Visualizzazione post con etichetta bambini. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta bambini. Mostra tutti i post

venerdì 6 settembre 2019

Cuánto vale esto?

Nessun commento:

Ci sarebbero molte, troppe cose da dire se si volesse descrivere un paese come il Nicaragua.

Ripensando a quello che ho visto e vissuto sulla mia pelle in questo mese sono giunto alla conclusione che ci siano 3 frasi che possono dare un’idea, sebbene parziale, di quello che è uno dei paesi più romantici e tormentati del centro america, una delle ultime fortezze della rivoluzione, in questo caso quella sandinista.

“Cuánto vale esto?”

Me lo sono sentito chiedere spesso. Molte volte i bambini con cui lavoravamo si distraevano guardando i miei tatuaggi con due domande ben fissate in testa: la prima era se fosse un segno del diavolo, sì perché in Nicaragua è molto forte la credenza in Geova e nella mitologia che lo circonda di cui non sono conoscitore e che non intendo certo spiegare adesso; l’altra domanda ancora più frequente è sempre stata “quanto ti sono costati?”. 
In un paese in cui un medico guadagna 200 dollari al mese si può ben immaginare quali siano le difficoltà per la popolazione di classe media e bassa ad arrivare a fine mese, nel barrio di Nueva Vida e nello specifico nel centro redes de solidaridad, dove abbiamo lavorato, la retta della scuola è di 3 dollari al mese e molti genitori fanno fatica a pagarla.

Tra le case in lamiera e i rigagnoli di agua negra però si incontrano quasi sempre sguardi felici e pieni di curiosità per la vita, sguardi di bambini di età che varia tra i 3 e i 12 anni ma che sembrano averne viste tante, troppe da poter dimenticare, sguardi di chi spesso ha perso l’innocenza ma non la gioia di vivere e la speranza, gli sguardi dei bambini di redes.



“Gracias por visitar Nicaragua”

La prima volta me lo sono sentito dire in un bar a Leòn mentre mi apprestavo con le mie compagne di viaggio a bere una  birra, al tavolo a fianco una famiglia piuttosto numerosa si è girata e ci ha detto a più riprese di essere molto felice che stessimo visitando il loro paese (non sapevano fossimo volontari).
La cosa che più mi ha colpito ripensandoci nei giorni seguenti è stata come in effetti dopo le proteste terminate in carneficina dell’anno scorso praticamente non ci sia stato turismo in Nicaragua. Avrò visto 20 gringos come me in un mese in 6 località diverse, e questo per un paese la cui  economia va a rotoli, che non ha piani di riqualificazione dignitosi per i quartieri della capitale se non il montaggio di centinaia di orrendi alberi finti in metallo che si illuminano la notte voluti dalla moglie del dittatore che è attualmente al governo, mentre la gente muore di fame, non è affatto un bene.
Proprio per questo la gente per bene ti ringrazia quando ti incontra, perché vuole che si sappia che in Nicaragua ci sarà sempre posto per chi viene rispettando la natura e le persone, con l’obbiettivo di scoprire un paese tra i più belli che io abbia mai visto.

“Que se rinda tu madre”

Dagli anni '60 per 30 anni è stato il grido del Fronte Sandinista che chiedeva libertà contro il regime di Somoza, uno dei mille piccoli dittatori insignificanti che sono comunque riusciti a infliggere enorme dolore e che purtroppo hanno popolato questo pianeta.
Dopo la fine della guerra fredda e altre vicissitudini che non sta a me raccontare si arrivò al punto in cui Daniel Ortega salì al potere e come ci insegna la storia fu corrotto a tal punto che ormai, nel 2019, la grande rivoluzione del proletariato iniziata negli anni '60, si è trasformata in una dittatura spietata, un cancro in seno al centroamerica, una piaga purulenta che ha portato alla morte di 400 persone circa l’estate scorsa, solo perché protestavano PACIFICAMENTE, la UCA (Universidad Centro Americana) ha perso tutti i fondi statali e le borse di studio essendo stata inquadrato come focolaio principale di questi moti.
La policìa militar ha sparato indistintamente su uomini, donne e bambini. Sì bambini che non potevano essere curati in ospedale, pena il licenziamento (a voi capire in che senso) del medico.
Oggi “que se rinda tu madre” è diventato il grido di chi non tollera più questo governo fantocci
o che altro non è che una cricca della famiglia Ortega, oggi “que se rinda tu madre” letteralmente “che si arrenda tua madre” lo leggi scritto sopra i muri nelle periferie, nei barrios, sui muri delle università, ed è diventato un grido di rabbia e di disperazione, un grido di guerra, quella che nei prossimi anni potrebbe dover affrontare Daniel Ortega per le strade di tutto il paese.
Perché se in molti si sono piegati per soldi paura, e potere, in molti altri non si sono ancora arresi.

Alessandro Prato Previde

giovedì 28 marzo 2019

Keluarga Besar, la mia nuova grande famiglia

Nessun commento:
Oramai sono passati due mesi dal mio arrivo a Gunung Sitoli. Finalmente mi ritrovo su questa pagina bianca a condividere i miei pensieri, il mio ruolo, le mie impressioni e a ricordare il primo giorno in cui sono arrivata qui, alla Wisma Alma, la casa delle sorelle Alma.
Il primo giorno Rena mi ha presa per mano e mi ha portata a conoscere i bambini. Tutti parlavano, chiedevano, cercavano un contatto fisico, di tenermi una mano, mi prendevano in giro. Successivamente, dopo essermi seduta accanto a Nenek (nonna), che parla solo la lingua locale, Li Niha, (ancora adesso non mi spiego come abbiamo fatto a parlare per cosi tanto tempo), sono arrivati i bambini. Samson ha appoggiato la sua testa sulle mie gambe, Lestari mi ha chiesto sette volte se avevo mangiato il tofu che mi avevano preparato, Rena mi guardava e sorrideva dolcemente. Lestari mi spiegava, perdipiù che problema ha, Rena invece si definiva semplicemente stupida, bodoh. Alcuni erano cosi svelti nello spiegarsi, veloci e si autodefinivano intelligenti. Mattias, ricordo, mi aveva chiesto se avevo l'abitudine di pregare e sopratutto se prego per i cari che non ci sono più. I bambini, sin da subito, hanno voluto dirmi qualcosa di loro, ma non di personale, volevano farsi conoscere. Lanciavano piccoli messaggi per farlo, volevano anche conoscermi, ma sopratutto volevano farsi conoscere.
Nessuno Selamat Datang ufficiale ed entrare in punta di piedi mi ha permesso di scivolare con delicatezza in questa piccola comunità cosi libera, fluida e caotica, una comunità che mi piace pensare come alla mia nuova grande famiglia.
Ognuno, qui, ha il suo ruolo. A ogni bambino ne viene affidato un altro, in modo tale che tutti crescano proteggendosi e prendendosi cura l'uno dell'altro. Il ritmo giornaliero e' quello di una qualsiasi famiglia. Ci si sveglia, si fa colazione, si va a scuola, si rientra, si pranza, si fa il sonnellino pomeridiano, si gioca o si fanno i compiti. Ognuno ha il suo ruolo, i suoi tempi, i suoi spazi, ma si condivide tutto. Per fortuna riesco a parlare, riesco a comunicare con facilita', per cui sin da subito ho sentito l’esigenza di avere anche io un ruolo, ma non come volontaria, non come lavoratrice o educatrice, ma come sorella. E’ questo quello che penso ora di questa comunità nella quale svolgo parte del mio servizio civile e vivo, penso sia la mia famiglia a Gunung Sitoli. In fondo qui siamo tutti diversi l’uno dall'altro, ognuno con le proprie diversità in un certo senso, ma insieme ci conosciamo e ci sentiamo una famiglia normale e ognuno di noi fa quello che può quotidianamente per farci stare bene tutti. Io con loro studio inglese, impariamo a usare il computer, cuciniamo, parliamo, giochiamo, alle volte in modo improvvisato, alle volte in modo più strutturato. Il sabato due volte al mese andiamo al mare e questo sabato, dato che ci sono le giostre sul lungo mare, andremo a divertirci. Il tempo scorre, giornate scandite dai doveri quotidiani e dai piaceri che riusciamo a ritagliarci tra una lezione d'inglese, I compiti, il doposcuola e le attività in giardino.
In tutto, qui, abitano 37 bambini, di un eta’ compresa tra i 4 e i 19 anni. C’e’ chi va all'asilo, chi alle medie e chi alle scuole superiori. C’e’ chi già’ lavora, perché non ha potuto frequentare la scuola, chi frequenta un corso professionale per diventare estetista; c’e’, poi, chi proprio vive su un piano diverso del nostro stesso mondo e con cui e’ sempre bello interagire, giocare e conoscersi in qualche modo. Inoltre vi sono 3 educatrici, Risna, Lyn e Linda e tre suore, Sintha, Vero e Lys. Qualche aiutante esterno e poi ci sono io, che mi sento parte di tutto questo, accolta e protetta. E’ cosi che lavoro qui, come una sorella, e cosi che ci si sente, in questa Keluarga Besar.

A presto!

Andrea




 



mercoledì 7 febbraio 2018

"Quando ritornerai a dirmi addio ...

Nessun commento:

ti regalerò un segreto” disse la volpe al piccolo principe.


Dobbiamo imparare a dire addio. A noi non piace dire addio. Spesso lo storpiamo in “arrivederci”. Eppure, a volte, chi può dire se davvero ci rivedremo?!

Rivedersi

Era questo il dubbio che avevo. “Chissà se rivedremo tutti i bambini e le ragazze che abbiamo conosciuto!?” pensavo nelle due settimane trascorse in Italia. Poi, siamo tornate, di nuovo a Mombasa – tutto un altro mondo! Ed è stato tutto un rivedersi. In quanti – colleghi, amici, proprietari di casa, persino le guardie – son stati contenti di rivederci. E noi con loro: è sempre bello rivedersi! Tanto quanto è bello, ora, sapere che abbiamo un po’ di tempo in più per restare. 

Restare 

Non si può restare nel centro d’accoglienza. Lo dice la parola. Così, giorno dopo giorno, è tutto un gran via-vai. Qualcuno torna a casa, in famiglia; qualcuno si trasferisce in altri centri; qualcun altro arriva, qualcuno ancora arriverà. Bisogna star pronti: non sai mai chi ritroverai, chi non incontrerai e chi conoscerai. Bisogna aver l’animo pronto, perché prima o poi ciascuno deve andare …  

Andare

Dovevamo andare! Sapevamo che ci stavano aspettando già dal giorno prima. E anche noi volevamo rivederli al più presto. Non sapevamo cosa aspettarci. I dubbi non mancavano e, tra i pensieri, uno dopo l’altro affioravano: “pensa se domani andando al centro scopriamo che S. è tornato a casa” ho detto a Chiara.


Il rescue center "Mahali Pa Usalama"

“Domani S. torna a casa. È un po’ triste. Ti va di parlarci un po'?”


<colpo>

Io con S. ci parlo, volentieri. Prima però fammi masticare, ingoiare e digerire questo misto di emozioni. 

<faccio spazio ai pensieri>

Caspita! La vita a volte è proprio sorprendente … La provvidenza è fenomenale! Che strano, da un lato sono contenta di esser qui oggi, dall'altro, per quanto avessi supposto la possibilità che si verificasse tutto ciò ... non è di certo facile ...

<ritorno nel mondo>


Attività creativa all'ombra del grande albero


“S. che succede?” dico mentre mi siedo accanto a lui. Parole e lacrime. Non riesco a capire. “Cosa dici? Non riesco a sentire bene” aggiungo mentre pian piano ci facciamo un po’ più vicini. “Se vado a casa non vedrò più i miei amici … non potrò più giocare con loro, non vi rivedrò più.” Ha ragione. È vero. Cosa posso digli io? Come posso trasformare questa tristezza perché possa tornare a casa felicemente e con il suo solito sorriso?

Sorriso

Basterebbe questa parola per descrivere S. probabilmente. Un nanerottollo paffutello, (quasi) sempre sorridente, con un volto simpatico e un culotto pronunciato che ama muovere a ritmo di musica per danzare e divertirsi. Credo si sia legato a me durante una giornata in piscina (gentilmente offerta da un misterioso donatore che, durante le vacanze di dicembre, ha scelto di rendere speciale una giornata di questi bambini). Quel giorno S. era molto felice. Tanto quanto, poi, era spaventato. Non voleva proprio saperne di entrare in acqua. Poi, la svolta. Non si sa bene come e perché, ma ad un certo punto S. mi ha detto “carry me”. Così, avvinghiato come un polpo, fin quasi a strozzarmi, si è lasciato trasportare in acqua e, pian piano, passo dopo passo, a fine giornata S. sapeva camminare in piscina, da solo, insieme a tutti i suoi amici

Un polpo in piscina!

Amici

È sorprendente sentire S. chiamare amici gli altri bambini del centro. Loro che si affezionano velocemente, tanto quanto velocemente devono salutarsi. Che bello, è sorprendente questa pura e semplice affezione. Però, ora, li deve salutare. Come posso abbracciare la sua tristezza? Cosa dire ad un bambino? Tento di mettere insieme qualche parola, prendendo spunto dalla mia esperienza, provando a dirgli che anch’io ora sono qui e i miei amici sono lontani … Poi, mi sovviene un dolce ricordo: “gli amici son come le stelle.”

Stelle

“S. hai ragione, sai, andando a casa, dovrai salutare gli amici che hai incontrato qui. Ma non esser triste, perché son certa che a casa incontrerai dei nuovi amici e anche con loro ti divertirai” annuisce. “Vedi, nella vita si incontrano sempre persone nuove. A volte, poi, bisogna salutarle. Guarda che bello, oggi ci possiamo salutare. Se fossimo venute domani, non oggi, non ci saremmo salutati” proseguo. “Non devi aver paura, incontrerai nuovi amici e poi, sai cosa puoi fare quando sarai a casa?” scuote la testa. “Ogni tanto, la sera, alza gli occhi verso il cielo. Nel cielo ci sono le stelle. Alcune sono più vicine e luminose, altre son lontane, altre qualche volta stanno dietro le nuvole e non si vedono, poi magari riappaiono. Gli amici sono proprio come le stelle!” sorride. Il suo sguardo è cambiato. “Guarda in alto S., cercando le stelle nel cielo dei tuoi amici ti potrai ricordare!” 

Ricordare

Vorrei ricordare ogni istante, ogni emozione, ogni volto incontrato e ogni storia ascoltata. Vorrei ricordarmi di S. con il suo sorriso e gli occhi luminosi come le stelle; di M. che non ho salutato e chissà ora dove è andato; di A. che mi ha stretto in un abbraccio sorridente prima di tornare a casa; di S. che è tornata a casa ed è già scappata; di B. che nient’altro chiedeva se non di esser amata. Vorrei saper ricordare quel segreto che ciascuno mi ha regalato nel momento in cui mi ha salutato. Per imparare a vedere gioia e meraviglia intorno a me, come sempre fanno gli occhi dei bambini … 


Ora, anch'io, la sera, ogni tanto, guardo le stelle. E vi sento più vicini. 
Ciao amici! Un caldo abbraccio da Mombasa, Greta

martedì 1 aprile 2014

Georgia: born in the USA (?)

Nessun commento:
Succede anche questo: sommerso nel traffico di Tbilisi, mentre il cuore batte a mille a causa della guida allegra di Kaka, non credi ai tuoi occhi quando ti imbatti in quello che vorresti fosse un vecchio manifesto pubblicitario e invece è il toponimo di una via non proprio secondaria della capitale.


Ma, bizzarrie a parte (è tutto vero!), oggi ci siamo concentrati su chi è nato nella Georgia Euro(?)Asiatica(?) e per biografie diverse non ha una famiglia su cui poter pienamente contare.

Ma oggi non vogliamo raccontare storie strappalacrime di minori in istituto che vivono in condizioni subumane.
Vogliamo dirvi che, grazie alle politiche di de-istituzionalizzazione introdotte a partire dal 2006, ora nel Paese (il primo in assoluto, parlando di stati ex sovietici) sono rimasti solo 3 istituti (prima 49) che ospitano ancora 120 minori (prima 5.000) privi di cure genitoriali.

Il vecchio Istituto di Rustavi oggi ospita una comunità di pronto intervento per adolescenti di strada. 
E quei 5.000? Dove sono finiti?
La priorità è stata data al reinserimento nella rete famigliare allargata, in seconda istanza l'affido e/o l'adozione nazionale. In tutti gli altri casi, l'invio presso Case Famiglia.
Le strutture, finanziate al 75% dallo Stato, sono gestite dal privato sociale: Caritas Georgia è in prima linea nel settore del sostegno dell'infanzia e dell'adolescenza e anche Caritas Ambrosiana ha voluto offrire il proprio contributo per sostenere e incoraggiare il preziosissimo lavoro avviato.




domenica 9 marzo 2014

1.000.000

Nessun commento:
Quotidianamente veniamo bombardati da numeri, cifre, sterili quantità che per un attimo ci impressionano ma subito svaniscono. Quanti esempi potrebbero venirci in mente: titoli di giornali, notiziari…
In Libano sono presenti circa un milione di rifugiati siriani. Più o meno un quarto della popolazione libanese: proporzione già impressionante di per sé ma lo diventa ancor più quando si inizia a dare un volto a questo numero. 
Nonostante l’opulenza di Beirut nasconda un po’ la presenza dei rifugiati siriani, percorrendo le strade subito fuori dal centro si notano subito pulmini pieni di bagagli e persone o uomini che camminano a piedi sui bordi delle carreggiate. Spostandosi verso il confine siriano, nella valle della Bekaa il paesaggio cambia totalmente e non solo dal punto di vista ambientale.
Guardando i campi secchi dalla siccità di quest’anno si vedono ovunque accampamenti di persone. Katia, l’operatrice che ci accompagna, ci spiega che in questa zona sono sorti campi profughi ovunque, proprio a causa della massiccia presenza siriana. Quando entriamo nel campo profughi ci accolgono subito gli anziani che, dopo un attimo di sospetto, ci fanno entrare con un caloroso sorriso. 


La struttura del campo è molto semplice: una strada principale su cui danno gli ingressi delle tende formate da pali e tende cerate, fissate con pneumatici. Tra una tenda e l'altra, pochi panni spesi ci ricordano che questa realtà precaria e apparentemente provvisoria si sta drammaticamente trasformando in qualcosa di quotidiano.
    
A rallegrare l’atmosfera ci pensano decine di bambini che, incuriositi dalla nostra presenza, trasformano la loro iniziale timidezza in un gioco a chi si fa fotografare di più. Con disinvoltura si aggiungono i più anziani che si mettono in posa con i più piccini. Ci mostrano con fierezza la loro scuola-tenda, mentre i più grandi con orgoglio snocciolano qualche parola di inglese per entrare in sintonia.


1.000.000...
Un milione di persone significa un milione di questi volti, un milione di questi vissuti in centinaia di campi profughi in condizioni al limite della dignità umana.  Ma sono proprio questi volti e questi sorrisi a ricordarci che proprio qui, tra queste tende, di dignità e di umanità ce n’è da vendere, che la speranza di vedere terminare la guerra e poter tornare alle proprie case è una convinzione forte e un motivo in più per sopportare questa situazione precaria. Proprio qui realizzi come la vita vada avanti e germogli anche su rami che sembravano morti o secchi. In queste situazioni ciò che davvero ti rimane nei ricordi e nel cuore sono i sorrisi, le risate e soprattutto occhi che ti dicono quanta voglia abbiano di andare avanti nonostante i traumi.
Un passato che è causa del presente ma non spegne il futuro…anzi.





+





lunedì 26 agosto 2013

Libano - Cosa vuol dire essere un rifugiato?

Nessun commento:
Vuol dire scappare dalla Siria per salvare la tua vita e quella delle persone più care.

Vuol dire andare al centro Caritas, ritirare lo scatolone con gli aiuti umanitari e portartelo da solo a "casa", anche se pesa tantissimo. Almeno questo lo vuoi fare da solo, vuoi dimostrare che sei ancora capace di darti da fare per la tua famiglia, anche se intorno a te sai che le persone ti vorrebbero aiutare. E queste persone non fanno niente, perché immaginano cosa stai provando e non vogliono ferirti ulteriormente. È come se ci fosse un codice di comportamento. Però a ringraziare ci provi, perché anche tu, tempo fa, hai fatto il volontario come loro.

Vuol dire affittare una casa in un campo profughi palestinese, che esiste da circa 60 anni e pagare una stanza 500 Dollari al mese. Forse gli altri si dimenticano di aver vissuto la stessa condizione che hai vissuto tu, ma, nella disperazione di non avere diritti da 60 anni e di non potersi pagare le cure più costose come la dialisi, senza la quale non potrebbero sopravvivere, lucrano sulla tua di disperazione.

Vuol dire che alcuni aiuti inviati dalle ONG internazionali arrivano scaduti e non possono essere utilizzati, perché è passato troppo tempo da quando sono stati raccolti a quando sono arrivati. Le motivazioni non si conoscono, ma, anche se sei profugo e disperato, i cibi scaduti non li puoi mangiare e nemmeno darli ai tuoi bambini.

Vuol dire che una volontaria viene dai tuo figlio, gli chiede come si chiama in un arabo stentato e cerca di farlo sorridere disegnando. Tu le sorridi e capisci che lei fa quello che può, ma sai che tuo figlio ci metterà un po’ a sorridere di nuovo, perché si trova in un posto che non è casa sua, e non lo sarà per molto tempo.

Vuol dire che il giorno prima sei un ragazzo dagli occhi buoni, studente di ingegneria e il giorno dopo  fai il cameriere in un bar in Libano, perché hai scritto sul tuo profilo Facebook contro il regime. Sai che, se tornassi in patria, saresti arrestato e quindi, sempre con gli stessi occhi buoni, forse perché non hai perso la speranza, cerchi di far passare una bella serata a sette volontari italiani che si vogliono rilassare.


Vuol dire che, nonostante tu non sia più giovane, abbia lavorato una vita e voglia finalmente goderti i frutti del tuo lavoro nella tua terra, sei costretta a scappare dal tuo paese e ad essere accolta in un centro Caritas, perché non sai dove altro andare.
Vuol dire sperare che tutto questo finisca, non tanto per te che la tua vita l'hai già fatta, quanto per i tuoi figli e i tuoi nipoti, perché non debbano vivere quello che tu hai vissuto. 




lunedì 19 agosto 2013

Libano - Fili invisibili

Nessun commento:
Tornare a casa dopo un viaggio è difficile. Tornare a casa dopo un'esperienza che ti segna come quella che abbiamo vissuto noi diventa veramente complicato.

Un giorno, tornando dal campo profughi palestinese di Dbayeh, ho trovato la "parola del giorno" e la trovo perfetta anche adesso. La parola è FILO. Questo perché percorrendo le quattro strade all'interno del campo non si potevano non vedere. Fili della corrente, fili per il bucato, fili ovunque. Anche a Rayfoun avevamo i nostri fili: per stendere, quello spinato che limita lo shelter, i fili per le collane e i braccialetti... Alla fine anche noi abbiamo tracciato i nostri fili. Le relazioni che abbiamo instaurato con le donne, con i bambini, con le persone che abbiamo incontrato e con le quali abbiamo condiviso anche solo un sorriso, come per esempio le donne siriane con i loro figli a Beirut, con cui l'incapacità di comunicare era evidente, ma, con un semplice gesto, siamo riuscite a scattare una foto insieme, sono i nostri fili, invisibili agli occhi, ma visibili con i gesti, i sorrisi, con il cuore.



È stato un cantiere particolare. Intenso, profondo, purtroppo breve. Un cantiere dove i fili tra le persone sono così stretti che la felicità e la tristezza degli altri diventano anche le proprie, dove anche un piccolo gesto ti fa sentire accolto, a casa.

Allo shelter ho avuto la possibilità di sperimentare un miscuglio di sensazioni così diverse tra di loro, ma di così profonda intensità che il filo che partiva da me sembrava così corto e poco forte rispetto a tutto. Solo riconoscendo il fatto di essere uguale agli altri, senza pregiudizi e barriere mi sono resa conto che il mio filo è forte solo se ci sono gli altri. Le donne che vivono allo shelter hanno una forza incredibile che traspare da tutto quello che fanno. Una forza che non è facile da descrivere, che accoglie senza paura, che dona senza timore, che combatte per la dignità e per la propria vita e quella dei figli. Ripensando ai giorni passati, rivivo quei momenti insieme di condivisione delle loro vite, ma anche di gioco, risate, balli, della giornata del salone di bellezza e della presentazione dei propri Paesi, la preparazione della pizza… Tra tutti gli esempi di quanto questi fili siano forti ce n'è uno che mi emoziona in modo particolare: l'accoglienza, la gioia, gli abbracci dopo una giornata passata fuori. È stato un momento unico, come se noi fossimo ritornati a casa e loro non aspettassero altro che rivederci.


Posso dire di aver ricevuto tanto, molto di più di quello che avrei mai potuto immaginare. I fili che ho lasciato lì, li porto nel cuore con la speranza che un giorno la vita ci faccia ritrovare. Altri, come quelli con le mie compagne di viaggio, so che li potrò rendere ancora più forti perché abbiamo veramente vissuto un'esperienza incredibile, unica, che ha lasciato qualcosa dentro a ciascuna di noi. Ringrazio tutti per aver avuto la possibilità di vivere questo cantiere… le mie compagne di viaggio, le donne i bambini… tutti. Grazie!
Giulia




mercoledì 14 agosto 2013

Libano - Abbraccio di nuvole

Nessun commento:
Tra le immagini che affollavano la mente prima della partenza sicuramente c'era quella di un'estate torrida qua in Libano, e anche il terrorismo psicologico dei nostri coordinatori aveva contribuito all'ansia di mettere in valigia i vestiti più leggeri e di munirci di crema solare protezione 50.
Del resto, siamo in Libano,  questo ci si aspettava….
Ma, tra le tante cose che appaiono diverse qui rispetto a quello che la nostra mente ci aveva suggerito, anche i colori e il clima vogliono stupirci. 

Oggi allo shelter siamo avvolti da un'atmosfera molto suggestiva che ci isola, ci abbraccia, quasi a proteggerci.
Tutto è circondato da nuvole grigie, che nascondo il versante opposto della montagna, coprono i paesi arroccati sotto a Rayfoun e chiudono il cielo sopra di noi. È strano guardarsi intorno e non scorgere nulla, girarsi e toccare l'umidità, sentire le nuvole qui accanto a noi, è come se le nuvole chiudessero la protezione dei cancelli e lasciassero spazio solo a noi qua dentro.
Forse a rendere lo spettacolo più suggestivo è l'idea di isolamento che lo accompagna. Qui le donne non possono assolutamente uscire dai cancelli. Sono protette, trovano un rifugio che riesca a restituire loro una piccola parte di quella serenità che hanno perso, provano a ricercare la forza e la determinazione al di fuori da tutto quello che di orribile la società libanese ha loro mostrato, ma sono anche prigioniere.
Tale reclusione sembra una questione molto difficile da accettare e da condividere: tenere "prigioniere" delle donne che hanno come unica colpa quella di aver provato a cercare fortuna in un paese forse non pronto ad accoglierle; anche noi abbiamo faticato a renderci conto di cosa possa significare il lavoro del Migrant Center di Caritas, a dargli una giusta dimensione nella vita di queste ragazze.

La desolazione è uno degli stati d'animo che maggiormente emerge dai loro racconti. Si sentono sospese, trattenute qui a causa anche di tempistiche delle pratiche burocratiche dispersive e lunghe, che si oppongono alla possibilità di soddisfare il motivo per cui hanno raggiunto questo paese.
Stare nello shelter fa sentire queste donne inutili per la loro famiglia lontana, preoccupate dall'idea del fallimento del loro progetto migratorio e bloccate nelle loro aspettative.

Tanta la delusione, che ormai ha preso il posto della rabbia, tanto il dolore che accompagna la malinconia, ma ancora di più è la speranza di tornare a vedere cosa ci sia al di là di queste nuvole e la determinazione che anche nei loro giorni, così come nelle estati libanesi, tornerà la luce, quella limpida della felicità! E proprio alla loro forza, che sembra provenire da una caparbietà che non pensavo potesse davvero esistere,  la sera libanese regala i suoi tramonti…





mercoledì 19 settembre 2012

Cara injera, ma quanto mi manchi!

Nessun commento:
Un saluto a tutti i carissimi lettori del blog.

Dato che questo è l’unico post che pubblico per il blog, desidero trasmettere qualche aspetto dell’esperienza del cantiere in Etiopia parlando di una cosa che ho particolarmente apprezzato: come avrete già capito dal titolo l’argomento in questione è la mitica injera.

Essa è il piatto tradizionale etiope: è simile ad una grande crepe, ha una consistenza spugnosa, un sapore acidulo ed è realizzata con il teff, un cereale locale.

Vediamo insieme le fasi della preparazione e della degustazione di questa specialità gastronomica.

Una volta preparato l’impasto liquido, lo si stende su delle piastre rotonde e, a cottura ultimata, lo si arrotola. Nella foto potete vedere la consistenza di questo “pane” speciale.
 

Arrivata l’ora del pasto l’injera viene stesa sulla superficie su cui si mangia di modo che si possano adagiare sopra a piacimento salse piccanti, carne, verdure varie e formaggio. In questa seconda foto potete osservare un esempio di piatto di injera realizzata da me accostando carne, salsa piccante e contorno di verdura.
 

Finita la preparazione si passa alla degustazione che deve essere fatta rigorosamente con le mani: si strappa un pezzo di injera, la si usa per raccogliere un po’ di cibo e poi finalmente si può addentare il boccone!

Vi ho parlato brevemente di questo piatto perché mi ci sono veramente affezionato: è pieno di colori, ha un buon sapore, è molto salutare (mi ha fatto perdere qualche kg di troppo senza rinunciare all’appetito) e mi ha fatto divertire parecchio per il fatto di dover mangiare con le mani.

Queste tre settimane in Etiopia sono state un po’ come mangiare una grande injera: innanzitutto ho potuto ammirare dei magnifici paesaggi dominati dal verde, città caotiche piene di vita e villaggi dove si vive in modo semplice. Ho incontrato persone di una cultura diversa che mi hanno accolto mostrandomi le loro tradizioni e la loro grande umanità. Ho visto un modo di vivere diverso dal mio, molto più povero a livello materiale, ma più ricco di contatto con la natura e di relazioni autentiche. Mi è piaciuto ascoltare la musica etiope, ammirare le danze tradizionali e giocare con i bambini e con gli adulti divertendoci in modo spensierato con poco.

Mi ha fatto stare bene spendere un po’ del mio tempo per realizzare dei momenti di animazione per i bambini di Wolisso, ricevendo da loro tanta allegria e dei sorrisi splendidi e indimenticabili.

Mi sento pieno di gratitudine verso molte persone: ringrazio le persone etiopi che ho incontrato perchè mi hanno insegnato molto nonostante non capisca la loro lingua, le suore Figlie della Misericordia e della Croce che ci hanno accolto nella loro missione e il gruppo di ragazze dal cuore grande che hanno condiviso con me questa esperienza. Un ringraziamento va anche a chi ha seguito tutta l’organizzazione del cantiere e ne ha reso possibile la riuscita. Infine, come diceva prima di ogni pasto la carissima Suor Delia (la suora che conduce la missione di Wolisso), ringrazio Dio per il dono di questa esperienza e speriamo che ci dia “la grazia di servircene in bene”.

Ops! Dimenticavo il dessert: ecco a voi i saporitissimi “bananini” cresciuti nell’orto della missione.


Luca

martedì 18 settembre 2012

Un grande grazie dall’Etiopia

1 commento:
Tratto da un articolo che Luca ha scritto per l'Inter Club di Merate:

Stretching prepartita


Innanzitutto un grande saluto a tutto il popolo nerazzurro!

Sono Luca Ravasi, interista di nascita e di cuore.

Nel mese di Agosto ho fatto parte del gruppo di Wolisso, una città dell'Etiopia. La nostra attività quotidiana consisteva nel fare animazione ai bambini dell'Ospedale St. Luke e ai bambini del quartiere in cui eravamo ospitati, presso la missione delle Figlie della Misericordia e della Croce.

Le suore di questa congregazione si dedicano con ammirevole impegno alla popolazione locale e gestiscono la St. Gabriel School, un istituto facente funzione di asilo e scuola elementare, fonte di istruzione per centinaia di piccoli alunni.

L'Inter Club di Merate mi ha generosamente affidato numerosi gadget e tre palloni da calcio, un dono prezioso per i bambini e i ragazzi Etiopi. I palloni e gli altri regali sono stati consegnati alle suore, che si premureranno di distribuirli in maniera equa e di metterli a disposizione di tutti i giovani campioni Etiopi del futuro.
 
La consegna dei doni
Ringrazio l’Inter Club di Merate per l'interesse e l'impegno. 

Luca Ravasi
 
 
L'entusiasmo dei bambini di Wolisso
 

sabato 18 agosto 2012

Good morning teacher

Nessun commento:
Quattro giorni a Ranoong tra Learning Center e Kindergarden. Per quattro giorni siamo stati svegliati alle 7.00 dalle voci dei bambini che ogni mattina prima dell'inizio delle lezioni hanno giocato, corso e condiviso la merenda. Per quattro giorni ci siamo “lavati”, abbiamo fatto colazione, ci siamo vestiti con la loro costante e cortese presenza e ad ogni nostro passaggio siamo stati salutati con un inchino e le mani giunte davanti al viso in segno di rispetto: “Good morning teacher”. Piu' di 200 bambini tra i 4 e i 13 anni hanno animato le nostre mattine con tanti sorrisi e un grande ordine. Mattine partite con tutti i bambini in cortile, divisi in piu' file perfettamente in ordine a recitare preghiere e a cantare l'inno thailandese. Noi, insegnanti improvvisati, abbiamo tentato di passare loro qualche rudimento di inglese... il nostro inglese italianizzato... “Allora, now...”.


Mattine e pomeriggi passati a giocare a pictionary, a insegnare le potenze, le radici quadrate e le espressioni, a cantare ritornelli che piu' che a dei ragazzi di 13 anni sarebbero stati adatti a bimbi di 5 anni, a insegnare vocaboli in italiano e fare video imbarazzantistile “Italiaaa Unoooooo”, a giocare a Galeone (Flipper, Grattamani), a insegnare senza particolare successo che Davide è un boy e Fede una girl. E nonostante molte volte siamo rimasti in silenzio e senza idee, i “nostri” studenti ci hanno sempre confortato con un sorriso.


La prima sera l'idea di stare davanti a tanti ragazzi e trovare il modo di tenerli occupati ci terrorizzava, ma l'ultima mattina il pensiero di non potersi mettere davanti alla lavagna e vedere i loro visi in attesa ci ha stretto il cuore. Ma anche quell'ultima mattina quei piccoli birmani con la faccia decorata ci hanno fatto un bellissimo regalo, riempendoci di dolci, di baci e di sorrisi.

Thank you teacher”, “Bye Bye teacher”.


Solo4 giorni a Ranoong, vivendo tra birmani e come insegnanti birmani (dormendo nella libreria della scuola insieme agli altri teacher), ci hanno svuotato di comodità e ci hanno riempito di affetto.

E allora... Bye bye students!

THANK YOU!!!
Gloria

venerdì 17 agosto 2012

HOT MOVIE 3

Nessun commento:
Continuazione Trama:

Rifocillati da cokine e sprites, appesantiti da una madame carbonara, i 5 power rangers dei poveri ripartono alla volta della capitale del caldo, la già menzionata Dejebuti. Amareggiati dal mancato incontro con gli squali, soliti all'appetito tra le 3 e le 5, tentano un'ultima spiaggia. Ma anche lì niente pinne all'orizzonte. Che rispettino anche loro il ramadan? In compenso, hanno preso un granchio.

Prossima fermata, Lac Assal, la più profonda depressione dell'intero continente nero, degna di citazione sui settimanali più importanti del settore lacustre, quale “Stagni, laghetti e pozzanghere”; recensita nell'ultimo inserto “Un tuffo dove l'acqua è più giù” del quotidiano “Il Sale 24Ore”; location prescelta per la prossima puntata di “Cotto e Salato”. Un viaggio a senso solo, quasi una discesa agli inferi, nel girone degli insipidi. Caronte ad un certo punto si avvicina e dice: “Monsieur Monsieur de l'eau de l'eau Monsieur!”. Paesaggi mozzafiato e orizzonti indefiniti, dove perdere lo sguardo è facile come farsi fregare al suq del Centre Ville. Un dubbio si insinua nell'abitacolo. Ma Gibuti confina con la Groenlandia? Ma basta aprire la portiera per sciogliere ogni dilemma. Passaggio di stato avvenuto, e con esattamente 12 minuti e 32 secondi i P.R. stabiliscono il nuovo record mondiale e olimpico di resistenza a corpo libero. Premio consegnato da un Afar locale, giudice imparziale e venditore di souvenir nel tempo libero, che ne approfitta per scroccare un passaggio fino alla maison.

Stremati e sfiniti, pezzati e gormiti, rientrano all'uscio con la mente già rivolta alla prossima missione: affrontare e sopravvivere ad un esercito di bimbi sperduti un po' abbronzati, affamati e assetati, in ricerca dell'affetto e dell'attenzione da sempre privati.


E questo lo racconteremo nel prossimo episodio, che la regia est trees affamèe.

giovedì 9 agosto 2012

IL PULCINO PIO!!!

Nessun commento:
In radio c’è un pulcino..il pulcino Pio il pulcino Pio il pulcino Pio..In radio c’è anche un gatto…

E chi più ne ha più ne metta!!! Ma che sorpresa quando questi bimbi ci hanno regalato questo infinito balletto di saluto! Pensato e preparato tutto per noi... per salutare quegli strani volontari di Milano, che passavano le mattine a pulire la loro grande casa, ma che nel pomeriggio erano ben contenti di giocare insieme, fregandosene degli sguardi storti dei turisti, che non si aspettavano di essere malauguratamente coinvolti in battaglie d’acqua e mega giochi nel pieno centro di Firenze!!!
Grazie bimbi!!

mercoledì 1 agosto 2012

Divertirsi semplicemente, semplicemente divertirsi

Nessun commento:
(Libano, 4° giorno di cantiere)

Inauguriamo il mese d’agosto giocando con i bambini a “Un, due, tre… Stella!”, chiacchierando con le donne e scattando loro qualche foto. È incredibile vedere come questi bambini riescano a divertirsi con giochi molto semplici e viene spontaneo pensare ai bambini di casa nostra, sempre a caccia dell’ultimo modello di Playstation o di giochi di marca iper-sofisticati. È sorprendente anche vedere quanto sia facile e immediato l’approccio con le donne: anche se non ci conoscono e non sanno niente di noi basta un sorriso perché ti invitino a seder loro accanto, comincino ad abbracciarti e a ridere con te. Questo atteggiamento rende superabili le barriere linguistiche ma soprattutto ci si rende conto di quanto queste persone, donne e bambini, siano affamati di affetto e di attenzione, che sono naturalmente spinti a cercare in noi, lì apposta per loro. I bambini naturalmente richiedono molte energie e la difficoltà sta nel porre loro dei limiti e nel saper loro dire “Basta” al momento giusto. Nel pomeriggio, durante la riunione con lo staff, ci fa piacere vedere come le responsabili ci prendano molto sul serio, dando credito alle nostre idee e lasciandoci spazi per intervenire. Viene spontaneo pensare a quanto sia difficile gestire un Centro come questo, a quanto impegno richieda, ma N., M. ed E. sono donne forti e competenti nella loro professione. Più tardi si continua con giochi e chiacchiere e la sera usciamo tutti insieme a visitare un luogo santo per i fedeli cristiani libanesi, la città natale di San Charbel Makhlouf. Abbiamo l’opportunità di visitare la chiesa dedicata al santo eremita e ciò che colpisce è l’atteggiamento di preghiera intensa e silenziosa dei fedeli nella piccola chiesa di pietra, illuminata da una luce soffusa nella notte. Si percepisce un grande senso di pace e anche noi sostiamo qualche attimo in raccoglimento, radunando nuove forze per le attività dell’indomani.



Elisa