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lunedì 25 dicembre 2017

Kenya: Buon Natale a tutti, davvero

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Buon Natale a tutti, davvero.

Buon Natale a Simon, che passerà il suo 15esimo compleanno a giocare a pallone tra le mura di un carcere minorile. Buon Natale al commerciante del negozio di telefoni che ha scoperto Simon con le mani nel sacco, che lo ha chiuso in uno stanzino fino all’arrivo della polizia. Buon Natale alla folla inferocita che si è divertita a pestarlo per rendergli meno noiosa l’attesa delle manette; a pestarlo con le stesse mani che oggi usano per scambiarsi la pace in chiese fatiscenti ma vive, in comunità povere ma gioiose. Buon Natale al giudice che tra una settimana dovrà emettere la sentenza sul caso di Simon.

Buon Natale al padre di Simon, ovunque egli sia. Chissà com’è non aver mai potuto conoscere il proprio padre e non averne mai sentito la voce ed i rimproveri. Chissà come dev’essere continuarsi a chiedere, come fa continuamente Simon, quali siano le ragioni che possano aver spinto suo padre a svanire nel nulla. Buon Natale alla madre di Simon, rimasta sola a prendersi cura di 9 bambini, un compito che da qualche parte può risultare difficile, mentre in una baraccopoli a volte si rivela davvero impossibile. Buon Natale a tutti gli 8 fratelli di Simon, 4 sorelle e 4 fratelli, tutti quanti più grandi di lui, nessuno che vive con la madre. Bambini e ragazzi randagi.

Buon Natale ai compagni di camerata di Simon, perché ne abbiano se non pietà almeno rispetto, che non approfittino delle sue debolezze, del suo essere piccolo, del suo essere fragile. Buon Natale alle guardie della prigione, perché se ne prendano cura, perché siano per lui la famiglia che non ha mai potuto avere.

Buon natale perché in fondo è un augurio che si meritano un po’ tutti, davvero, persino Babbo Natale. Rivolgo un enorme augurio di Buon Natale anche lui, convinto come sono che quest’anno, in questa santa notte, abbia trovato il tempo di bussare in case senza porta, di far battere cuori senza speranza, di portare finalmente il Natale dove la calda voce di Bublè non riesce ad arrivare.

Buon Natale a Simon in particolare, e alle decine di centinaia di migliaia di Simon sparsi per il mondo. Buon Natale a Simon anche se oggi sul campo saremo avversari, prigionieri della YCTC contro ex-prigionieri di Cafasso. Sperando prima che il giudice, a cui auguro di nuovo Buon Natale e buon appetito, abbia pietà di lui. E poi sperando di poterci giocare di nuovo, con Simon, ma nella stessa squadra. Perché a Cafasso si può essere famiglia, e una famiglia è quello di cui un ragazzo di 15 anni ha bisogno. Nel caso, ti aspettiamo.

Buon Natale alla mia di famiglia, ai miei amici, ai miei nemici, tutti così lontani ma alcuni davvero molto vicini. Buon Natale perché probabilmente non ve l’ho mai detto. Buon Natale proprio perché a me non è mai piaciuto. Questa volta ho deciso di scriverla a tutti voi la letterina, e non a Babbo Natale. Perché se mi riesce difficile credere a lui, trovo molto più facile credere in voi.

a presto,
Giacomo Centonze

martedì 12 dicembre 2017

Kenya: Un servizio a puntate (#1)

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Infilo la mano sotto al letto, afferro la zanzariera e la sfilo con un rapido movimento del braccio. Ho dormito più di 8 ore senza mai svegliarmi, il materasso è davvero troppo comodo. Mi insapono le mani, le sfrego energicamente, mi lavo la faccia e la situazione inizia a migliorare. Prima di andare mi guardo negli occhi di sfuggita, con fare distratto, ma fotografo in testa il riflesso vivo di me che lo specchio mi regala. Indeciso tra l’ingerire o l’espellere, opto per la seconda per ragioni più d’urgenza che di spazio. Metto la musica, alta, spinta, un po’ per svegliarmi e un po’ per concedermi della privacy. Poi però è il turno delle uova strapazzate, del pane scaldato al forno e del tè con il latte. Latte che potrebbe rivelarsi nella sua subdola veste di arma a doppio taglio, ma che riesco elegantemente e virilmente a controllare uscendo di casa con lo zaino alle spalle. Nell’uscire io e Alice ci affacciamo su una viuzza cieca, utile soltanto a noi e agli abitanti dei due stabili che affiancano la nostra casa, palazzine tendenti ad essere quello che noi intendiamo per condominio. Svoltando a destra imbocchiamo la strada che poi si collegherà all’arteria principale, l’unica asfaltata, che attraversa Kahawa West.

Ma all’arteria principale bisogna arrivarci: incrociamo prima lo spiazzo, ancora vuoto, che conduce alla parrocchia di St. Joseph Mukasa; ai bordi delle strade mucchi di spazzatura vengono dati alle fiamme, l’odore è quasi meno fastidioso del fumo nero che investe chiunque debba passare per la via; a dividersi lo spazio tra una cancellata e l’altra si alternano obbligati più negozi, diciamo baracchini, angusti spazi incavi ricavati tra le mura che costeggiano la via; prima della curva una manciata di persone è china su decine di sacchi della spazzatura, divelti per recuperarne il recuperabile; il via vai di persone è abbastanza frenetico, ma per ora si cammina abbastanza comodi, il passo è svelto perché ormai abbiamo calcolato e preparato il percorso con fantozziana precisione. Coi passanti il rapporto è di odio e amore, gli sguardi si incrociano fugaci, ci sentiamo osservati, qualcuno saluta e noi ricambiamo contenti. Sbuchiamo agili fuori dalla via, quando arrivati a questo punto potremmo continuare sulla via principale, la Kahawa Station Road. Invece l’esperienza ci ha insegnato che è meglio, poco prima, infilarsi a capofitto tra le corsie che sfilano in mezzo ai banconi arroccati del mercato che costeggia la strada: arrabattate ma solide strutture in legno piene di frutta e verdura, di scarpe, magliette e pantaloni, di pile di carbone e di qualsiasi altra cosa possa venirvi in mente. Persino televisori. La mattina, poi, all’ora in cui passiamo noi, questi vicoli sono incredibilmente abbastanza liberi, incrociamo soltanto gli ambulanti che con un fascio di saggina spazzano davanti alla propria bancarella. Tutto attorno a noi il rumore è quello rombante dei matatu che sfrecciano nella strada affianco, quello più caldo e umano delle grida dei buttadentro, quello dei gemiti sofferti delle galline stipate in minuscole graticole di fil di ferro. 

L’odore è quello della terra che ti entra in bocca, negli occhi e nel naso, quello del porridge e del chai che gli ambulanti stanno cucinando in fornelletti a carbone, quello delle pannocchie grigliate sino a diventare nere, così come quello rancido di pattumiera bruciata in ogni dove. Usciti dal mercato occorre costeggiare la strada dribblando matatu parcheggiati e non, schivando e rifiutando inviti più o meno cortesi a salirvici. L’asfalto della Kahawa Station Road è rovinato a dir poco, assente in più punti, e costringe macchine, motociclette e bus a gincane azzardate. Occorre attraversare, cosa che alle volte richiede anche un minuto intero quando il traffico è intenso, nonostante la strada sia soltanto a due corsie. Concetto di corsia che sto cominciando a rielaborare. Ora ci troviamo sul lato destro della strada, camminiamo attorno ad enormi buche piene d’acqua e pantani di fango interminabili. Eppure Kahawa di questo sembra vivere, da questo sembra trarre l’energia magnetica che, sprigionandosi, mi costringe a tenere alto lo sguardo. Entrambi i lati della strada sono un crogiuolo di insegne e scritte colorate o luminose. Un numero impressionante di macchine aspetta in autolavaggi decisamente rustici, mentre gli internet point sono già pieni a quest’ora. 

Arriviamo davanti ad uno degli ingressi secondari di Kamiti, il quartiere carcerario dove svolgiamo il nostro servizio, ma qui per ora mi fermo, perché qui inizia un’altra storia. Mi accorgo che un valore inestimabile non l’hanno soltanto le persone, ma anche i luoghi, persino quelli tanto diversi da sembrare troppo brutti o troppo belli. Penso a Legnano, alla mia via Torino, a quanto ci tengo e a quanto mi potrà mancare durante quest’anno. Poi mi giro e riguardo Kahawa West. Poi un flash mi fa sorridere, rivedo il riflesso dei miei occhi nello specchio: la mattina mi sveglio con gli occhi stanchi, ma con lo sguardo veramente felice.

a presto,

Giacomo Centonze

sabato 9 dicembre 2017

Kenya: imporsi, sbagliando, di non piangere

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Quando sono uscito dalla stanza per andarlo a chiamare, credevo di sapere bene a cosa stessi per andare incontro. Credevo di trovarlo dove l’avevo visto qualche minuto prima, mentre chiamavo altri ragazzi per alcuni colloqui individuali: invece di fianco alle mucche, chino a sminuzzare l’erba da dare in pasto a queste, c’era soltanto N. Stupido io, a non averlo immaginato subito ai fornelli, era quasi ora di pranzo. Gli dico che dobbiamo parlargli, di venire con me in cappella. Si alza, mi segue, mi chiede il permesso di andarsi prima a pulire. Lo aspetto un paio di minuti, mentre parlo con C. Poi finalmente mi raggiunge, entra dopo di me nella stanza e chiude dietro di sé la porta. Ha gli occhi gonfi ma asciutti, mentre fiumi di parole davvero pesanti gli si riversano addosso ininterrotti. La posa è dritta, ferma, fiera, ma al tempo estremamente debole, arrendevole, sottomessa. Le mani avanti a sé, poggiate sul tavolo, con le dita che intrecciano quello che credo per lui sia l’equivalente di un muro, eretto inconsapevolmente a propria difesa. I piedi scalzi, tozzi, si sfregano tra loro all’altezza delle caviglie. Dalle ginocchia in giù ha ancora addosso dei rimasugli di fango, quelli che non gli è riuscito di rimuovere con la sommaria pulizia che si è auto-imposto. Gli zigomi, duri e pronunciati, delineano in modo grezzo ma deciso il volto di un ragazzo dall’età incerta, uno di quelli a cui daresti a volte quindici anni ed altre venti. 

Mentre J gli parla, non sembra capire esattamente dove voglia arrivare. Sa di aver sbagliato, lo ammette più volte, e continua a negare ogni coinvolgimento di altre persone. Li chiama “gentlemen”. Quando viveva in strada, a Nairobi, stava in una di quelle gang di cui tanto sentiamo parlare. Prima di Cafasso, già in prigione, era per tutti un caso perso, che mai sarebbe resistito in un posto come questo. Perché a Cafasso si è liberi, sì, ma ci sono delle regole molto precise. Ed è proprio grazie a quelle regole che a Cafasso si può essere veramente e finalmente liberi. Sono queste alcune delle argomentazioni con cui J cerca di far leva su di lui, questo ragazzo che vive a Cafasso ormai da sei mesi, e che a Gennaio inizierà la scuola secondaria. Ragazzo che, in questi mesi, è riuscito ad affrontare una forte dipendenza da diversi tipi di droga, sotto effetto delle quali si è trovato, un giorno, tra le mura del carcere minorile di Kamiti. 

Questo ragazzo, dicevo, è stato sorpreso, per l’ennesima volta, a fumare sigarette. Cosa che a Cafasso è severamente vietata, lo dice a chiare lettere anche il regolamento che ogni ragazzo firma quando accetta di essere accolto. Questa volta è stato sorpreso da una guardia di Kamiti, che ha prontamente avvisato J. Caso vuole che ieri un altro ragazzo sia stato portato all’ospedale per un forte mal di testa. Ma tutti i ragazzi, tranne noi, ieri già sapevano: sta male perché quel ragazzo gli ha fatto fumare una sigaretta. E lo sappiamo perché abbiamo parlato praticamente con tutti i ragazzi. Prima parliamo con lui da solo, dopo di che esco a chiamare gli altri tre ragazzi coinvolti, quelli che la guardia ha visto fumare insieme a lui. I ragazzi ripetono le loro versioni, contorte, confuse, a volte si contraddicono, ma il quadro è chiaro e lui stesso lo ammette: lui ha rimediato dei soldi, lui ha comprato le sigarette, lui le ha offerte agli altri. Violando così più di una regola di Cafasso, per l’ennesima volta. 

J gli comunica che, uscito dalla stanza, dovrà preparare tutte le sue cose e andarsene. Finalmente realizza, finalmente capisce cosa sta per succedere. Forse realizzo anche io in quel momento a cosa stavo per andare incontro andandolo a chiamare. Anzi no, forse realizzo dopo, quando parlando con lui gli chiedo dove avrebbe passato la notte, se qualche familiare o qualche amico avesse potuto ospitarlo. Mi dice che andrà a lasciare tutti i suoi vestiti da sua sorella, ma che poi andrà in town. A fare cosa? Non ho avuto il coraggio di chiederglielo. «La conosco come le mie tasche» mi dice. Il venerdì pomeriggio c’è il bible sharing, si legge un brano del vangelo ed ognuno propone la propria preghiera al gruppo. Chiedo se gli va comunque di unirsi a noi, prima di partire. Al bible sharing c’è, è seduto di fianco a me, e partecipa anche lui con una preghiera. Ah, questo ragazzo è musulmano. Oppure invece ho realizzato quando, mentre lo salutavo prima che partisse, mi ha chiesto scusa, promettendomi che avrebbe cercato di smettere di fumare. Credo di non aver risposto, troppo impegnato a non piangergli sulla spalla.

a presto,

Giacomo Centonze

domenica 19 novembre 2017

Kenya: Suor Rachel, Kibe e la banconota stropicciata

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Mentre Kibe parla, il gruppo non fa che seguire il suo inglese fluente ma ottimamente scandito. Sono rari i cali di attenzione, nonostante la freschezza dell’aria e del paesaggio sullo sfondo quasi magnetizzino l’ambiente: il mais, germogliato da qualche settimana, si affaccia al mondo in ordinate file parallele equidistanti; un albero dal tronco molto storto ci protegge dal sole, facendosi carico di uccelli rumorosi; in mezzo al cerchio è pieno di legnetti, fili d’erba ormai secca, filamenti di spago, che di tanto in tanto qualcuno prende in mano per giocarci; dal campo da calcio provengono le grida eccitate di bambini che si rincorrono per qualche loro gioco.

Nonostante questa bellezza, dicevo, Kibe riesce a mantenere su di sé un’attenzione quasi ipnotica. Forse il luogo dell’incontro non è stato nemmeno scelto a caso, la sua figura di anziano prorompe quasi poeticamente sotto l’ombra dell’albero. Ma trasaliamo tutti quando dalla tasca, con la mano, estrae una banconota ben stirata da 200 scellini. Non sembra avere senso, ecco. Tutto il bello che sino a questo momento si è creato cozza incredibilmente con l’immagine di lui che esibisce sorridente quella banconota.

Suor Rachel parlava davanti alla comunità della parrocchia, riunita nella chiesa che vedete alle vostre spalle. Come me, quel giorno, prese in mano una banconota come questa. Avevano tutti la stessa faccia che avete adesso voi guardandomi. Rivolgendosi a loro disse: «Qualcuno di voi vorrebbe questa banconota?» e allora tutto il pubblico esplose in un mormorio di approvazione. «Bene», disse, e detto questo mostrò di nuovo la banconota alla platea, e stringendola forte nel pugno iniziò a sfregarsi freneticamente le dita, stropicciandola in modo deciso, riducendola a quella che poteva sembrare una pallina di carta.”

Kibe racconta l’aneddoto in modo così vivo da confonderci, da farci immaginare di essere seduti anche noi lì su quelle panche in quella chiesa, a mormorare insieme a tutti in risposta alle provocazioni di Suor Rachel. La sua risata squillante a tratti ci fa trasalire. Accompagna i gesti alle parole: in mano ora stringe la stessa banconota di prima, ridotta ad essere un piccolo pezzo di carta straccia.

Al che continuò: «Qualcuno di voi vorrebbe questa banconota?». A questa domanda, tutti continuarono in coro a ribadire che sì, tutti avrebbero comunque voluto quella banconota. «Bene», disse ancora, e detto questo mostrò di nuovo la banconota al pubblico, e questa volta la gettò a terra. Con la scarpa, poi, iniziò a calpestarla più e più volte, con i presenti divisi tra risate sommesse e brontolii di disapprovazione. Poi si chinò, raccolse quello che rimaneva della banconota e lo mostrò al pubblico: ormai stropicciata, sporca e con piccoli tagli, pareva essere un pezzo qualsiasi di carta straccia. Poi ripeté con la stessa voce calma di prima: «Qualcuno di voi vorrebbe ancora questa banconota?».”

Iniziamo tutti a guardarci intorno, a cercare di spiare le reazioni degli altri. Sappiamo tutti dove sta andando a parare. Ci stiamo commuovendo tutti. Distolgo lo sguardo dal volto di Kibe, e inizio a fissare le foglie della pianta di mais mentre vibrano sferzate da un vento leggero ma tenace. Ma continuo ad ascoltare, non mi perdo una parola. Kibe sembra accorgersene, il suo sorriso si allarga, e continua il racconto con più forza di prima.

Il brusio si fece sempre più forte, ma alla domanda di Suor Rachel la risposta fu ad ogni modo affermativa: chiunque in quella stanza avrebbe comunque voluto quella banconota. «Se persino un pezzo di carta come questo mantiene il suo valore in condizioni come queste», incalzò lei, «come possiamo non considerare il valore di questi ragazzi? Non importa quale sia stata la storia di una persona, quali siano le crisi che ha affrontato, quante volte sia caduta, quanti problemi abbia alle spalle: ognuno di questi ragazzi ha un valore inestimabile che non possiamo non considerare.»”

Torno a guardare Kibe. L’incontro finirà molti minuti dopo.

Partirò da me stesso, forse perché è più facile o forse perché effettivamente mi sembra il modo più utile per iniziare una riflessione in tal senso. Qual è il mio valore? Sono cresciuto in mezzo a persone che per mia fortuna hanno sempre cercato di spronarmi e, appunto, valorizzarmi. Mai come oggi, mai come stasera, riesco ad essere grato a tutte queste persone. Mi vengono in mente mille esempi, mille aneddoti, mille volti, e soprattutto mille motivi per non citarne neanche uno in questo scritto. Ma sappiate che vi sono davvero riconoscente.

Pensando ai ragazzi, invece, mi viene il magone. Non compassione, pietà, pena: proprio il magone, quello che ti stringe la gola con un nodo stretto. Il primo obiettivo, il primo sforzo, vorrei fosse verso qualcosa che riesca a far sì che i ragazzi si percepiscano come portatori di valore. Che riescano loro, per primi, a realizzare di non essere carta straccia. Siamo somma di esperienze, che aggiungono valore a quello che siamo; che possono ferirci, ma che non possono mai annullarci. Il primo passo verso il reinserimento nella società civile, nella battaglia contro la stigmatizzazione, nella lotta contro l’occhio torvo del pregiudizio, è quello che bisogna fare verso sé stessi.

Credo con forza nelle potenzialità del progetto in cui svolgo il mio servizio. Una grande lezione che mi voglio portare a casa l’ho imparata già oggi, a soli 4 giorni dalla partenza: vorrei saper guardare ogni persona negli occhi e riscoprirla nel suo valore inestimabile.

a presto,

Giacomo Centonze

giovedì 16 novembre 2017

Kenya: riscoprirsi fragili e felici

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Foto scattata dopo il primo incontro conoscitivo coi ragazzi della Cafasso House.

Diciamo che ancora non ho capito se son già arrivato o se ancora sto arrivando. Non credo il mio cervello sia in grado di elaborare efficacemente tutte queste informazioni, avrò bisogno di tempo per organizzare mentalmente tutti questi stimoli. Diciamo anche che mi sento indiscutibilmente felice. Ma penso che la felicità sia un po’ come la rabbia: raramente capisci subito cosa la stia provocando. Quindi prendo tempo anche per questo, godendomi la sensazione ed aspettando periodi più quieti per tirare qualche somma. Il progetto e gli impegni mi tengono completamente impegnato, corpo e mente, dalla sveglia sino a quando arrivo a sdraiarmi stanco sul letto. E stanco davvero: non dormivo così da anni. 

Ma prima di chiudere gli occhi, il pensiero va sempre inevitabilmente a Legnano. Non so se in futuro questa cosa cambierà, non so nemmeno se voglio che cambi, per ora è un dato di fatto e in quanto tale occorre conviverci assieme. Oggi abbiamo visitato per la prima volta la casa dove io e Alice vivremo per un anno. Kahawa West mi piace, è decisamente più tranquilla di Nairobi, e siamo alloggiati a circa 25 minuti a piedi dal posto in cui lavoreremo. Sul muro della sala da pranzo campeggiava una frase, che poi ho scoperto essere di John Steinbeck: “Le persone non fanno viaggi, sono i viaggi che fanno le persone”. Sì, lì per lì mi ha colpito molto, anche tornando a Nairobi ho continuato a pensarci. Ma qui sul letto, mentre rifletto e scrivo, mi accorgo che sono proprio le persone a fare le persone. 

Quello che mi manca, mancherà, o smetterà di mancare di Legnano sono veramente tante persone. E più ci penso e più mi spavento. Il Giacomo che è partito 2 giorni fa non tornerà mai indietro così come è partito, questo lo sappiamo tutti e la ritengo una cosa soltanto positiva. Realizzo soltanto da così lontano il mio essere somma di esperienze. E quando mi accorgo di essere lontano da tutte quelle persone che mi hanno reso, nel bene o nel male, quello che sono, accuso momenti di fragilità. Una fragilità che però stimola, rendendomi proattivo e ricettivo. Una fragilità di cui non ci si può vergognare. Una fragilità che riesce a renderti felice. L’ho detto: non dormivo così da anni. Ma nemmeno mi ci svegliavo.

a presto,

Giacomo Centonze

giovedì 26 ottobre 2017

Verso il Kenya: la polvere rossa

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La polvere rossa mi restava attaccata ai vestiti, ai capelli e al viso, quasi temesse il distacco. Ed io, che solo tre anni dopo realizzo quello che mi stava realmente accadendo, versavo in uno stato di abbandono parziale, connesso agli eventi che mi circondavano soltanto dalla paura che avevo di non godermi appieno il momento. Eppure dentro di me già viaggiavo, già ripartivo, già supplicavo il tempo di rallentare. La strada che ogni mattino percorrevo era insieme corta e lenta, veloce e lunghissima, sicura ed imprevedibile, perigliosa e noiosa.

Il grigio del cielo cozzava col caldo disegno che ormai mi ero imposto di trovare, al passaggio, col chiaro bagliore del sole che avrebbe inondato di luce le case arroccate della via: e invece quasi smunte, infreddolite, le strade parevano così gravemente normali, piatte, rigide; le mura coperte d’intonaco si ergevano e gonfie d’aria esibivano il petto, lasciando spoglie le crepe più lunghe, profondi i buchi più larghi, sporche le macchie più nere.

Tutto assumeva una dimensione nuova, quasi surreale, troppo grande e pesante da poter sopportare, distratto com’ero dal continuo valzer d’occhiate che lanciavo a destra e a manca: è così che ho dovuto socchiudere lentamente gli occhi, lasciar lavorare i sensi, prima d’accorgermi che il bello doveva ancora venire. Il tutto era così grande ed intenso da sopportare, distratto com’ero dal forte vociare che avevo, confuso, iniziato a esibire: è così che ho dovuto placarmi e sommessamente tacere, prima di realizzare che “dire” presuppone “ascoltare”. Ed era così, da cieco e muto che ascolta, tocca e annusa, che impostavo e calibravo la mia presenza in mezzo a tutta quella polvere rossa.

La stessa tra la quale a tratti annaspavo cercando aria, ma che spesso colorava stralci d’esperienza forse troppo duri da essere osservati in scala di grigi. La stessa che sì, è vero, mi soffocava, ma che allo stesso tempo mi costringeva a correre, ad uscire dagli spazi che ero solito ritagliarmi, a sporgere il naso oltre la coltre di paure e pregiudizi che mi annebbiavano la vista e mi rendevano ansimante il respiro.

La polvere rossa ti si attacca addosso e non ti lascia più, allo stesso modo di un’esperienza. La polvere rossa assume varie forme: può essere un volto, un paesaggio, un pianto o un’idea, un sorriso o una paura. A volte ti accorgi di lei quando ce l’hai già addosso, altre volte sei tu ad andartela a cercare.

a presto,

Giacomo Centonze

mercoledì 3 agosto 2016

Finalmente Libano!

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Sono a Beirut, in Libano, come volontario per Caritas Ambrosiana. Ho deciso anche quest’anno di scrivere e condividere con voi il racconto di queste giornate lunghe, calde e memorabili. Esperienza che condivido con altre 9 ragazze, supportati da 3 coordinatrici che stanno svolgendo qui a Beirut l’anno di servizio civile. Un altro giorno vi parlerò meglio delle attività che svolgiamo, scendendo nei dettagli. Ora preferisco immortalare le primissime impressioni, anche e soprattutto per poterle poi confrontare con l’immagine che mi sarò creato tornando in Italia. Non so ancora cosa porterò a casa dopo queste 3 settimane, ma posso dirvi come ho trovato il Libano in questi primi due giorni di conoscenza reciproca.


Mi ricorda molto una vecchia signora dall’abito tanto elegante ma rattoppato in più punti, dalla faccia piena di nei, che però le regalano l’unicità di cui non fa che parlare appena le si dà corda. Respira, senza accorgersene, con fare affannoso: ha sbattuto dopo troppo tempo il tappeto del salotto, riempiendo l’aria di polvere e sporco che faranno molta fatica ad andarsene. Per casa regna sovrano il disordine, da non confondersi però con l’incuria: troppi ospiti, troppo di frequente, han pasteggiato disinteressati alla sua tavola. Ma nel quartiere in cui vive gode di una fama controversa: spesso è l’unica a poter cucinare qualcosa di mangiabile, e tutti accorrono veloci quando il piatto è in tavola; ma l’esperienza l’ha resa sgarbata, così da trasformare spesso il companatico in un incubo.

Ma non preoccupatevi, d’ora in avanti giuro che la smetterò con le allegorie e sarò più pratico.

Il clima è caldo e umido, di quelli che ti fanno sudare anche sotto la doccia. L’appartamento in cui stiamo è molto grande, e affaccia su un grosso terrazzo vista mare sul quale consumiamo i nostri pasti. Il grado di pazzia nelle strade è pari a quello sperimentato a Nairobi l’anno scorso, ma c’è di buono che almeno qui l’asfalto non manca.

Insomma, io e il Libano abbiamo appena iniziato a conoscerci. I miei sentimenti sono ancora contrastanti, non riesco a capire se lo trovo troppo vicino o lontano da me, ma abbiamo ancora tanta strada da fare insieme. Come per tutte le cose fatte bene, occorrerà pazienza.

Giacomo

giovedì 23 giugno 2016

Ad agosto vado in Libano. “Ma chi te lo fa fare?”

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Stupore, paura, ammirazione, scherno, a volte indignazione: le reazioni di amici e parenti alla notizia di una tua prossima partenza per il Libano sono molto variegate ma allo stesso tempo monotone, spente, scondite, inappropriate. 



“È pericoloso!”


Ma va? E io che pensavo di andare ad Ondaland. Che poi, se ci si pensa bene, all’oggi cosa non è pericoloso? Ci sarebbe da chiudersi in casa e vivere di stenti, di tragitti brevi casa-lavoro-casa, divano-bagno-cucina, tv-pc-smartphone: ma forse il pericolo è proprio quello, no? Forse è più pericoloso non lasciarsi trasportare dalle proprie inclinazioni. E se corpo e mente ti dicono di partire, tu giustamente parti: altrimenti sarebbe “pericoloso”.


“Ma lì ci sono la guerra, l’Isis, le bombe, i neri, i dinosauri…”


Ma va? Che poi a rispondere così sembra che io stia sottovalutando la minaccia, autoproclamandomi come l’eroe coraggioso a dispetto di tanti codardi. Beh, così non è. Ognuno trova il proprio coraggio nel quotidiano, nell’inseguire i propri obiettivi. Ma se il vostro non è uguale al mio, non prendetemi per scemo o per spericolato. Voglio farlo, ho l’opportunità di farlo e quindi lo faccio. Ho alle spalle Caritas, un’organizzazione molto solida e ben affermata sul territorio, che si occupa e preoccupa di tutto quanto concerne la nostra sicurezza. Non sto partendo zaino in spalla verso l’ignoto: c’è dietro un progetto di formazione preliminare che ti prepara e ti assiste in tutte le fasi.


“Ti ammiro, usi l’unico mese di ferie per il volontariato”


Sì, è così, potrei sicuramente spendere quel tempo in maniera più convenzionale. Ma sfatiamo un mito: non parto per salvare il mondo, non parto solo e soltanto per gli altri: parto in primo luogo per me stesso. Non parto con pacchi di lasagne precotte da distribuire ai bambini che si vedono nelle pubblicità all’ora di pranzo, come non parto per fermare le guerre, le bombe, l’Isis e i dinosauri. Parto per ascoltare, quindi per ricevere: credo nelle persone e in tutto quello che mi potranno regalare raccontandomi la loro storia, consegnandomela in dono perché io possa, tornato a Legnano, montare lenti nuove sugli occhiali da cui guardo il mondo.

Quindi sì, parto per volontariato, ma vi assicuro che non sarà affatto un sacrificio. Sarà anche relax, divertimento, gruppo, sorrisi, canti, balli. Quello che cerco è la genuinità del rapporto tra persone.
Giacomo

martedì 11 agosto 2015

Kenya: DAY #9-12

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Il mio proposito di mantenere quotidianamente aggiornato questo blog è ormai andato in fumo. In questi giorni la tabella di marcia è stata veramente intensa e mi portava a letto veramente stanco, tanto da non permettermi di dedicare tempo alla stesura di alcun articolo.

Io Martina e Chiara durante le attività nei campi
Io Martina e Chiara durante le attività nei campi
Quindi faccio un rapido riassunto di quanto è stato fatto in questi 4 giorni, che ci hanno portato a salutare i ragazzi della Cafasso Boys e Kahawa West per partire alla volta di Mombasa.
Durante il giorno si sono svolte regolarmente le solite attività mattutine nei campi, sempre a rotazione. Ho avuto modo di conoscere meglio i ragazzi intrattenendo con loro conversazioni un po’ più intime del semplice parlare dei propri hobby.
Alcuni di loro si sono aperti profondamente, dandomi modo di verificare il grado di confidenza raggiunto. C’è chi addirittura si è buttato raccontandomi il motivo per cui è avvenuto l’arresto. Sono convinto che questi dialoghi siano serviti tanto a loro quanto a me.
Loro hanno potuto confrontarsi con qualcuno che non facesse parte del solito staff di persone che si occupa del counseling, in momenti più aperti ed informali. Durante il lavoro, insegnandomi a fare braccialetti, bevendo il chai assieme.
Io ho potuto toccare con mano il loro disagio, il loro malcontento, la loro frustrazione. La grandissima parte di loro si trova lì per aver tentato di rubare soldi, per garantirsi la sopravvivenza. Allo stesso tempo però notavo in loro una speranza, un desiderio di cambiamento, la ricerca di un’opportunità.
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Visita ad un centro orfani di Kahawa West
Questi confronti mi hanno sicuramente solcato l’anima: storie tristi, ma storie di speranza.
L’ultimo giorno con loro è stato molto intenso, attraverso lacrime e grandi sorrisi.

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Per pranzo è stata organizzata una grande grigliata, in cui si sono uniti a noi anche alcuni ex-Cafasso boys che hanno terminato il loro percorso di reinserimento sociale (tra cui anche Denny, di cui abbiamo visitato la casa nei nostri primi giorni qui).
15 kg di carne di capra hanno accompagnato il solito riso, ugali e sukumawiki.
Durante la mattina mentre i ragazzi erano impagnati nelle attività, noi ci siamo chiusi in cucina per aiutare a preparare il tutto. Abbiamo tagliato una quantità tale di cipolle, pomodori e carote da perdere il fiato.
Dopodichè ho aiutato i ragazzi a preparare la brace con cui cuocere la carne alla griglia.
Nonostante qualche difficoltà nel gestire la cosa, soprattutto dal punto di vista igienico (abbiamo dovuto insistere perchè la carne venisse coperta da tovaglie e non lasciata alla mercè delle mosche), il pranzo è stato servito in tavola.
Dopo pranzo è arrivata l’ora del momento dei saluti.
Ci siamo riuniti della stanza da pranzo e i Cafasso boys più anziani (compresi gli ex) ci hanno presentato una poesia. Poi ci siamo riuniti in cerchio, e chi voleva è intervenuto condividendo le proprie considerazioni sulle due settimane passate insieme.
I ragazzi ci hanno ringraziato per il tempo speso assieme a loro, e invitati a ritornare. Dopodichè ha preso la parola Felix, dicendoci che oramai facciamo parte della famiglia e chiunque di noi volesse tornare, sarebbe sicuramente il benvenuto.
I piki-piki. Una sorta di taxi a due ruote con cui siamo andati alla Cafasso House l'ultimo giorno
I piki-piki. Una sorta di taxi a due ruote con cui siamo andati alla Cafasso House l’ultimo giorno


Un ultimo ballo insieme, e poi abbiamo dovuto scappare. In serata ci aspettavano a Korogocho per un’ultima preghiera insieme. Fretta poi rivelatasi infondata, dato che appena prima di partire padre Maurizio chiama la Marta dicendo che andare a Korogocho non è sicuro, dato che la sera prima ci sono stati 3 omicidi.
Il piano è saltato, e abbiamo avuto più tempo per preparare il tutto per la partenza. La mattina dopo, infatti, partiva da Nairobi il nostro pullman per Mombasa.

Grazie Cafasso House, grazie Kahawa West.
E che sia un arrivederci.

Giacomo

giovedì 6 agosto 2015

Kenya: DAY #8 02-08

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Vengo svegliato dalla voce di John che puntale, alle 6, viene a svegliarci. La vita a Kibiko si è già svegliata da un pezzo, e all’appello manchiamo solo noi.
Pioviggina, e tutti assonnati ci rechiamo alla main house per fare colazione. Insieme al solito chai, possiamo finalmente mangiare il pane preparato dai bambini, veramente ottimo.
I bambini di Kibiko sono già tutti svegli, ed ognuno è già impegnato nelle proprie attività. Ci raduniamo e li salutiamo tutti.
Intanto il Matatu è già arrivato e saliamo a bordo, direzione Korogocho. Ma prima facciamo tappa a prendere Angelo, che si unirà a noi in questa giornata. Arriviamo a casa di padre Maurizio, appena fuori da Korogocho. Anche lì ci viene offerto tè e caffè, che accettiamo volentieri. Durante la notte ha piovuto, e la temperatura non è delle migliori.
Tutti insieme ci incamminiamo verso Korogocho, guidati da padre Maurizio. Oltrepassata la baraccopoli, arriviamo al cuore dello slam: l’enorme discarica la che rende tristemente famosa. Durante la giornata non riesco a fare foto perchè tirare fuori il telefono qui dicono essere pericoloso.
Quasi 10 km di discarica a cielo aperto, in cui vengono riversati tutti i rifiuti dell’interà città di Nairobi.
Marta, Angelo e Maurizio ci avevano avvertiti: nessuna parola avrebbe potuto spiegare l’impatto visivo (e olfattivo) che si ha guardando quell’enorme distesa di rifiuti. Pensare che intere generazioni sono nate, cresciute e morte in mezzo al quel tanfo e a quel degrado, lascia tutto il gruppo con un grosso nodo sulla gola.
Arriviamo alla parrocchia gestita dai comboniani, situata proprio a ridosso della discarica.
Incontriamo Kevin, che ci saluta e ci porta alla biblioteca dove lavora. Qui vengono accolti oltre 1000 bambini ogni giorno, e si svolge un accurato lavoro di ricerca e aggiornamento dei libri di testo.
Assistiamo alla messa, anche qui molto animata e soprattutto molto sentita, celebrata da Padre Maurizio sotto un tetto fatto di lamiere.
Anche qui, verso la fine della celebrazione Marta interviene presentandoci alla comunità.
Finita la messa ci troviamo in un’aula insieme ad un gruppo di giovani della comunità, veramente ben organizzato, con cui sviluppiamo una discussione veramente utile ed interessante.
Padre Maurizio detta il topic: “Qual è la maggiore difficoltà che riscontrate dove vivete?”
Interveniamo un po’ tutti, e la cosa diventà in più tratti molto toccante e profonda.
Finito l’incontro, lo stesso gruppo ha organizzato per noi il pranzo: chapati, sukumawiki e piselli. Fino ad ora, i chapati più buoni e gustosi mai provati in Kenya.
Dopo pranzo ci rechiamo tutti insieme alla discarica, per vedere e toccare con mano cosa realmente sia quel mostro urbano che circonda Korogocho. Intorno alla discarica gira tutta l’economia della baraccopoli: infatti tra l’immondizia ci sono persone che passano le giornate a cercare qualcosa da poter riutilizzare o vendere nel mercato locale.
Proprio davanti alla discarica, si trova l’altro centro Nakupenda Kuishi, un grosso spazio dove ogni giorno tranne la domenica vengono accolti centinaia di bambini e viene data loro un’istruzione di base e cure mediche. Da qui, i casi più difficili vengono portati a Kibiko.
E’ lo stesso personale del centro che trova i ragazzi di strada e li invita a frequentare il progetto.
Torniamo a piedi a casa di padre Maurizio, e li ci salutiamo.
Due ragazzi di Korogocho, amici di Marta, si offrono di accompagnarci fino a Kahawa West con il matatu.
Ci dividiamo in due gruppi, e con me ci sono Chiara, Noemi, Francesca, Alice e uno dei due ragazzi. Durante il tragitto il motore del mezzo si surriscalda, e inizia a produrre un denso fumo nero. Scendiamo, e ne aspettiamo un altro. Tutta esperienza.
Invitiamo a cena i due ragazzi e dividiamo il pasto con loro. Dopo cena io con Alice, Marta e i due ragazzi andiamo al pub per bere una birra. Si unisce a noi anche Wolfram.
Questo week-end mi ha distrutto, ma è stata un’autentica lezione di vita che mai dimenticherò.
Korogocho sicuramente ha lasciato in me un segno forte, indelebile. L’odore di quel posto ti entra nel naso, nei vestiti, nella pelle, per non uscirne mai più.

Kenya: DAY #7 01-08

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La sveglia è alle 5 del mattino, perchè alle 6 e mezzo un Matatu ci passa a prendere davanti alla parrocchia dove siamo ospitati per portarci a Kibiko.
Negli zaini prepariamo il materiale da lasciare ai bambini del centro e il necessario per passare la notte lì.
Il contro di riabilitazione Napenda Kuishi Home, a Kibiko
Il contro di riabilitazione Napenda Kuishi Home, a Kibiko
Durante il viaggio mi abbandono al sonno, nonostante la musica a palla presente all’interno del mezzo. Facciamo una tappa intermedia a casa di Angelo, un cooperante di Caritas che vive a Nairobi da 4 anni insieme alla moglie e alla figlia.
Lì incontriamo Maurizio, il padre comboniano che dirige l’intero progetto Napenda Kuishi (in lingua kiswahili “Voglio vivere, mi piace vivere”), che si occupa dei bambini e dei ragazzi di strada che vivono all’interno di Korogocho, una delle oltre 200 baraccopoli esistenti a Nairobi.
Dei 4 milioni di abitanti che conta la capitale, 2,5 milioni vivono negli slums in meno del 5% del territorio della città. Il progetto comprende una scuola informale con sede proprio a Korogocho, e un centro di riabilitazione che accoglie una ventina di ragazzi l’anno.
Padre Maurizio ci spiega la sua storia e di come abbia accettato l’incarico di direttore del progetto da appena 3 mesi. Dei ragazzi presenti alla Napenda Kuishi Home in Kibiko almeno l’80% sono state vittime di abusi sessuali, e la quasi totalità di loro ha fatto uso di alcool e/o sostanze stupefacenti.
20150801_103854Proprio per questo, chiede a tutti di fare attenzione al modo di approcciarsi a questi ragazzi, soprattutto fisicamente. Chiede un’attenzione particolare soprattutto a me, l’unico maschio del gruppo. Questa introduzione sarà veramente utile e ci permetterà di affrontare l’esperienza con i giusti metodi e con più serenità.
Ad ogni modo, dopo le mille domande poste a padre Maurizio ci avviamo verso Kibiko tutti insieme. Anche Angelo ci accompagna.
Il centro dista circa 40 km da Nairobi, e durante il viaggio per la prima volta sto assieme a Marta nei posti davanti del Matatu.
Appena arrivati a Kibiko lo stupore è immediato: la location scelta per questo centro è semplicemente perfetta. Nel bel mezzo delle Ngong Hills, la pace regna sovrana. Intorno agli stabili si stendono campi di sukumawiki, girasoli, patate, zucchine e altro ancora. Visitiamo la cappella dove si svolgono le preghiere e ci accompagnano alle nostre stanze.
Neanche a dirlo, dormo in una camera da solo.
Il campo dove abbiamo piantato le zucchine insieme ai bambini
Il campo dove abbiamo piantato le zucchine insieme ai bambini
Ci portano nella baracca dove tengono le galline, più di 200, le cui uova sfamano i ragazzi e vengono addirittura vendute a privati esterni.
Ci raggruppiamo nella main house e Maurizio ci presenta John, il responsabile dei ragazzi. John ci spiega le attività che si svolgono e ci dà il benvenuto molto calorosamente offrendoci del buonissimo chai. Il sole picchia forte, e siamo praticamente in montagna. Quando il sole ci abbandona, la felpa pesante è obbligatoria.
Come prima attività aiutiamo i ragazzi coi lavori nei campi. In particolare zappiamo, concimiamo e piantiamo in un’appezzamento di terra delle zucchine.
Questo il nostro primo contatto con i ragazzi, e le canzoni imparate alla Cafasso House ci aiutano a rompere il ghiaccio.
Non nascondo che gli avvertimenti di padre Maurizio oltre a darmi molta consapevolezza, in non poche situazioni sono riusciti a farmi sentire comunque a disagio, come penso sia normale che sia.
Mantenere il sorriso comunque vada, è la sfida più grande. Perchè guardandoli quei bambini così piccoli, il solo pensare a quello che hanno passato prima di essere lì non fa venire affatto voglia di sorridere, anzi.
Ma siamo qui per stare con loro, aiutarli, e dargli una speranza. Quindi cantiamo, ci presentiamo, giochiamo. Philipp, uno dei più estroversi, mi sfida ad una gara di velocità. Lui è a piedi nudi, io con le scarpe da ginnastica. Inutile parlarvi di come mi abbia praticamente lasciato sul posto.
Martina aiuta ad impastare il pane
Martina aiuta ad impastare il pane
Prima di pranzo, io Alice e Francesca aiutiamo i bambini a scegliere e dividere da un sacco i fagioli buoni e quelli non buoni. Dopo 10 minuti di smistamento, chiedo a Sheriff quanti fagioli ancora dobbiamo controllare. La sua risposta mi lascia perplesso: “Contare il cibo è una brutta cosa.”
Noi mangiamo nella main house, mentre loro nel salone. Per pranzo ci sono riso e fagioli.
Subito dopo i bambini preparano il pane, e li aiutiamo ad impastarlo.
Dopo pranzo John ci porta a fare una passeggiata insieme ai bambini. Durante il tragitto ci fermiamo a comprare delle banane per tutti quanti. Spiegare come le banane mangiate fino ad ora in Italia sapessero di plastica rispetto a queste è difficile, perchè come si dice “provare per credere”.
Dopo la passeggiata facciamo una partita di calcio tutti assieme nel campetto del centro. QUANTO CORRONO! Durante la partita Chiara riceve una pallonata dritta nell’occhio e rimane in panchina il resto del tempo. Fortunatamente nulla di grave, ma rimane la sua preoccupazione di poter uscire in tutte le foto del cantiere con l’occhio nero.
La partita dura tantissimo e il mio corpo inizia ad accusare indiscutibili segni di stanchezza. Giocare una partita di calcio al giorno contro dei kenyoti è semplicemente deleterio.
Loro ne escono brillanti, io come un sacchetto dell’umido.
La passeggiata coi bambini
La passeggiata coi bambini
Dopo la partita mi voglio, anzi mi devo lavare. Lo dico a John che mi porta un secchio con dell’acqua bollente e un catino con dell’acqua fredda. Li mischio insieme fino ad ottenere acqua tiepida e mi lavo a pezzi con molta soddisfazione.
Finita la toilette, John mi invita ad unirsi a lui e altri 3 ragazzi per una partita a freccette. Durante la prima partita rischio anche di vincere, nelle altre due perdo clamorosamente.
E’ ora di cena, e stavolta mangiamo insieme a loro. Ugali, sukumawiki e carne. Fingo di non aver mai mangiato con le mani, e chiedo ai miei vicini di tavola di insegnarmi per rompere il ghiaccio.
Il mio mangiare usando le mani scatena un’ilarità esagerata, e la cena trascorre serena. Le loro dosi sono come quelle dei ragazzi più grandi della Cafasso House, e la cosa mi lascia sbigottito.
Simon!
Simon!
Dopo cena, ci si ritrova tutti nel salone per la serata. Inizia tutto con John che porta due tamburi, creati con delle i barattoloni di vernice in plastica e della pelle di capra tirata. Si suonano usando le bacchette, e John chiede a tutti chi vuole partecipare ad una gara di percussioni.
Io partecipo, e del gruppo si uniscono anche Alice e Francesca. Ci sono altri 3 bambini che accettano la sfida.
Ognuno fa il suo ritmo, e per ultimo il bambino più timido lascia tutti a bocca aperta! Davvero un artista, gli faccio i complimenti e lui nonostante rimanga quasi impassibile (è davvero timidissimo!) sembra apprezzare moltissimo la cosa.
Dopo la gara, finita con un pareggio, è l’ora delle esibizioni. Per noi i bambini hanno preparato qualcosa di veramente incredibile. La prima performance è uno spettacolo di danza di più di 10 minuti, truccati mascherati e travestiti. Apprezziamo davvero tanto e facciamo tantissimi applausi.
Dopo tocca a noi, e proponiamo loro il bance del “Pollo Giovanni”. Ridono come matti.
Dopodichè è l’ora del loro spettacolo acrobatico. Sono stati fatti dei video della serata e spero di riuscire a farveli vedere, perchè spiegarlo a parole è davvero impossibile. Questi bambini letteralmente si arrampicavano tra di loro fino a creare piramidi umane di 4 piani, e altre evoluzioni spettacolari.
La serata è vicina al termine, ma prima presentiamo loro il materiale portato da casa.
Non so quanti di voi che leggono questo blog abbiano contribuito regalandoci penne, pastelli, pennarelli, carta, forbici, scotch, palloni.. Ma voglio che chi di voi ha contribuito sappia che le facce dei bambini durante la consegna dei regali rimarrà per sempre impressa nella memoria a fuoco caldo. Se la gratitudine avesse un volto, se la felicità avesse un suo sorriso, sono sicuro che quello sarebbe il loro.
La serata è finita, preghiera tutti insieme e poi salutiamo tutti bambini.
Prendiamo un tè caldo nella main house tra di noi, e andiamo a letto. La sveglia è alle 6, perchè domani lo stesso Matatu di stamane ci porterà a Korogocho, dove assisteremo alla messa.

lunedì 3 agosto 2015

Kenya: DAY #6 31-07

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Jane, la cuoca della parrocchia in cui siamo ospitati, questa mattina ci ha preparato una sorpresa. Per colazione oltre al solito tè abbiamo potuto assaggiare per la prima volta i Maandazi, delle specie di frittelle, e i Samosa, degli involtini di carne e cipolla.
Tutto molto buono, ed è così che troviamo la carica giusta per affrontare la dura giornata che ci aspetta.
Il saluto ai bambini della scuola elementare di Kamiti
Il saluto ai bambini della scuola elementare di Kamiti
Come al solito andiamo alla Cafasso House, e ci dividiamo in gruppi per le attività mattutine. Durante il tragito incontriamo di nuovo i bambini della scuola elementare che ci danno dei cinesi.
Io e Noemi siamo ancora al carbone con Little John e Samuel, ed iniziamo a lavorare esattamente come ieri. Questa volta però prestiamo più attenzione all’impasto, che ieri conteneva troppa terra e quindi faceva faticare a rimanere compatto.
Oggi invece riusciamo ad ottenere dei salsicciotti di carbone come si deve, e Felix quando passa ci fa i complimenti e ci dice che stiamo diventando professionisti. Felix viene a trovarci insieme ad un nuovo ragazzo che si unirà alla famiglia della Cafasso House. Anche lui come tutti arriva qui dopo aver scontato i 4 mesi alla Y.C.T.C..
Il nuovo ragazzo si chiama anche lui John, e questo fa nascere una divertente discussione su come chiamare i 3 John presenti nella casa. Scopro da Meshack, il migliore amico di Little John, che in realtà a lui questo
Big John
Big John
soprannome non va molto a genio. Lui e Meshack sono i più piccoli del gruppo, sia in età che in statura, e questa cosa a loro pesa molto.
Chiedo a Little John come vuole essere chiamato, e mi dice che il suo vero nome è Ngioroghe.
Ci riuniamo per il chai break, e Wolf presenta a tutti il nuovo arrivato. John è molto timido, non parla e si presenta a tutti dicendo solo il suo nome e la tribù di provenienza.
Più tardi scopriamo dai ragazzi che è normale, e che tutti i nuovi arrivati non parlano per le prime due settimane. Si può anche comprenderli, arrivando comunque da una prigione e dovendosi inserire in un contesto completamente nuovo come quello della Cafasso House.
Dopo la pausa ripassiamo insieme entrambe le canzoni imparate ieri, Camminerò e Jesus asante sana. Poi è l’ora dell’attività, e oggi per loro abbiamo portato tanti fili per fargli fare gli scoobydou. Ognuno di noi fa vedere il procedimento ad un paio di loro, e a parte qualche eccezione imparano tutti in fretta e l’attività sembra piacergli molto.
Per pranzo si unisce a noi anche Kevin. Nel piatto troviamo riso e fagioli, da condire a piacere con sale e peperoncino.
Subito dopo il pranzo ci prepariamo e usciamo da Kamiti insieme a Kevin, che ci accompegnerà a Nairobi Town. Incontriamo sulla strada un Matatu che si ferma e ci saliamo sopra.
Dopo un’oretta e mezza arriviamo a Nairobi, in pieno centro città.
Dentro al Matatu!
Dentro al Matatu!
La folla di gente che cammina per i marciapiedi è davvero spaventosa, e devi praticamente farti trascinare. Siamo un gruppo abbastanza numeroso, quindi siamo costretti a fermarci più volte per aspettarci tutti.
La prima tappa è in una specie di centro commerciale, dopo visitiamo due negozi di souvenir mentre aspettiamo Marta che con Kevin è andata a cambiare dei soldi.
Dopodichè partiamo di nuovo e passiamo di fronte alla Corte Suprema, dove si svolgono i processi. Tutti i ragazzi che passano dalla Y.C.T.C. sono passati anche da qui, e immaginarli entrare come imputati mi fa davvero strano.
Poco dopo siamo al centro congressi. La maestosità e la ricchezza di questo posto fa davvero strano, anche dopo soli pochi giorni a Kahawa West. Si tratta di un palazzo di 29 piani, con un ascensore centrale che permette di salire in cima alla modica cifra di 400 scellini (4€).
L’ascensore è velocissimo, e ci porta in cima davvero in poco tempo.
Una volta arrivati sul tetto, lo spettacolo è davvero meraviglioso.
Panoramica dal tetto del centro congressi
Panoramica dal tetto del centro congressi
Scendiamo a ci rechiamo a Uhuru Park, il parco principale della città. Ci prendiamo una bibita e riposiamo un attimo. Una comitiva di keniani in gita vuole fare una foto con noi, come se fossimo un’attrazione turistica.
Il centro congressi di Nairobi
Il centro congressi di Nairobi
Ci rechiamo alla cattedrale, e poi alle 18 e 30 siamo già affamatissimi. Prendiamo posto in un chicken and fries in cui ci saziamo con pollo e patatine fritte a volontà.
La sveglia domani è alle 5, quindi accelleriamo i tempi e cerchiamo subito un matatu che ci riporti a Kahawa West. Il viaggio di ritorno è particolarmente movimentato, con scorciatoie improvvisate su strade sterrate e sorpassi che non stanno nè in cielo nè in terra.
Ma in Kenya o ti muovi coi matatu o non ti muovi proprio, e l’esperienza tutto sommato risulta decisamente divertente.
Arrivati a casa dobbiamo preparare gli zaini e il materiale per il week-end che ci aspetta.
Andremo a trovare un centro di riabilitazione per bambini vittime di abusi a Kibiko, a circa 300 metri sul livello del mare rispetto a Nairobi. Praticamente in montagna.
Passeremo la giornata con loro e dormiremo lì, per poi partire la mattina presto alla volta di Korogocho per visitare la baraccopoli più grande di Nairobi insieme a Kevin.
Non potrò portare il computer con me, quindi questo week-end non potrò scrivere il post. Recupererò la domenica sera tornato a casa.
Questa notte dormo da solo, perchè anche il prete se n’è andato.
Sarà un week-end impegnativo e soprattutto toccante.
Mi mancheranno i Cafasso Boys.

Kenya: DAY #5 30-07

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Nella camera dove dormo ora ci sono 4 persone, e del prete arrivato ieri sera non so davvero nulla. Quando mi sveglio trovo Bekele sveglio a sua volta che messaggia al telefono. Mi dice che oggi vuole venire con noi a visitare la Cafasso House, e gli dico che la partenza oggi è fissata per le 8.15.
Oggi come attività vogliamo preparare insieme ai Cafasso boys le tagliatelle col sugo. Quindi dopo una veloce colazione ci prepariamo e partiamo alla volta del mercato, dove compriamo gli ingredienti per preparare la pasta. Prendiamo 5 kg di farina, 10 cipolle e 80 pomodori (non li pesano, li contano). Carichiamo gli zaini ed entriamo a Kamiti, il quartiere carcerario.
Neomi e Little John preparano l'impasto per il carbone.
Neomi e Little John preparano l’impasto per il carbone.
Arrivati alla Cafasso House, siamo in ritardo con le tempistiche. Per preparare al meglio l’impasto, far bollire tutta l’acqua e tagliare le tagliatelle ci serve tanto tempo, e siamo in ritardo sulla tabella di marcia. Le attività del mattino però non si possono saltare, quindi come al solito ci dividiamo in gruppi.
Oggi c’è il cambio turno, e dalle mucche passo al carbone insieme a Noemi. Con noi ci sono Little John e Samuel, che velocemente ci spiegano il da farsi. In una capanna c’è un grosso mucchio di carbone comprato al mercato. Da quel carbone si ricava la cenere attraverso l’uso di un setaccio, e si riempie la carriola. Si aggiunge un po’ di terra e dell’acqua, e dopo bisogna mischiare il tutto in un impasto omogeneo.
Questo impasto, poi, viene modellato mediante l’uso di una macchina in cui si spinge la brodaglia attraverso un canale per creare dei salsicciotti di carbone. Questi vengono poi messi a seccare su una rete, per essere poi usati in cucina allo stesso modo in cui noi usiamo la carbonella.
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Mentre Noemi aiuta Samuel con questa macchina, io e Little John prepariamo l’impasto successivo. Setacciando il carbone, parlo con John del clima kenyota e lo confrontiamo con quello italiano. Per loro è il periodo più freddo dell’anno, e io sono in maglietta e pantaloni corti. Lui indossa un cappello di lana.
Ad ogni modo alla fine dell’attività ci raduniamo tutti per bere il chai, e iniziamo a preparare l’impasto delle tagliatelle. Diamo ad ognuno di loro una piccola parte dell’impasto, per poi unirlo tutto insieme successivamente. Hanno una forza impressionante e grazie a loro riusciamo ad ottenere un ottimo impasto, abbastanza omogeneo.
Patricia, la cuoca della Cafasso House, che prepara la carbonella per fa bollire l'acqua.
Patricia, la cuoca della Cafasso House, che prepara la carbonella per fa bollire l’acqua.
Dopodichè ci dividiamo i compiti e mentre qualcuno stende la pasta, altri la tagliano con il coltello per dare la forma delle tagliatelle, e altri ancora la ammucchiano in nidi per riporla sui vassoi.
Durante le attività della mattina Marta e Martina avevano intanto tagliato i pomodori e le cipolle e preparato il sugo.
L’acqua per la pasta fa fatica a bollire, ma il tempo scarseggia e riusciamo comunque a cuocerle. 4 kg di tagliatelle al sugo sono servite in tavola, e si uniscono a noi anche due guardie della prigione di media sicurezza. Alcuni di loro mischiano la pasta con l’avocado.
Dei 4 kg non avanza niente, e siamo tutti quanti strapieni, tanto da cambiare l’attività del pomeriggio. In origine dovevamo farli giocare a scalpi, e invece decidiamo di insegnare loro una canzone.
Scegliamo Camminerò, scriviamo il testo su dei foglietti e loro si impegnano moltissimo per impararla. Accompagno le prove con la chitarra, e il risultato finale è molto soddisfacente. Anche dopo le prove, loro continuano a canticchiarla mentre fanno altro, e questo ci fa molto piacere.
Ma anche loro vogliono insegnarci una canzone, ed impariamo Jesus asante sana, una canzone a due voci in cui tutti quanti cantano la voce principale ed Ezechiele fa la voce bassa.
Quel ragazzo ha un’estensione vocale incredibile, e anche qui il risultato è più che soddisfacente.
Usciamo all’aperto per imparare alcuni balli tipici, e per una buona mezz’ora balliamo e cantiamo con loro. I ritmi sono davvero molto coinvolgenti e, a parte qualche eccezione, loro sono tutti molto bravi.
Finiti i balli, salutiamo i ragazzi e ci dirigiamo verso una casa per orfani gestita dalla ONG Papa Giovanni XXIII, dove incontriamo Simone, un ragazzo italiano che vive lì da 4 anni.
Ci spiega cosa fanno lì, le attività e ci fa fare un tour della casa. Ci riuniamo tutti nel campo da calcio per altri balli e canti tipici. L’energia e il sorriso di quei bambini sono una cosa davvero incredibile.
Il foglietto preparato per me dai ragazzi, per farmi imparare la canzone.
Il foglietto preparato per me dai ragazzi, per farmi imparare la canzone.
Torniamo a casa e per cena c’è ugali con sukumawiki e carne. Con noi c’è anche Wolf, che questa sera dovrà stare in parrocchia per una riunione. Si unisce a noi anche Kevin che nei prossimi giorni ci porterà a Korogocho, la baraccopoli più grande di Nairobi.
Kevin mi insegna come si mangia l’ugali in Kenya con le mani, e la cena finisce con una discussione davvero profonda che tocca tanti argomenti, durante la quale a molti di noi compreso Kevin si gonfiano gli occhi.
Kevin è nato e cresciuto a Korogocho, e la sua storia è ricca di aneddoti e di un modo di affrontare la vita che ci lascia spaesati e perplessi. Parla inglese molto bene, rispetto a molti altri la cui pronuncia risulta a volte davvero incomprensibile.
Concludiamo il confronto promettendoci di continuare in un altro momento, e ci prepariamo per la nostra prima uscita serale a Kahawa West. Kevin e Morgan ci portano in una specie di pub, dove finalmente proviamo la Tusker, una birra prodotta in Kenya. Si balla, si beve, si mangia, si scherza e si ride.
Abbiamo un tavolo esattamente sotto una grossissima cassa che pompa musica a volume altissimo, e parlare tra di noi è difficilissimo.
20150730_213906Usciamo dal locale perchè alle 22:45 il watchman libera i cani da guardia.
Bekele è andato via e Steven pure, quindi questa notte in camera saremo solo io e il prete, di cui ancora non ho capito il nome. Quando rientro lo trovo ancora sveglio, e iniziamo a parlare delle nostre giornate.
Gli chiedo se è mai stato in Italia, e mi spiega che per i kenyoti ottenere la Visa per poter entrare in Italia è davvero difficile, ma che spera di riuscirci al più presto. Vuole visitare Roma e il Vaticano, e mi fa tantissime domande su Piazza San Pietro e su come funzionano le celebrazioni tenute dal papa.
Gli rispondo per quanto possibile, e dopo una buona mezz’ora di dialogo ci diamo la buonanotte.
Sono davvero stanchissimo, e arrivo alla fine di questo post davvero stremato.
Domani pomeriggio andremo a Nairobi town.
Io e Morgan!