che ordinava ai due figli di mangiare una mela alle cinque del pomeriggio, perché le mele del Libano sono meglio di una medicina. […] Là,  in quella lontana città francese, Karim provò per la prima volta il dolore di un profumo che scompare. Tentò di raccontare a Bernadette dell’odore delle mele e dei chicchi di caffè, ma si trovò incapace di descriverlo, come descrivere un profumo a una persona che non l’ha mai sentito, che non l'ha mai annusato?"
[Sinalcol, Elias Khoury]



martedì 8 maggio 2018

Viaggio all'interno del campo di Tal Abbas

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Incontro con i volontari di Operazione Colomba, presente dal 2014 in un campo profughi nel nord del Libano. 


Tal Abbas, novembre 2017. Al nostro arrivo un folto gruppi di bambini e bambine di diverse età, incuriositi dai volti nuovi, ci corre subito incontro, alcuni si avvinghiano alle nostre gambe chiedendo “shu ismak??”, poi ognuno di loro prende uno di noi per mano e ci accompagna all'interno del campo. Insieme a loro c’è Alessandro, che ci accoglie calorosamente e ci presenta alle varie persone che ci stanno aspettando. Il loro benvenuto è altrettanto caloroso, diverse famiglie ci invitano a mangiare o a bere un tè nella propria tenda mentre i bambini ci corrono attorno reclamando attenzioni.

Siamo a Tel Abbas, un piccolo paesino libanese situato nella regione settentrionale dell’Akkar, in uno dei tanti campi profughi sorti in Libano con l'arrivo di centinaia di migliaia di persone siriane, in fuga dalla guerra che dal 2011 strazia il loro paese. Da dove ci troviamo, la Siria dista infatti pochi chilometri e le sue terre si vedono nitide all'orizzonte. Siamo vicinissimi al confine, quel confine da cui, dall'inizio della guerra ad oggi, più di 1 milione e mezzo di uomini, donne e bambini è passato per cercare salvezza dagli orrori della guerra. Lo stesso confine che negli ultimi anni, ed in particolare dal 2015, è sempre più chiuso ed uccide al pari di bombe e proiettili (di questo inverno è la notizia di diverse persone trovate morte congelate mentre tentavano di attraversare il confine).

Il campo è formato da una dozzina di tende rettangolari coperte da teli di plastica, una struttura in legno utilizzata per varie attività, uno spazio per bambini malmesso, alcune stanze in muratura di un edificio trasandato. Le famiglie sono numerose ed i bambini tanti – anche dieci per famiglia – ma lo spazio è poco ed ognuna di esse deve vivere in tende di pochi metri quadrati. Anche lo spazio esterno è ristretto, una striscia di terreno ghiaiato delimitato da una parte dalle tende stesse e dall'altra da alcuni edifici in muratura. Dietro alla prima fila sorgono altre due file di tende adiacente ad essa che però, come ci verrà poi spiegato, fanno parte di un campo distinto.  









Edificio in legno usato come scuola e per altre attività, prima che un incendio doloso ne distruggesse una parte. 

Il campo di Tal Abbas è simile a tanti altri insediamenti informali sorti in Libano dall'inizio del conflitto in Siria (informali, perché fin dall'inizio della guerra il governo libanese si è opposto alla creazione di campi formalmente riconosciuti sullo stampo di quelli palestinesi, esistenti nel paese da più di sessant'anni).  Eppure, esso possiede al tempo stesso una peculiarità che lo rende differente dagli altri: a fianco delle varie famiglie siriane che lo popolano, in una tenda del tutto uguale alle altre vivono, condividendo con le persone del campo una quotidianità faticosa e piena di ostacoli, alcune ragazze e ragazzi italiani. Essi fanno parte di Operazione Colomba, organizzazione nata come corpo non violento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII e presente da più di vent'anni in zone di conflitto. Tra loro, alcuni sono volontari e volontarie di corto periodo e si fermeranno solo alcuni mesi, mentre Alessandro è il volontario di lungo periodo e vive nel campo da quasi due anni.


Alessandro, al centro, insieme a due dei ragazzi del campo. 

Poco dopo il nostro arrivo, una delle famiglie insiste per averci ospiti a pranzo e ci accoglie nella propria abitazione. Essi sono tra i pochi del campo a vivere in una struttura in muratura, una stanza buia di pochi metri quadrati ricavata in un edificio di blocchi grigi, sicuramente più simile ad una cantina o a un magazzino per gli attrezzi che a una casa. A Tel Abbas come nel resto del Libano, le famiglie siriane che non possono permettersi l'affitto di un appartamento – la stragrande maggioranza - non hanno grandi alternative, una parte di esse vive in vecchi garage e magazzini convertiti in abitazioni di fortuna, in edifici abbandonati o incompleti situati nelle zone e nei quartieri più poveri delle città (spesso pagandone comunque l'affitto ai padroni di casa), i rimanenti nelle tende dei campi profughi sorti con l'inizio della guerra. La stanza, che funge da sala da pranzo durante il giorno e diventa camera da letto durante la notte – ospitando coricati l'uno accanto all'altro sui materassi stesi al suolo padre, madre ed i numerosi figli – è spoglia e fornita di pochissime cose: alcuni materassi ed un tappeto sul pavimento di cemento, una vecchia tv di pochi pollici in un angolo, una caldaia arrugginita al centro della stanza. Separato da una tenda un secondo spazio usato come cucina, vicino ad essa uno stanzino con una turca per i bisogni corporali. Nonostante la situazione di estrema vulnerabilità e povertà, l'accoglienza di Abu Mohammed, Umm Mohammed ed i loro figli è sorprendente: dopo esserci seduti lungo le pareti della stanza, ci viene portato un largo vassoio di ferro pieno di cibo squisito, tra cui falafel, hummus, laban, melanzane grigliate e ripiene, zatar, olive. Finito lo spuntino, Umm Mohammed ci offre prima tè zuccheratissimo e poi caffè turco, mentre Abu Mohammed insiste affinché fumiamo una delle sue sigarette. Malgrado le barriere linguistiche e l'imbarazzo del primo incontro, l'atmosfera è rilassata ed accogliente, alcune di noi giocano con i bambini e le bambine più piccole mentre altri chiacchierano con gli adulti ed i ragazzi più grandi.   








Dopo pranzo, Alessandro ci porta sul tetto di uno degli edifici in muratura delimitanti il campo e lì ci parla a lungo di come esso è organizzato, della vita al suo interno, delle difficoltà e dei pericoli quotidiani, e di ciò che Operazione Colomba fa per stare accanto ed aiutare  - quando possibile - le persone del campo e delle zone limitrofi. Ci viene così spiegato che le tre file di tende che vediamo dall'alto fanno in realtà parte di due campi distinti. Nel primo, quello dove ci troviamo, le varie famiglie pagano l’affitto della terra – tra le 30’000 e le 40'000 lire al mese per tenda – al proprietario terriero libanese. Le due file posteriori invece costituiscono un campo distinto, dove vivono famiglie ancora più povere e dove l’affitto della terra è pagato dalla carità di un saudita. Alessandro ci spiega come questo comporti però la presenza di regole molto più rigide e di un clima di tensione e di costante minaccia per le oltre 300 persone che vivono al suo interno.


I due campi visti dall'alto: le due file di tende più lontane costituiscono un campo distinto. 

Anche se la situazione del campo dove ci troviamo è relativamente migliore, essa è comunque precaria e piena di problemi. Le persone del campo, come la maggior parte dei siriani presenti in Libano, vivono in una situazione di vulnerabilità estrema e devono affrontare una quotidianità ricca di difficoltà e rischi. Le condizioni abitative sono inadeguate e le persone sono esposte alle intemperie ed al freddo durante l’inverno ed al caldo durante l’estate, in una regione dove le temperature sono molto alte durante i mesi estivi e molto basse durante i mesi invernali. Anche la gestione di servizi minimi come l'acqua – prelevata da alcuni pozzi presenti nel campo o acquistata e stoccata in cisterne – e l'elettricità è problematica, ed aggiunge ulteriori rischi alla già fragile situazione del campo. Gli impianti elettrici sono scoperti ed i fili vengono collegati e tirati da una parte all'altra come possibile, aumentando il rischio di cortocircuiti e di incidenti, soprattutto per i più piccoli. I bambini, numerosissimi, vivono infatti in un ambiente poco sicuro e pieno di pericoli, dove a volte si muore per un passo falso o per un eccesso di curiosità.  “I campi profughi non dovrebbero esistere, tolgono la dignità alla persona,” ci dice Alessandro mentre parla di due dei bambini che hanno perso la vita nel campo, una cadendo in uno dei pozzi d’acqua e l’altro rimanendo fulminato al contatto di un cavo elettrico. 






Ai problemi abitativi si aggiunge poi la sfida quotidiana della sussistenza. Secondo le stime ufficiali dell’UNHCR, la situazione economica dei siriani in Libano ha continuato a peggiorare negli ultimi anni: stando alle stime del 2017, 76% delle famiglie vive oggi sotto la soglia di povertà, mentre il 58% vive in una condizione di povertà estrema. A Tel Abbas come nel resto del Libano, alcune delle famiglie più vulnerabili ricevono su carta di credito un’assistenza monetaria minima da parte dell’UNHCR, che negli ultimi anni ha però ridotto il numero di famiglie assistite per mancanza di fondi. Inoltre, chi riesce lavora in maniera irregolare nelle zone limitrofe al campo, soprattutto nell'agricoltura e nelle costruzioni, ma è esposto allo sfruttamento e ad una totale mancanza di tutele e diritti per la sua condizione di irregolarità. La mancanza di risorse economiche si ripercuote sulla difficoltà d’accesso alle cure sanitarie, in un paese dove i servizi pubblici sono praticamente inesistenti ed il sistema sanitario risulta caro anche per la popolazione locale. Esempio della criticità della situazione è la storia di Ahmed, bambino siriano di un villaggio vicino che ha avuto un incidente ed è rimasto parecchi giorni con una gamba rotta, perché gli ospedali si rifiutavano di operarlo in mancanza di 1000 dollari, e solo dopo aver fatto una colletta e aver racimolato la cifra richiesta i ragazzi di Operazione Colomba sono riusciti a garantire l’operazione. Alle difficoltà di accesso al sistema sanitario si sommano le difficoltà nel garantire ai bambini un’educazione continuativa: malgrado gli aiuti internazionali, barriere economiche, logistiche e linguistiche continuano a impedire a buona parte dei bambini di ricevere un’educazione continuativa e completa. 




Le sfide quotidiane sono accompagnate ed amplificate dai problemi legati alla situazione legale delle persone residenti nel campo e alla difficile relazione tra esse e la popolazione libanese locale. La stragrande maggioranza dei siriani di Tal Abbas, come nel resto del Libano, non è in possesso di un permesso di soggiorno e risulta quindi illegale, anche se in possesso della registrazione con l’UNHCR. Questa situazione pone i siriani in una condizione di estrema vulnerabilità nei confronti delle autorità, che possono arrestarli ed incarcerarli in qualsiasi momento – spesso usando metodi violenti –  e ne limita notevolmente la libertà di spostamento, visti i numerosi check point e controlli disseminati lungo le strade libanesi, limitando la vita di molti adulti e bambini agli spazi ristretti che il campo offre. Un secondo problema riguarda la relazione tra gli ospiti del campo e la comunità locale libanese, una relazione che, come nel resto del Libano, è spesso tesa e conflittuale. Alessandro ci racconta come, nel caso di Tel Abbas, la presenza di Operazione Colomba sia iniziata proprio poiché gli abitanti del campo avevano ricevuto minacce dall'esterno. Alessandro non usa mezze parole e definisce come “mafiosi” i metodi utilizzati da alcune famiglie libanesi nei confronti delle persone siriane del campo, metodi fatti di minacce, intimidazioni e violenza. Per farci un esempio, Alessandro ci spiega come le persone del campo fossero costrette ad acquistare cibo e prodotti dal negozio di proprietà della famiglia che possiede i terreni dove le tende sorgono. Altra manifestazione palese della situazione conflittuale con l’esterno e dell’estrema vulnerabilità delle famiglie siriane è l’incendio che pochi mesi fa è scoppiato all'interno del campo bruciando parte della scuola, incendio che probabilmente ha avuto origine dolosa ed avrebbe potuto trasformarsi in una tragedia se solo ci fosse stato vento o se le persone del campo non se ne fossero accorte in tempo. 




Fronte a tutte queste difficoltà, la presenza ed il lavoro di Operazione Colomba risultano di fondamentale importanza per tutelare quanto possibile la dignità delle persone che vivono nel campo, per aiutarle ad affrontare le sfide ed i problemi quotidiani e per ridurre i rischi nel rapporto tra il campo e l’esterno.  Alessandro ci spiega come il lavoro di Operazione Colomba in Libano si articoli principalmente in tre parti. La prima consiste nella presenza diretta sul terreno, nella vicinanza alle famiglie e nella condivisione della quotidianità all'interno e all'esterno del campo. La presenza di ragazzi e ragazze italiane, che decidono volontariamente e gratuitamente di rinunciare temporaneamente ai propri privilegi per vivere temporaneamente accanto a persone che hanno perso tutto, non ha solamente un forte valore umano. In un mondo dove la nazionalità ed il colore del passaporto contano, la presenza di persone europee all'interno del campo svolge di per sé un ruolo di garanzia, protezione e deterrenza dalla violenza. I volontari di Operazione Colomba si pongono come mediatori quando sorgono situazioni di conflitto con l’esterno, sia con le autorità o con la popolazione locale. Recentemente, essi sono ad esempio riusciti ad impedire che una delle tende del campo costruita al bordo della strada fosse distrutta dall'esercito. La loro azione non è però limitata all'interno del campo. Con i cosiddetti “accompagnamenti”, essi scortano le persone negli spostamenti all'esterno del campo, a volte necessari ad esempio per ragioni mediche. Come già riportato sopra, la condizione di irregolarità della maggior parte delle persone siriane le espone ad arresti arbitrari e a violenze verbali e fisiche da parte delle autorità. La presenza di persone europee svolge anche in questo caso una funzione deterrente e di mediazione nel caso di controlli e durante il passaggio – spesso obbligato – attraverso i check point disseminati lungo le strade del Libano.

Il secondo campo d’azione di Operazione Colomba è la collaborazione con varie organizzazioni locali ed internazionali, e lo svolgimento di un ruolo di ponte e contatto tra esse e le persone del campo e delle zone limitrofi. Tra queste organizzazioni, la collaborazione con il progetto dei corridoi umanitari promosso dalle chiese valdesi e dalla comunità di Sant'Egidio merita una menzione speciale. Grazie a questo progetto varie famiglie del campo, alcune in grave necessità di cure mediche, hanno infatti potuto viaggiare verso l’Europa in maniera legale, e sono state accolte dalle varie comunità disseminate sul territorio italiano e francese. Malgrado il progetto riguardi purtroppo numeri molto limitati (anche considerando la partecipazione futura di altri stati Europei), esso rappresenta spesso l’unica speranza per le persone del campo, che hanno rinunciato da tempo all'idea – presente durante i primi anni di conflitto – di tornare in Siria nel breve periodo e vivono in uno stato che non li vuole e dove non vi è possibilità di alcun tipo di futuro.




Vista la situazione di limbo permanente in cui queste persone vivono, e visto il desiderio diffuso che esisterebbe tra i profughi siriani di tornare in Siria, se le condizioni fossero diverse da quelle attuali che rendono il ritorno impossibile, il terzo punto ancora più ambizioso sul quale Operazione Colomba lavora è la presentazione di una proposta di pace per la Siria. La proposta, scritta insieme ai profughi siriani stessi e presentata il 3 maggio al Parlamento Europeo, prevede la creazione di zone umanitarie sicure in Siria, neutrali rispetto al conflitto e sottoposte a protezione internazionale, dove i siriani scappati dalla guerra possano tornare a vivere in pace e sicurezza. Essa rimane per il momento solo una proposta e la sua realizzazione presenterebbe una serie di sfide ed ostacoli difficilmente superabili, ma rappresenterebbe al tempo stesso l’unica soluzione per centinaia di migliaia di persone, bloccate in un paese che non vuole e non può offrir loro un futuro e a cui l’accesso ad altri paesi, tra cui quelli Europei, è generalmente precluso. Secondo i volontari di Operazione Colomba è quindi necessario immaginare vie e soluzioni mai pensate prima, di cui la proposta di pace è esempio. 

Alessandro ci parla di tutto questo in piedi sul tetto di uno degli edifici delimitanti il campo, mentre la vita tra le tende continua come suo solito: i bambini giocano tra fili, tubi e cisterne, i più grandi si rincorrono, i più piccoli esplorano quella piccola porzione di mondo a loro disposizione. Alcuni adulti sono indaffarati, altri siedono su sedie di plastica, chi chiacchiera, chi fuma una sigaretta pensieroso. Abu Mohammed è sul tetto con noi ed anche lui fuma poco distante, tiene una mano appoggiata al fianco e con l’altra porta la sigaretta alla bocca ad intervalli regolari, con uno sguardo serio sorvola il campo che da lì sopra appare nella sua interezza. Per un attimo, smetto di ascoltare Alessandro e mi concentro sul suo sguardo, che mi colpisce come un pugno nello stomaco, di quelli che ti lasciano per alcuni secondi senza fiato. Vedendolo così, lo sguardo serio e pensieroso che mi appare velato di tristezza, mi chiedo cosa possa provare un padre nel vedere i propri figli crescere in un posto del genere, nel saperli in uno stato che non li vuole, mi chiedo da dove queste persone prendano la forza per continuare quotidianamente a vivere, a lottare, per sopportare una situazione che invece di migliorare di anno in anno peggiora peggiora, una situazione su cui non hanno alcun controllo, mi chiedo da dove arrivi la speranza, se ancora ce n’è. Ricomincio ad ascoltare Alessandro senza trovare risposte a queste domande che pesano come macigni, che porto a Beirut con me, quando con la gente del campo ci salutiamo con la promessa di tornare presto a trovarli. 

“I campi profughi non dovrebbero esistere, tolgono la dignità alla persona. È un posto che fa schifo, ma dove c’è tanta bellezza umana,” ci dice Alessandro, e questa è l’unica conclusione che riesco per il momento a raggiungere, mentre le stesse domande mi pesano addosso senza risposta e lo sguardo di Abu Mohammed mi rimane inciso come una cicatrice nella memoria e nel cuore. 





venerdì 22 dicembre 2017

Contraddizioni

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Beirut è piena di contraddizioni. Non c’è parola che riassuma meglio la prima impressione che questa città trasmette quando ti trovi di punto in bianco immerso nelle sue vie, così simili e al tempo stesso così diverse da ciò a cui il nostro occhio occidentale è normalmente abituato. Contraddittorie sono un po’ tutte le città moderne, spazio per eccellenza dell’incontro tra ricchezza e povertà, luogo dove milioni di individui di diversa provenienza ed estrazione sociale si trovano a convivere lato a lato, dove miriadi di storie individuali e collettive si incrociano, e le differenze balzano subito all'occhio, colpiscono, lasciano spiazzati. Eppure a Beirut, città uscita da quindici anni di guerra civile e da diverse invasioni straniere, l’ultima avvenuta solo una decina di anni fa, queste contraddizioni appaiono elevate all'ennesima potenza,  i contrasti emergono ovunque: tra gli edifici che riempiono la città, tra i mezzi e le persone che la popolano, negli spazi che la compongono, tra la città e la geografia circostante.







Grattacieli altissimi ed edifici moderni disegnano il profilo della città. Eppure, spesso essi sorgono al lato di edifici vecchi e malandati, a volte a pochi passi da case diroccate, alcune delle quali portano ancora i segni di proiettile lasciati dagli anni di guerra. Passeggiando per le sue vie, ci si imbatte spesso in case abbandonate o inagibili, eppure in tutta la città si continua a costruire edifici nuovi, le gru si innalzano al cielo, segnando gli scorci che questa città regala.














Nei quartieri più ricchi locali alla moda in stile occidentale riempiono le strade. A Mar Mikhael, zona di Beirut famosa per la movida notturna, decine di locali ben curati ed arredati con gusto – molto hipster – offrono cibi e bevande di tutti i tipi. Gli interni ordinati e raffinatamente curati nei particolari urtano però con l’ambiente esterno, spesso trasandato e lasciato all'incuria. I marciapiedi sono frequentemente sconnessi e tappezzati di escrementi dei cani portati a passeggio, i bidoni dell’immondizia sistemati lungo la strada in maniera approssimativa, i rifiuti abbandonati per strada. Soprattutto, migliaia di fili elettrici tirati da una casa all'altra ricoprono le strade ed i vicoli, si ingarbugliano attorno ai pali della luce senza apparente logica.





Nei bar e nei pub di Hamra, altra zona famosa per i suoi locali, la gente beve e si diverte, mentre sui marciapiedi circostanti donne siriane circondate da tanti figli, alcuni neonati, fanno l’elemosina, i bambini più grandicelli ti rincorrono, chiedendoti di comprar loro un gelato o qualche caramella. Le strade della città sono percorse da SUV nuovi ed ingombranti – come altrove, la dimensione della macchina sembra un modo per ribadire il proprio status sociale – e da macchine sportive, truccate e rumorose.  I motori potenti e le dimensioni ingombranti delle macchine sembrano però alquanto superflui e poco funzionali, in una città le cui le strade interne sono strette e fittamente parcheggiate e quelle principali sono sempre intasate dal traffico, in cui rimanere imbottigliati è la norma. Nelle stesse strade in cui questi macchinoni cercano di muoversi è possibile incontrare carretti trainati a mano, persone che vendono grano turco bollito ed altri cibi economici, o altri baracchini mobili dove puoi comprare un caffè turco a mille lire (poco più di 50 centesimi di euro). Lo stesso caffè, se comprato nel centro commerciale di Ashrafiyyeh, una delle zone più benestanti della città, può costare cinque o sei volte tanto. I prezzi oscillano in alto e in basso a seconda del quartiere, ed anche la geografia urbana cambia con essi. Esempio lampante è il centro città, completamente diverso dai quartieri limitrofi. Interamente ricostruito dopo la guerra, avrebbe poco da invidiare ai centri storici di tante città europee, con i suoi portici e i suoi edifici eleganti in pietra giallo sabbia. Ma, a causa della speculazione edilizia che ha accompagnato la ricostruzione ed il conseguente aumento dei prezzi, il centro appare oggi desolato, quasi fantasma: le persone che camminano per le sue vie si contano sulle dita di una mano, molti dei negozi e dei bar che dovrebbero animare i suoi portici sono chiusi in attesa di un proprietario, le vetrine impolverate e gli interni lasciati all'incuria. Malgrado le poche persone, le strade sono strettamente sorvegliate da numerosi militari, che camminano fiaccamente per le vie semi deserte.











D'altronde, l’esercito è la manifestazione più tangibile dello Stato libanese, che appare allo stesso tempo estremamente presente ed estremamente assente. Presente nei posti di blocco, nei numerosi militari armati che si incrociano per le strade, nei mezzi blindati che si trovano in giro, come il carrarmato piazzato in mezzo alla rotonda di Daura. Presente anche nella sua forma simbolica: le bandiere con il cedro si vedono ovunque, alcune sventolano enormi come quella in piazza Sassine, una più piccola si muove sui faraglioni di Rauche. Ma assente nella dimensione dei servizi offerti al cittadino, visti il costo altissimo del sistema sanitario, le carenze nella fornitura di elettricità ed acqua, i limiti dei trasporti pubblici. 








Infine, i contrasti sembrano innati persino nella morfologia nel territorio in cui Beirut sorge. Essa è infatti adagiata sul mare ma circondata dalle montagne, basta poco più di mezz'ora di macchina per passare da zero a mille metri, dalle spiagge alle foreste di conifere. Montagne che, a differenza di quelle a cui i nostri occhi sono normalmente abituati, sono però fittamente costruite e popolate, di notte si accendono e migliaia di puntini gialli le illuminano.






Tutte queste sono solo alcune delle contraddizioni racchiuse in Beirut,  città che offre tanto ma pretende tanto, che tanti amano e tanti detestano. Quanto a me, per il momento mi mantengo neutrale, cerco di divincolarmi nel traffico, esploro a piedi la città per tentar di comprenderla. Tra qualche mese, saprò dire a quale dei due gruppi appartengo.