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lunedì 19 novembre 2012

Una striscia rosso sangue…

1 commento:
Gaza non propriamente in prima pagina!
Premessa
Si sa che i media nostrani sono sempre un po’ riservati nel parlar di “cose lontane” per umiltà, poca conoscenza o semplicemente perché i corrispondenti sono un lusso e costano e oggigiorno le notizie fanno fatica a pagarsi… Quindi prima di addentrarci in questa selva oscura di dichiarazioni dei vari potenti di turno circa quanto sta succedendo in Medio Oriente, riportiamo oggi (data astrale 19 novembre 2012) ciò che viene titolata come prima notizia sulle Home Page dei principali quotidiani nazionali.

La Stampa, La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Giornale, Libero, Il Messaggero, il Fatto Quotidiano, Il Sole 24 ore
Sequestro Spinelli: il cassiere di Berlusconi rapito per alcune ore nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, per un dossier che potrebbe ribaltare la sentenza Lodo Mondadori...! Gli indagati avrebbero chiesto come estorsione 35 milioni di € in cambio di carte importanti per Berlusconi contro De Benedetti.
 
 


Chi apre su Gaza e la nuova guerra in Medio Oriente sono “il diavolo e l’acqua santa”: Il Manifesto e Avvenire.



Non è per stilare una classifica ma solo per registrare un dato di fatto. La notizia dei bombardamenti su Gaza e Israele viene citata da tutti come seconda, terza o più giù, e se si va a leggere nelle rispettive pagine degli Esteri la troviamo. Ma in che modo? E cosa si sottolinea?

Tutti cercano di descrivere la complessa situazione e per non rischiare di essere di parte quello che ci vuole è una bella equidistanza che convinca i lettori da che parte sta il male e da quale il bene. Quasi mai l’operazione riesce a ricordare quali siano i diritti e doveri di ciascuno!
In modalità random sottolineiamo e commentiamo le interessanti dichiarazioni di “autorevoli” esponenti della politica internazionale, lasciando a ciascuno la riflessione sull'opportunità delle stesse. Noi speriamo siano frutti di errori di traduzione...

N. d. A. Alcune meriterebbero di essere segnalate su un blog leggermente satirico come Spinoza!
da Il Corriere della Sera

«Hamas apre il fuoco dalle aree civili e colpisce la propria gente». Per Catherine Ashton, Alto Rappresentante per la Politica Estera dell'Ue, serve «una soluzione a lungo termine che assicuri pace e sicurezza alla gente che vive in quella zona». Quanto è lungo il termine? Quale zona?
Mentre Terzi, il Ministro degli Esteri Italiano, annuncia che «ci sono le premesse perchè si arrivi a una tregua nelle prossime ore», ma Israele può «autolimitare la sua forza solo se c'è sicurezza assoluta che i lanci di missili non si ripetano».

Autolimitare? Forse bombardando a giorni alterni così il PM10 delle polveri sottili non aumenta...
ISRAELE - Mentre le offensive continuano, secondo un sondaggio del quotidiano Haaretz, l'84% degli israeliani appoggia l'operazione «Colonna di nuvola», contro un 12% che la rifiuta. A schierarsi per un attacco via terra su Gaza è solamente il 30% del campione di israeliani consultato dal giornale, mentre il 39% intende continuare solo con gli attacchi aerei. Intanto per il figlio di Sharon, Gilad, bisognerebbe radere al suolo tutta Gaza. Perché «gli americani non si sono fermati a Hiroshima: i giapponesi non si stavano arrendendo abbastanza in fretta, così hanno colpito anche Nagasaki».

Certo sarebbe interessante sentire il parere dei Giapponesi, ma la storia non la scrive chi perde la guerra...



da La Stampa
Rasmussen, Segretario Generale della Nato: «Sono molto preoccupato per l’escalation» a Gaza, dove da una parte «gli attacchi contro Israele devono cessare» e dall’altra «la comunità internazionale si aspetta che Israele mostri moderazione».

Forse "modearazione" significa: "Ragazzi, l’accordo è semplice: basta razzi. E noi sganciamo ordigni light".
Ban Ki-moon ha parlato mentre era diretto per Il Cairo dove si unirà ai colloqui in corso per una possibile tregua. Il Segretario delle Nazioni Unite ha lanciato un appello per un cessate il fuoco immediato.

Certo che se ci si mette anche l’Onu a lanciare qualcosa… Provare a stare un po’ fermi ed azionare solo il cervello?


da Il Giornale

Un comunicato del portavoce militare israeliano traccia una sorta di riassunto dell'operazione "Colonna di nuvola": "L'aviazione israeliana ha colpito 1.350 "siti terroristici". Nella notte ne sono stati centrati 80: fra questi rampe sotterranee di lanci di razzi; tunnel utilizzati a fini terroristici; basi di addestramento e cellule impegnate nel lancio di razzi".   

Oltre ad un certo numero di civili che abitano in quei quartieri… Con tutto lo spazio e la terra che ci sono a Gaza dove poter sopravvivere! A proposito, ma l’operazione non si chiamava “pilastro di difesa”?
Gli emissari della Lega Araba saranno domani a Gaza, mentre ieri Laurent Fabius, il Ministro degli Esteri francese, ha incontrato Netanyahu: «La guerra deve essere evitata», ha detto. Quello che la comunità internazionale cerca in queste ore di evitare è un'offensiva di terra israeliana.

Oui, bien sûr, la guerre doit être évitée, les bombardements sont une autre chose...!
Ieri il Presidente americano Obama, pur difendendo il diritto d'Israele a difendersi dal lancio di razzi, ha detto che un'incursione di terra rischia di gonfiare il numero delle vittime. William Hague è andato oltre. Anche il Ministro degli Esteri britannico ha rinnovato il proprio sostegno a Israele per poi però ricordare che un'invasione costerebbe al governo di Netanyahu l'appoggio internazionale.

Certo che il rischio di “gonfiare” il numero delle vittime è troppo anche per un Premio Nobel della Pace!
 
 
da Libero

Il quotidiano Haaretz sottolinea che l’operazione «Pilastro di Difesa» può aprire la strada ai raid contro i siti atomici iraniani anche se sul piano militare si tratta di operazioni molto diverse tra loro. Il rischio è semmai che una lunga battaglia a Gaza (il comando israeliano ha avvertito la popolazione di prepararsi ad almeno sette settimane di guerra) allarghi il conflitto all’Egitto, agli Hezbollah libanesi o allo stesso Iran. Uno scenario che infuocherebbe il Medio Oriente facendo quasi dimenticare la guerra civile siriana ma che potrebbe concretizzarsi solo se Washington si smarcasse dall’alleanza storica con Israele. Forse proprio per questo la Jihad Islamica palestinese non crede che gli israeliani facciano sul serio e valuta la minaccia di un assalto a Gaza e il richiamo dei riservisti. «Azioni di guerra psicologica», come ha detto Ahmad al Mudallal all'agenzia iraniana Fars. «Non vorremo entrare a Gaza ma lo faremo se nelle prossime 24-36 ore saranno lanciati altri razzi contro di noi», ha dichiarato invece alla CNN il Vice Ministro degli Esteri israeliano, Danny Ayalon. Presto vedremo chi sta bluffando.
Ci risiamo. Non si chiama “colonna di nuvola”. Il  Mossad poteva chiamarla "guerra"... Quanto ad umorismo quelli dei servizi si dimostrano original yiddish!

Meno male che si sono organizzati in sole sette settimane di guerra; nel frattempo aspettiamo di vedere chi bluffa!
 
Una cosa è certa: sia i civili palestinesi sia quelli israeliani stanno subendo la tragica guerra in corso in Medio Oriente tra Hamas e le forze armate israeliane; entrambi sono vittime della cecità e mediocrità dei rispettivi governi e politici. Sembra proprio che questi governanti non vogliano sedersi ad un tavolo a parlare di un futuro di pace. La posizione di forza e la conseguente azione israeliana non solo sono sproporzionate, ma non porteranno a nessuna vittoria. Anche i razzi di Hamas contro Israele hanno ucciso e continueranno a farlo!

Vedo difficile parlare sempre e solo di legittima difesa, ritorsioni, diritti e mai parlare di accettare l’altro. Se si fa di tutto per convincere la propria opinione pubblica che il male sta solo dall’altra parte, prima o poi tutti ci crederanno e allora sarà solo arrivato il tempo di scegliere su quale fronte combattere. Forse è quello che potrebbe evitare una “fantomatica” Comunità Internazionale, che, invece di calcolare le opportunità di real politik, dovrebbe solo guardare all’unica opportunità che ci compete: quella di cercare in ogni modo di umanizzare le vite di ciascuno perché la pace e la salvezza riguardano tutti noi oppure sarà solo questione di tempo e il vento farà il suo giro!

Per tutti noi forse vale la pena di questi tempi rileggere il discorso per la festa di Sant'Ambrogio fatto nel 2001 dall’allora Cardinale Carlo Maria Martini  su terrorismo, ritorsione, legittima difesa, guerra e pace.
Alberto

lunedì 10 marzo 2008

Happy new year!

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Pubblico qui sul blog un articolo uscito oggi sul quotidiano Daily Nation, interessante per comprendere alcuni sviluppi, aspettative e preoccupazioni, a seguito dell’accordo di condivisione del potere siglato circa dieci giorni fa da Kibaki e Odinga.

NOI APPARTENIAMO A UN UNICO GRUPPO ETNICO CHE SI CHIAMA KENYA

Dal momento che ai kenyani è stata tolta la possibilità di festeggiare l’arrivo del nuovo anno, hanno scelto di celebrarlo il 29 febbraio, il giorno dopo l’accordo di una coalizione di governo tra Kibaki e Raila, che andrà a cambiare il modo in cui il nostro paese è governato.
Dopo due mesi di tensione, caratterizzati da uccisioni e caos nel paese, era palpabile un diverso umore nel Kenya: colleghi di lavoro e vicini di casa appartenenti a differenti gruppi etnici o differenti partiti politici che si erano ignorati per settimane, hanno ripreso a rivolgersi la parola.
“Happy new year” – un augurio che si poteva sentire ovunque, nei bar, nelle strade, anche sui matatu.
Comunque, a differenza delle esultanze che seguirono la vittoria schiacciante del governo NARC nel 2002, in questo caso le celebrazioni sono state ben diverse. Un atteggiamento comprensibile visto l’alto livello di sofferenza che il paese ha vissuto a partire dal 30 dicembre.
Centinaia di kenyani sono ancora in lutto per la perdita dei loro cari uccisi negli scontri e centinaia di migliaia vivono ancora nei campi profughi, dopo aver perso non solo la propria casa ma anche ogni fonte di sussistenza.
Coloro che non sono stati fisicamente colpiti hanno vissuto un altro tipo di trauma. La maggior parte dei kenyani infatti ha percepito gli effetti dell’animosità etnica e dell’odio manifestatosi in forme più o meno gravi.
La perdita peggiore durante la crisi è stato il concetto di appartenenza a un’unica nazione, a un unico gruppo etnico chiamato Kenya. Questa perdita è incommensurabile e ci tormenterà per gli anni a venire.
Ma potrebbe essere non troppo tardi per capovolgere la situazione. Il vero test per i nostri leader sarà proprio come saranno in grado di creare un’identità nazionale in un paese ora molto diviso.
Sfortunatamente dobbiamo ancora vedere segni di questo. I politici stanno parlando di come dividere le cariche tra i diversi gruppi e di come creare nuove cariche per accontentare le 42 comunità etniche.
Io sono dalla parte della diversità e della rappresentanza proporzionale nei posti di lavoro pubblici. Ciò che critico è il mito, perpetuato dai politici kenyani, in base al quale una posizione nel governo automaticamente porta a vantaggi o prosperità per il gruppo di appartenenza di quel politico. Chiedi a un Luo che passeggia per Nyanza se avere un ministero del governo guidato da un politico del suo gruppo lo ha aiutato ad avere più cibo, e la risposta, ci posso scommettere, sarà: No! Allo stesso modo, avere un presidente kikuyu è servito a poco per migliorare le condizioni di vita delle centinaia di kikuyu che abitano a Mathare o Kibera.
È però vero che gli enormi poteri nelle mani del precedente presidente hanno dato a loro (i kikuyu) illimitato accesso alle risorse pubbliche, usate spesso per avvantaggiare la propria comunità, o più spesso determinate cricche, invece che intere regioni. Così facendo hanno creato l’illusione, o meglio, il grande imbroglio, di far credere a milioni di kenyani che avere un membro del proprio gruppo etnico al potere avrebbe miracolosamente trasformato le loro vite. Per mantenere questa illusione, era necessario che i politici continuassero a mantenere divisi i kenyani.
[…] La de-etnicizzazione della politica deve essere il primo compito della nuova coalizione.
Un altro è cambiare il modo con cui la gente vede il fattore etnico in Kenya. A causa del trascorso coloniale, la maggior parte dei kenyani ha una relazione di amore-odio con la propria identità etnica.
Da una parte coloro che aspirano alla modernità o che mirano a salire nella scala sociale si dissociano dalla loro identità etnica, scoraggiando i bambini dall’imparare la propria lingua materna e spendendo anni cercando di rimuovere tracce del loro accento etnico mentre parlano in inglese.
Dall’altra parte questi sono gli stessi che fanno della propria appartenenza etnica uno dei fattori principali nel cercare un impiego o che chiudono gli occhi quando un membro del proprio gruppo etnico viene preso con le mani nel sacco.
Di per sé l’identità etnica è una buona cosa, è un patrimonio culturale e dovrebbe essere causa di orgoglio per ognuno. Ma quando è usata per sopprimere o escludere persone, diventa oppressione. Se noi, come nazione, possiamo riconciliare le nostre diverse identità etniche con la nostra aspirazione ad essere una nazione, allora avremo davvero una ragione per festeggiare un nuovo anno.

(di Rasna Warah)
 
 

Saluti a tutti,
Ema

mercoledì 30 gennaio 2008

"Save our beloved country"

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Carissimi!

Rieccomi finalmente di ritorno in Kenya. Per qualche settimana sarò solo vista la defezione del collega Teto, in preda a varicella acuta…speriamo in una pronta guarigione!

Un mio ritorno reso possibile dalla situazione pacifica del quartiere in cui vivo (Kahawa West, periferia settentrionale di Nairobi), che, nei tre giorni trascorsi, ho potuto davvero notare piuttosto invariato rispetto a dicembre, quando ne venni via. Sono stato anche a Nairobi-centrocittà, luogo di tanti scontri e manifestazioni mai approvate dal governo, ma in cui la vita e il caos quotidiano, fatto di miriadi di matatu e auto, sembrano essere ripresi. In questo momento particolare, infatti, il partito di Raila Odinga (opposizione che rivendica però la vittoria alle elezioni dello scorso 27 dicembre), per le forti pressioni di Kofi Annan (attuale mediatore, nel quale vengono riposte molte speranze del popolo keniano) sembra aver scelto di non organizzare manifestazioni in centrocittà. Nelle baraccopoli la situazione è sempre davvero incandescente. Città nella città come Kibera (un milione di baraccati circa in una decina di km2), Mathare e Korogocho, per citare le maggiori delle quasi duecento baraccopoli di Nairobi, vivono quotidianamente scontri, vendette, rappresaglie di polizia e esercito. La situazione più drammatica è fuori Nairobi. Una delle prime città in cui la violenza post-elettorale è esplosa è stata Kisumu, sulle sponde del Lago Vittoria, luogo nel quale è fortemente radicata l’etnia luo (Raila Odinga) e dove da subito è iniziata la caccia al kikuyu (etnia dell’attuale presidente, Kibaki, fortemente “contestato” per brogli elettorali, piuttosto evidenti). Ora tante altre città, nella vastissima zona della Rift Valley (Nakuru, Naivasha, Eldoret, Molo, etc…) vivono la stessa situazione. Scontri etnici molto sapientemente orchestrati e organizzati dagli stessi leaders politici. Una regia sempre meno occulta, dal momento che gli stessi quotidiani ormai sanno rivelare con esattezza quanto i giovani vengano pagati per uccidere, incendiare, distruggere e tendere agguati lungo le strade.

I morti sono ormai tantissimi, ma ancora di più gli sfollati (non meno di mezzo milione). È interessante come, a fronte dell’arrivo, in centri già predisposti, di alcuni gruppi di sfollati proprio a Kahawa West, la gente del quartiere e della parrocchia si sia prodigata per fornire degli aiuti (beni di prima necessità, come vestiti e cibo).

Pur non essendo qui toccati da scontri e violenze è chiaro e ovvio come i discorsi vadano quasi sempre a finire su tali tematiche di attualità. All’interno della Cafasso House (casa che accoglie giovani usciti dal carcere minorile, e nella quale opero quotidianamente) siamo in attesa di un ragazzo (Timothy) che, tornato presso il luogo di provenienza (quasi al confine ugandese) durante il periodo natalizio, è impossibilitato a tornare qui a Nairobi vista l’estrema pericolosità delle strade. Un altro ragazzo, uscito tempo fa dalla Cafasso House, ma di ritorno oggi per una sorta di rimpatriata, ha i propri famigliari a Kisumu e, pur volendo fortemente tornare, ne è, anche lui, impossibilitato.

L’informazione keniana, nota per essere piuttosto libera e di qualità, segue molto da vicino tutti gli avvenimenti, per cui se da un lato non è bello vedere immagini come le lunghe code di sfollati che percorrono le strade con in testa operatori che puntano loro addosso le telecamere, dall’altro in particolare la carta stampata si dimostra molto critica verso entrambi i contendenti; notevole, durante i primi giorni di gennaio, come le tre testate principali del Kenya abbiano deciso di intitolare le prime pagine allo stesso modo: “Save our beloved country”, pubblicando poi uno stesso editoriale di forte condanna e critica verso il comportamento di Kibaki e Raila e contro le tante violenze in atto.

Chiudo qui. Come si può notare la situazione è molto difficile.

Concludo cercando comunque di tranquillizzare rispetto al luogo nel quale vivo, tranquillo sia durante il già tormentato periodo elettorale, ma pacifico anche ora.

A presto a tutti!

Kwa heri!

Ema