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martedì 8 maggio 2018

Viaggio all'interno del campo di Tal Abbas

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Incontro con i volontari di Operazione Colomba, presente dal 2014 in un campo profughi nel nord del Libano. 


Tal Abbas, novembre 2017. Al nostro arrivo un folto gruppi di bambini e bambine di diverse età, incuriositi dai volti nuovi, ci corre subito incontro, alcuni si avvinghiano alle nostre gambe chiedendo “shu ismak??”, poi ognuno di loro prende uno di noi per mano e ci accompagna all'interno del campo. Insieme a loro c’è Alessandro, che ci accoglie calorosamente e ci presenta alle varie persone che ci stanno aspettando. Il loro benvenuto è altrettanto caloroso, diverse famiglie ci invitano a mangiare o a bere un tè nella propria tenda mentre i bambini ci corrono attorno reclamando attenzioni.

Siamo a Tel Abbas, un piccolo paesino libanese situato nella regione settentrionale dell’Akkar, in uno dei tanti campi profughi sorti in Libano con l'arrivo di centinaia di migliaia di persone siriane, in fuga dalla guerra che dal 2011 strazia il loro paese. Da dove ci troviamo, la Siria dista infatti pochi chilometri e le sue terre si vedono nitide all'orizzonte. Siamo vicinissimi al confine, quel confine da cui, dall'inizio della guerra ad oggi, più di 1 milione e mezzo di uomini, donne e bambini è passato per cercare salvezza dagli orrori della guerra. Lo stesso confine che negli ultimi anni, ed in particolare dal 2015, è sempre più chiuso ed uccide al pari di bombe e proiettili (di questo inverno è la notizia di diverse persone trovate morte congelate mentre tentavano di attraversare il confine).

Il campo è formato da una dozzina di tende rettangolari coperte da teli di plastica, una struttura in legno utilizzata per varie attività, uno spazio per bambini malmesso, alcune stanze in muratura di un edificio trasandato. Le famiglie sono numerose ed i bambini tanti – anche dieci per famiglia – ma lo spazio è poco ed ognuna di esse deve vivere in tende di pochi metri quadrati. Anche lo spazio esterno è ristretto, una striscia di terreno ghiaiato delimitato da una parte dalle tende stesse e dall'altra da alcuni edifici in muratura. Dietro alla prima fila sorgono altre due file di tende adiacente ad essa che però, come ci verrà poi spiegato, fanno parte di un campo distinto.  









Edificio in legno usato come scuola e per altre attività, prima che un incendio doloso ne distruggesse una parte. 

Il campo di Tal Abbas è simile a tanti altri insediamenti informali sorti in Libano dall'inizio del conflitto in Siria (informali, perché fin dall'inizio della guerra il governo libanese si è opposto alla creazione di campi formalmente riconosciuti sullo stampo di quelli palestinesi, esistenti nel paese da più di sessant'anni).  Eppure, esso possiede al tempo stesso una peculiarità che lo rende differente dagli altri: a fianco delle varie famiglie siriane che lo popolano, in una tenda del tutto uguale alle altre vivono, condividendo con le persone del campo una quotidianità faticosa e piena di ostacoli, alcune ragazze e ragazzi italiani. Essi fanno parte di Operazione Colomba, organizzazione nata come corpo non violento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII e presente da più di vent'anni in zone di conflitto. Tra loro, alcuni sono volontari e volontarie di corto periodo e si fermeranno solo alcuni mesi, mentre Alessandro è il volontario di lungo periodo e vive nel campo da quasi due anni.


Alessandro, al centro, insieme a due dei ragazzi del campo. 

Poco dopo il nostro arrivo, una delle famiglie insiste per averci ospiti a pranzo e ci accoglie nella propria abitazione. Essi sono tra i pochi del campo a vivere in una struttura in muratura, una stanza buia di pochi metri quadrati ricavata in un edificio di blocchi grigi, sicuramente più simile ad una cantina o a un magazzino per gli attrezzi che a una casa. A Tel Abbas come nel resto del Libano, le famiglie siriane che non possono permettersi l'affitto di un appartamento – la stragrande maggioranza - non hanno grandi alternative, una parte di esse vive in vecchi garage e magazzini convertiti in abitazioni di fortuna, in edifici abbandonati o incompleti situati nelle zone e nei quartieri più poveri delle città (spesso pagandone comunque l'affitto ai padroni di casa), i rimanenti nelle tende dei campi profughi sorti con l'inizio della guerra. La stanza, che funge da sala da pranzo durante il giorno e diventa camera da letto durante la notte – ospitando coricati l'uno accanto all'altro sui materassi stesi al suolo padre, madre ed i numerosi figli – è spoglia e fornita di pochissime cose: alcuni materassi ed un tappeto sul pavimento di cemento, una vecchia tv di pochi pollici in un angolo, una caldaia arrugginita al centro della stanza. Separato da una tenda un secondo spazio usato come cucina, vicino ad essa uno stanzino con una turca per i bisogni corporali. Nonostante la situazione di estrema vulnerabilità e povertà, l'accoglienza di Abu Mohammed, Umm Mohammed ed i loro figli è sorprendente: dopo esserci seduti lungo le pareti della stanza, ci viene portato un largo vassoio di ferro pieno di cibo squisito, tra cui falafel, hummus, laban, melanzane grigliate e ripiene, zatar, olive. Finito lo spuntino, Umm Mohammed ci offre prima tè zuccheratissimo e poi caffè turco, mentre Abu Mohammed insiste affinché fumiamo una delle sue sigarette. Malgrado le barriere linguistiche e l'imbarazzo del primo incontro, l'atmosfera è rilassata ed accogliente, alcune di noi giocano con i bambini e le bambine più piccole mentre altri chiacchierano con gli adulti ed i ragazzi più grandi.   








Dopo pranzo, Alessandro ci porta sul tetto di uno degli edifici in muratura delimitanti il campo e lì ci parla a lungo di come esso è organizzato, della vita al suo interno, delle difficoltà e dei pericoli quotidiani, e di ciò che Operazione Colomba fa per stare accanto ed aiutare  - quando possibile - le persone del campo e delle zone limitrofi. Ci viene così spiegato che le tre file di tende che vediamo dall'alto fanno in realtà parte di due campi distinti. Nel primo, quello dove ci troviamo, le varie famiglie pagano l’affitto della terra – tra le 30’000 e le 40'000 lire al mese per tenda – al proprietario terriero libanese. Le due file posteriori invece costituiscono un campo distinto, dove vivono famiglie ancora più povere e dove l’affitto della terra è pagato dalla carità di un saudita. Alessandro ci spiega come questo comporti però la presenza di regole molto più rigide e di un clima di tensione e di costante minaccia per le oltre 300 persone che vivono al suo interno.


I due campi visti dall'alto: le due file di tende più lontane costituiscono un campo distinto. 

Anche se la situazione del campo dove ci troviamo è relativamente migliore, essa è comunque precaria e piena di problemi. Le persone del campo, come la maggior parte dei siriani presenti in Libano, vivono in una situazione di vulnerabilità estrema e devono affrontare una quotidianità ricca di difficoltà e rischi. Le condizioni abitative sono inadeguate e le persone sono esposte alle intemperie ed al freddo durante l’inverno ed al caldo durante l’estate, in una regione dove le temperature sono molto alte durante i mesi estivi e molto basse durante i mesi invernali. Anche la gestione di servizi minimi come l'acqua – prelevata da alcuni pozzi presenti nel campo o acquistata e stoccata in cisterne – e l'elettricità è problematica, ed aggiunge ulteriori rischi alla già fragile situazione del campo. Gli impianti elettrici sono scoperti ed i fili vengono collegati e tirati da una parte all'altra come possibile, aumentando il rischio di cortocircuiti e di incidenti, soprattutto per i più piccoli. I bambini, numerosissimi, vivono infatti in un ambiente poco sicuro e pieno di pericoli, dove a volte si muore per un passo falso o per un eccesso di curiosità.  “I campi profughi non dovrebbero esistere, tolgono la dignità alla persona,” ci dice Alessandro mentre parla di due dei bambini che hanno perso la vita nel campo, una cadendo in uno dei pozzi d’acqua e l’altro rimanendo fulminato al contatto di un cavo elettrico. 






Ai problemi abitativi si aggiunge poi la sfida quotidiana della sussistenza. Secondo le stime ufficiali dell’UNHCR, la situazione economica dei siriani in Libano ha continuato a peggiorare negli ultimi anni: stando alle stime del 2017, 76% delle famiglie vive oggi sotto la soglia di povertà, mentre il 58% vive in una condizione di povertà estrema. A Tel Abbas come nel resto del Libano, alcune delle famiglie più vulnerabili ricevono su carta di credito un’assistenza monetaria minima da parte dell’UNHCR, che negli ultimi anni ha però ridotto il numero di famiglie assistite per mancanza di fondi. Inoltre, chi riesce lavora in maniera irregolare nelle zone limitrofe al campo, soprattutto nell'agricoltura e nelle costruzioni, ma è esposto allo sfruttamento e ad una totale mancanza di tutele e diritti per la sua condizione di irregolarità. La mancanza di risorse economiche si ripercuote sulla difficoltà d’accesso alle cure sanitarie, in un paese dove i servizi pubblici sono praticamente inesistenti ed il sistema sanitario risulta caro anche per la popolazione locale. Esempio della criticità della situazione è la storia di Ahmed, bambino siriano di un villaggio vicino che ha avuto un incidente ed è rimasto parecchi giorni con una gamba rotta, perché gli ospedali si rifiutavano di operarlo in mancanza di 1000 dollari, e solo dopo aver fatto una colletta e aver racimolato la cifra richiesta i ragazzi di Operazione Colomba sono riusciti a garantire l’operazione. Alle difficoltà di accesso al sistema sanitario si sommano le difficoltà nel garantire ai bambini un’educazione continuativa: malgrado gli aiuti internazionali, barriere economiche, logistiche e linguistiche continuano a impedire a buona parte dei bambini di ricevere un’educazione continuativa e completa. 




Le sfide quotidiane sono accompagnate ed amplificate dai problemi legati alla situazione legale delle persone residenti nel campo e alla difficile relazione tra esse e la popolazione libanese locale. La stragrande maggioranza dei siriani di Tal Abbas, come nel resto del Libano, non è in possesso di un permesso di soggiorno e risulta quindi illegale, anche se in possesso della registrazione con l’UNHCR. Questa situazione pone i siriani in una condizione di estrema vulnerabilità nei confronti delle autorità, che possono arrestarli ed incarcerarli in qualsiasi momento – spesso usando metodi violenti –  e ne limita notevolmente la libertà di spostamento, visti i numerosi check point e controlli disseminati lungo le strade libanesi, limitando la vita di molti adulti e bambini agli spazi ristretti che il campo offre. Un secondo problema riguarda la relazione tra gli ospiti del campo e la comunità locale libanese, una relazione che, come nel resto del Libano, è spesso tesa e conflittuale. Alessandro ci racconta come, nel caso di Tel Abbas, la presenza di Operazione Colomba sia iniziata proprio poiché gli abitanti del campo avevano ricevuto minacce dall'esterno. Alessandro non usa mezze parole e definisce come “mafiosi” i metodi utilizzati da alcune famiglie libanesi nei confronti delle persone siriane del campo, metodi fatti di minacce, intimidazioni e violenza. Per farci un esempio, Alessandro ci spiega come le persone del campo fossero costrette ad acquistare cibo e prodotti dal negozio di proprietà della famiglia che possiede i terreni dove le tende sorgono. Altra manifestazione palese della situazione conflittuale con l’esterno e dell’estrema vulnerabilità delle famiglie siriane è l’incendio che pochi mesi fa è scoppiato all'interno del campo bruciando parte della scuola, incendio che probabilmente ha avuto origine dolosa ed avrebbe potuto trasformarsi in una tragedia se solo ci fosse stato vento o se le persone del campo non se ne fossero accorte in tempo. 




Fronte a tutte queste difficoltà, la presenza ed il lavoro di Operazione Colomba risultano di fondamentale importanza per tutelare quanto possibile la dignità delle persone che vivono nel campo, per aiutarle ad affrontare le sfide ed i problemi quotidiani e per ridurre i rischi nel rapporto tra il campo e l’esterno.  Alessandro ci spiega come il lavoro di Operazione Colomba in Libano si articoli principalmente in tre parti. La prima consiste nella presenza diretta sul terreno, nella vicinanza alle famiglie e nella condivisione della quotidianità all'interno e all'esterno del campo. La presenza di ragazzi e ragazze italiane, che decidono volontariamente e gratuitamente di rinunciare temporaneamente ai propri privilegi per vivere temporaneamente accanto a persone che hanno perso tutto, non ha solamente un forte valore umano. In un mondo dove la nazionalità ed il colore del passaporto contano, la presenza di persone europee all'interno del campo svolge di per sé un ruolo di garanzia, protezione e deterrenza dalla violenza. I volontari di Operazione Colomba si pongono come mediatori quando sorgono situazioni di conflitto con l’esterno, sia con le autorità o con la popolazione locale. Recentemente, essi sono ad esempio riusciti ad impedire che una delle tende del campo costruita al bordo della strada fosse distrutta dall'esercito. La loro azione non è però limitata all'interno del campo. Con i cosiddetti “accompagnamenti”, essi scortano le persone negli spostamenti all'esterno del campo, a volte necessari ad esempio per ragioni mediche. Come già riportato sopra, la condizione di irregolarità della maggior parte delle persone siriane le espone ad arresti arbitrari e a violenze verbali e fisiche da parte delle autorità. La presenza di persone europee svolge anche in questo caso una funzione deterrente e di mediazione nel caso di controlli e durante il passaggio – spesso obbligato – attraverso i check point disseminati lungo le strade del Libano.

Il secondo campo d’azione di Operazione Colomba è la collaborazione con varie organizzazioni locali ed internazionali, e lo svolgimento di un ruolo di ponte e contatto tra esse e le persone del campo e delle zone limitrofi. Tra queste organizzazioni, la collaborazione con il progetto dei corridoi umanitari promosso dalle chiese valdesi e dalla comunità di Sant'Egidio merita una menzione speciale. Grazie a questo progetto varie famiglie del campo, alcune in grave necessità di cure mediche, hanno infatti potuto viaggiare verso l’Europa in maniera legale, e sono state accolte dalle varie comunità disseminate sul territorio italiano e francese. Malgrado il progetto riguardi purtroppo numeri molto limitati (anche considerando la partecipazione futura di altri stati Europei), esso rappresenta spesso l’unica speranza per le persone del campo, che hanno rinunciato da tempo all'idea – presente durante i primi anni di conflitto – di tornare in Siria nel breve periodo e vivono in uno stato che non li vuole e dove non vi è possibilità di alcun tipo di futuro.




Vista la situazione di limbo permanente in cui queste persone vivono, e visto il desiderio diffuso che esisterebbe tra i profughi siriani di tornare in Siria, se le condizioni fossero diverse da quelle attuali che rendono il ritorno impossibile, il terzo punto ancora più ambizioso sul quale Operazione Colomba lavora è la presentazione di una proposta di pace per la Siria. La proposta, scritta insieme ai profughi siriani stessi e presentata il 3 maggio al Parlamento Europeo, prevede la creazione di zone umanitarie sicure in Siria, neutrali rispetto al conflitto e sottoposte a protezione internazionale, dove i siriani scappati dalla guerra possano tornare a vivere in pace e sicurezza. Essa rimane per il momento solo una proposta e la sua realizzazione presenterebbe una serie di sfide ed ostacoli difficilmente superabili, ma rappresenterebbe al tempo stesso l’unica soluzione per centinaia di migliaia di persone, bloccate in un paese che non vuole e non può offrir loro un futuro e a cui l’accesso ad altri paesi, tra cui quelli Europei, è generalmente precluso. Secondo i volontari di Operazione Colomba è quindi necessario immaginare vie e soluzioni mai pensate prima, di cui la proposta di pace è esempio. 

Alessandro ci parla di tutto questo in piedi sul tetto di uno degli edifici delimitanti il campo, mentre la vita tra le tende continua come suo solito: i bambini giocano tra fili, tubi e cisterne, i più grandi si rincorrono, i più piccoli esplorano quella piccola porzione di mondo a loro disposizione. Alcuni adulti sono indaffarati, altri siedono su sedie di plastica, chi chiacchiera, chi fuma una sigaretta pensieroso. Abu Mohammed è sul tetto con noi ed anche lui fuma poco distante, tiene una mano appoggiata al fianco e con l’altra porta la sigaretta alla bocca ad intervalli regolari, con uno sguardo serio sorvola il campo che da lì sopra appare nella sua interezza. Per un attimo, smetto di ascoltare Alessandro e mi concentro sul suo sguardo, che mi colpisce come un pugno nello stomaco, di quelli che ti lasciano per alcuni secondi senza fiato. Vedendolo così, lo sguardo serio e pensieroso che mi appare velato di tristezza, mi chiedo cosa possa provare un padre nel vedere i propri figli crescere in un posto del genere, nel saperli in uno stato che non li vuole, mi chiedo da dove queste persone prendano la forza per continuare quotidianamente a vivere, a lottare, per sopportare una situazione che invece di migliorare di anno in anno peggiora peggiora, una situazione su cui non hanno alcun controllo, mi chiedo da dove arrivi la speranza, se ancora ce n’è. Ricomincio ad ascoltare Alessandro senza trovare risposte a queste domande che pesano come macigni, che porto a Beirut con me, quando con la gente del campo ci salutiamo con la promessa di tornare presto a trovarli. 

“I campi profughi non dovrebbero esistere, tolgono la dignità alla persona. È un posto che fa schifo, ma dove c’è tanta bellezza umana,” ci dice Alessandro, e questa è l’unica conclusione che riesco per il momento a raggiungere, mentre le stesse domande mi pesano addosso senza risposta e lo sguardo di Abu Mohammed mi rimane inciso come una cicatrice nella memoria e nel cuore. 





giovedì 13 agosto 2015

LIBANO: Un, due, tre... Guerra!!

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Siete tutti capaci di giocare a NASCONDINO? No?!? 
Ecco le regole: una persona conta e tutti gli altri si nascondono; quando la persona che sta alla toppa finisce di contare, va a cercare tutte le altre persone. L’obiettivo di queste ultime è ritornare alla toppa e dire “Per tutti!”, per salvare i propri compagni beccati. In questo modo vincono tutti.

Immaginate ora una partita a nascondino mondiale, dove i partecipanti sono le persone di ogni paese. Facciamo una manche di “Miscela numerata” per decidere chi conta ed esce la Siria. È marzo 2011.

Si comincia.

La Siria conta fino a 2015. Giocano circa 4 milioni di persone
Tutti iniziano a scappare per cercare un nascondiglio perfetto, in modo da non essere beccati. 
C’è che si sposta a sud, dove i parenti conoscono un posto infallibile per nascondersi. 
Alcuni più a nord, verso la Turchia, altri, i più coraggiosi, corrono verso l’Europa (corre voce che ci siano dei posti adatti al gioco e che le persone siano disponibili a concedere qualche aiuto nella ricerca del nascondiglio), altri ancora scappano momentaneamente verso il Libano, sperando di trovare una sistemazione migliore nelle ore successive.
È qui che si sbagliano.
Quello che li aspetta è un gioco infinito, fatto di estenuanti attese e di indifferenza generale. Alcuni decidono di abbandonare il gioco, sono sfiniti. Altri proseguono da soli, senza le proprie famiglie. Tutti aspettano che qualcuno corra alla toppa a gridare “Liberi tutti!”, ma per ora, ancora nulla.

Ad essere in Libano, sentire la parola “Siria” fa venire la pelle d’oca.
Tutto è così reale. La parola “guerra” prende corpo: sono gli occhi dei bimbi e delle mamme siriane rifugiate nello shelter di Caritas a Bhersaf; sono le catapecchie di lamiera o cemento del campo profughi di Dbayeh dove qualche famiglia cerca di sopravvivere; è il racconto di un amico di Damasco durante una cena in riva al mare.

Il cuore trema mentre tutto tace.

 TU sei fermo di fronte a ragazzi ventenni che passano in prigione un mese e mezzo della loro vita, solo per il fatto di abitare in una certa regione della Siria considerata fulcro di rivoluzionari.



TU taci guardando una donna siriana di 79 anni che, sola, dopo essere stata rispedita a casa dalla Germania e dalla Svezia, attende (cosa?) da più di un anno in un rifugio di Caritas.



TU continui per la sua strada mentre con la forza e il sacrificio alcune mamme siriane cercano di mettere in salvo i propri figli da un orrore ingiusto che ha travolto le loro vite.


TU non fai niente di fronte ad un gruppo di bambine che, giocando tranquillamente tra loro, al sentire il rumore di un aereo che passa (fortunato chi sta andando in Grecia a farsi una vacanza!) si abbassano e si coprono le orecchie spaventate.




Il mondo alza barriere, crea muri, delimita i perimetri con militari e filo spinato.

Ma non c’è muro né filo spinato che regga quando si tratta di libertà.

Caro Mondo, come puoi andare a dormire la sera ed essere indifferente?!?


Cantieristi Lebanon

mercoledì 30 luglio 2014

Infanzie prese a prestito

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Non ereditiamo il mondo dai nostri padri ma lo prendiamo in prestito dai nostri figli” recita un vecchio proverbio che qualcuno addebita ai nativi americani, altri alle tribù Masai.
Chiunque l'abbia ideato, il proverbio sottolinea quanta cura e attenzione sia stata posta nei confronti degli infanti da diversi secoli ad oggi.


Wata Al Jawz, Libano
Nel 2014, in Medio Oriente e non solo, tutto ciò non è realtà. L'infanzia non è preservata, ma viene essa stessa "presa in prestito", usurpata,  divenendo il principale target di guerre e genocidi combattuti sopra la testa della popolazione civile. 

Ad oggi, più di un miliardo di minorenni vivono ad oggi in zone di guerra: tra i paesi più colpiti Sud Sudan, Iraq e Siria.





Ed è proprio su quest'ultimo conflitto che voglio soffermarmi, visto che  attraversa quotidianamente la mia permanenza qui in Libano. Nei vari centri dove prestiamo servizio,  veniamo a contatto con diverse famiglie siriane: ognuna porta con sé 3-4-5-6 figli, spesso malati e versanti in condizioni difficili. Capita spesso di strappare loro e di strapparci un sorriso, basta davvero poco.



No, questa non è la storia de" i bambini poveri sono belli". Non funziona. Nemmeno, e soprattutto, per quelli che vivono in zone di conflitto. Non esistono solo i loro sorrisi, non esiste solo il loro "essere felici con poco". Questa bambina è sorella di quella più piccina che vedete abbracciare il pallone appena sopra : una bomba dentro casa sua ad Aleppo e...

Wata al Jawz, Libano
Aleppo dicevamo: eccovi una delle foto più condivise della settimana sui quotidiani nazionali. Una piscina "naturale" ricavata dal cratere creato da una forte esplosione nel centro della città. L'unico accesso all'acqua per centinaia di persone, l'unico modo di trovare un briciolo di frescura. L'unico modo di reinventarsi un'infanzia.           
La forza creatrice fantasiosa dei bambini non legittima nessuno a prendere in prestito la loro infanzia.
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La forza indomita dei bambini di ritrovare il proprio essere umano che rivediamo in questa ragazzina palestinese a Gaza. Solo macerie restano dell'intero villaggio dove abitava: eh sì, sono passati, come periodicamente succede, gli occupanti israeliani a "fare un po' di pulizia". E lei che fa, accorre sul luogo che un tempo si chiamava "casa" per recuperare i libri di scuola.  Nulla da aggiungere credo.





La forza creatrice fantasiosa dei bambini non legittima nessuno a prendere in prestito la loro infanzia.






No, non c'è nulla di romantico o amorevole in questo ultimo  fotogramma: nulla ha a che vedere con quattro bambini a Copacabana o in qualsiasi altra spiaggia del mondo. Questi quattro bambini hanno avuto la sfortuna di nascere a Gaza, di crescere a Gaza e soprattutto di incontrare sulla spiaggia vicino a casa la mano insanguinata dell'IDF. Israel Defence Force: sì proprio questo è l'acronimo dell'esercito "più morale al mondo" secondo quanto ripetono ad ogni conferenza stampa i vertici sionisti.
Sì, cari ragazzi , se un missile ha dilaniato le vostre membra e il cuore dei vostri genitori, è per una questione di difesa
Siete nati a Gaza, siete sempre e comunque parte di quei 1,8 milioni di terroristi che affollano quella striscia di terra. E come voi, pure più di 200 altri bambini ammazzati in 24 giorni  tra  parchi giochi, case e perfino scuole dell'UNRWA. 
Avete capito bene: esiste al mondo uno stato che può permettersi il lusso di bombardare una scuola delle Nazioni Unite, il presunto garante della sicurezza e della pace internazionale, e di rimanere impunito. Anzi.


Adesso scendete nel vostro paese, chiamate 200 bambini e radunateli in piazza.


Guardate i loro volti ad uno ad uno;
guardateli scomparire uno ad uno.
Domani mattina andate dal giornalaio all'angolo:
No, non leggerete i nomi dei vostri figli o dei vostri fratelli ammazzati: si chiameranno:
"rappresaglia", 
"scheggia impazzita", 
"ritorsione legittima", 
"difesa giusta", 
"danno collaterale".

La mano che ammazza questi bambini è anche la nostra che toglie lo sguardo di fronte a questo massacro.



La forza creatrice fantasiosa dei bambini non legittima nessuno a prendere in prestito la loro infanzia, tantomeno ad ammazzarla.









giovedì 20 marzo 2014

"Speri di ritornare nel tuo paese di origine"?

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"Do you hope returning back to your country of origin?"

Che provenga da una radio, da una Tv di passaggio o dalle urla di un bambino,  che sia  su un taxi o per strada, la parola "Sūriyā", Siria, compare in ogni frase pronunciata, con un tono tra il rassegnato e l'allarmato.

Siamo di ritorno da due giorni di "lavoro" a Ballouneh, una trentina di km nell'entroterra collinare rispetto a Beirut.  Keserwan, la regione dove ci troviamo, assiste quotidianamente all'arrivo e allo stanziamento di centinaia di siriani in fuga dal conflitto.  Ci troviamo all'interno del centro, stanziato dal Caritas Lebanon Migrants Center, dedicato alla ricezione delle domande di aiuto umanitario da parte delle decine di famiglie che ogni giorno affollano l'ufficio.

Siamo dunque "osservatori privilegiati" di una realtà che va ben oltre le pieghe di un questionario di quattro pagine e che riesce ad oltrepassare le barriere linguistiche i anche solo attraverso una smorfia, un movimento degli occhi.
E ripenso subito al padre di famiglia sedutosi davanti a noi: viene da Homs, dove ha lasciato un'attività e una casa. O meglio, quanto rimane della propria casa.
"Bum Bum Bum" non è il classico rumore che senti nei cartoni animati: il "bum bum bum" sussurrato da chi ha visto sgretolarsi il tetto sopra le proprie teste ha un qualcosa di terribilmente penetrante. Come è violento lo scoppio che ha causato il ferimento degli arti di due dei suoi tre figli, ancora oggi in preda a stress, crisi di panico e frequenti incubi notturni. Una situazione  che l'ha visto costretto a lasciare tutto e portare moglie e figli al di là del confine, dove, tra lavoretti e prestiti, si cerca di assicurare loro un presente al riparo dal conflitto.
Un presente dicevamo; perché alla domanda riguardo a come e dove veda il proprio futuro , gli occhi si alzano e si illuminano ripensando immediatamente a quanto lasciato, a casa. E suona perfino fuori luogo e scontato chiederlo dalla nostra comoda sedia, dalla nostra posizione di semi-spettatori comunque esterni alla tragedia. 


Riguardo la pila di questionari sui tavoli e ci vedo centinaia di storie e di drammi che nessun foglio può contenere e nemmeno sintetizzare in alcun modo. 

Stiamo assistendo ad una tragedia di dimensioni oltre il drammatico e la vediamo scorrere davanti ai nostri occhi: spettatori semi-impassibili di un'emergenza dilagante che  prende sempre più la forma di un infausto quotidiano. 


domenica 9 marzo 2014

1.000.000

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Quotidianamente veniamo bombardati da numeri, cifre, sterili quantità che per un attimo ci impressionano ma subito svaniscono. Quanti esempi potrebbero venirci in mente: titoli di giornali, notiziari…
In Libano sono presenti circa un milione di rifugiati siriani. Più o meno un quarto della popolazione libanese: proporzione già impressionante di per sé ma lo diventa ancor più quando si inizia a dare un volto a questo numero. 
Nonostante l’opulenza di Beirut nasconda un po’ la presenza dei rifugiati siriani, percorrendo le strade subito fuori dal centro si notano subito pulmini pieni di bagagli e persone o uomini che camminano a piedi sui bordi delle carreggiate. Spostandosi verso il confine siriano, nella valle della Bekaa il paesaggio cambia totalmente e non solo dal punto di vista ambientale.
Guardando i campi secchi dalla siccità di quest’anno si vedono ovunque accampamenti di persone. Katia, l’operatrice che ci accompagna, ci spiega che in questa zona sono sorti campi profughi ovunque, proprio a causa della massiccia presenza siriana. Quando entriamo nel campo profughi ci accolgono subito gli anziani che, dopo un attimo di sospetto, ci fanno entrare con un caloroso sorriso. 


La struttura del campo è molto semplice: una strada principale su cui danno gli ingressi delle tende formate da pali e tende cerate, fissate con pneumatici. Tra una tenda e l'altra, pochi panni spesi ci ricordano che questa realtà precaria e apparentemente provvisoria si sta drammaticamente trasformando in qualcosa di quotidiano.
    
A rallegrare l’atmosfera ci pensano decine di bambini che, incuriositi dalla nostra presenza, trasformano la loro iniziale timidezza in un gioco a chi si fa fotografare di più. Con disinvoltura si aggiungono i più anziani che si mettono in posa con i più piccini. Ci mostrano con fierezza la loro scuola-tenda, mentre i più grandi con orgoglio snocciolano qualche parola di inglese per entrare in sintonia.


1.000.000...
Un milione di persone significa un milione di questi volti, un milione di questi vissuti in centinaia di campi profughi in condizioni al limite della dignità umana.  Ma sono proprio questi volti e questi sorrisi a ricordarci che proprio qui, tra queste tende, di dignità e di umanità ce n’è da vendere, che la speranza di vedere terminare la guerra e poter tornare alle proprie case è una convinzione forte e un motivo in più per sopportare questa situazione precaria. Proprio qui realizzi come la vita vada avanti e germogli anche su rami che sembravano morti o secchi. In queste situazioni ciò che davvero ti rimane nei ricordi e nel cuore sono i sorrisi, le risate e soprattutto occhi che ti dicono quanta voglia abbiano di andare avanti nonostante i traumi.
Un passato che è causa del presente ma non spegne il futuro…anzi.





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lunedì 26 agosto 2013

Libano - Cosa vuol dire essere un rifugiato?

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Vuol dire scappare dalla Siria per salvare la tua vita e quella delle persone più care.

Vuol dire andare al centro Caritas, ritirare lo scatolone con gli aiuti umanitari e portartelo da solo a "casa", anche se pesa tantissimo. Almeno questo lo vuoi fare da solo, vuoi dimostrare che sei ancora capace di darti da fare per la tua famiglia, anche se intorno a te sai che le persone ti vorrebbero aiutare. E queste persone non fanno niente, perché immaginano cosa stai provando e non vogliono ferirti ulteriormente. È come se ci fosse un codice di comportamento. Però a ringraziare ci provi, perché anche tu, tempo fa, hai fatto il volontario come loro.

Vuol dire affittare una casa in un campo profughi palestinese, che esiste da circa 60 anni e pagare una stanza 500 Dollari al mese. Forse gli altri si dimenticano di aver vissuto la stessa condizione che hai vissuto tu, ma, nella disperazione di non avere diritti da 60 anni e di non potersi pagare le cure più costose come la dialisi, senza la quale non potrebbero sopravvivere, lucrano sulla tua di disperazione.

Vuol dire che alcuni aiuti inviati dalle ONG internazionali arrivano scaduti e non possono essere utilizzati, perché è passato troppo tempo da quando sono stati raccolti a quando sono arrivati. Le motivazioni non si conoscono, ma, anche se sei profugo e disperato, i cibi scaduti non li puoi mangiare e nemmeno darli ai tuoi bambini.

Vuol dire che una volontaria viene dai tuo figlio, gli chiede come si chiama in un arabo stentato e cerca di farlo sorridere disegnando. Tu le sorridi e capisci che lei fa quello che può, ma sai che tuo figlio ci metterà un po’ a sorridere di nuovo, perché si trova in un posto che non è casa sua, e non lo sarà per molto tempo.

Vuol dire che il giorno prima sei un ragazzo dagli occhi buoni, studente di ingegneria e il giorno dopo  fai il cameriere in un bar in Libano, perché hai scritto sul tuo profilo Facebook contro il regime. Sai che, se tornassi in patria, saresti arrestato e quindi, sempre con gli stessi occhi buoni, forse perché non hai perso la speranza, cerchi di far passare una bella serata a sette volontari italiani che si vogliono rilassare.


Vuol dire che, nonostante tu non sia più giovane, abbia lavorato una vita e voglia finalmente goderti i frutti del tuo lavoro nella tua terra, sei costretta a scappare dal tuo paese e ad essere accolta in un centro Caritas, perché non sai dove altro andare.
Vuol dire sperare che tutto questo finisca, non tanto per te che la tua vita l'hai già fatta, quanto per i tuoi figli e i tuoi nipoti, perché non debbano vivere quello che tu hai vissuto. 




giovedì 8 agosto 2013

Libano - ...e a volte il tempo si ferma

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Eccoci qui!!
Davanti a questa pagina bianca, è difficile mettere in ordine l’enorme quantità di emozioni che questi due giorni ci hanno portato.
Qui allo Shelter il tempo sembra non passare mai, se non fosse per il suono della campana che annuncia l’arrivo delle “succulente” piadine.
Ci capita spesso di riflettere proprio sul senso del tempo qui.
Tutti sono in attesa…in attesa del cibo, in attesa delle attività, o, più importante, in attesa dei documenti, di capire dove sarà il loro futuro e di riabbracciare i loro figli in patria.

In Libano infatti, se non hai i documenti, vieni messo in prigione, motivo per cui i datori di lavoro si premurano di sequestrare il passaporto di queste donne al loro arrivo. Il passato e il futuro delle storie che ci sentiamo raccontare assumono sfumature spesso difficili da capire. I ricordi delle loro esperienze qui in Libano, da una partenza alla ricerca di fortuna e con la speranza di guadagni da mandare in patria allo scontro con realtà di sfruttamento e violenza, emergono  in modo molto spontaneo, contrastando con l’apparente serenità con cui hanno saputo accoglierci, la semplicità con cui sanno regalarci sorrisi davanti alle parole più banali e ai gesti più comuni.

Il loro è un passato che sicuramente le ha duramente cambiate, profondamente segnate, a volte anche fisicamente, ma che spesso non ha tolto loro la speranza o la forza e il coraggio di guardare avanti. Molte sono le giovani donne con  progetti che ancora suonano raggiungibili, con desideri che le rendono fiduciose e determinate, con la fermezza di ritrovare la forza in nome del loro essere donne e madri. Insomma, qui il passato si mischia al futuro in modo molto strano, condizionando e al tempo stesso arricchendolo della giusta sfumatura di determinazione nell’attesa di quel che verrà.  Attesa…

Riempire il tempo è quindi il giusto modo per avvicinare il passato da dimenticare al futuro da costruire.
Oggi il tempo è volato costruendo delle deliziose maschere alla Veneziana con cartoncini, perline, gessetti e strass. I talenti più nascosti hanno prodotto oggetti originali di cui ogni donna andava molto orgogliosa, indossandoli per lo shelter come se si trovassero improvvisamente in un raffinato salone alla moda.
Attesa…



Eppure le cose cambiano fuori dal centro di Rayfoun, in modo anche incontrollabile e determinante. Poco lontano, la guerra in Siria spinge sempre più civili a varcare il confine di quel paese che fine a poco tempo fa era l’ "occupato". Lunedì abbiamo avuto modo di collaborare alla distribuzione di aiuti a 25 famiglie di rifugiati siriani, ospitati in un convento qui vicino. L'incontro è stato molto commuovente, tristemente toccante pensare alla loro fuga, alla loro necessità di chiedere aiuto in terra straniera, immaginare quanto possa essere stato straziante abbandonare case, persone care, interrompere le proprie vite. Questa situazione estrema non cancellava però la fierezza, che ancora si leggeva nei loro volti, e l’orgoglio che guidava i loro gesti. La responsabile del centro, Nancy, ci ha comunicato che queste non sono le uniche famiglie che hanno trovato ospitalità presso la comunità locale e che presto ne incontreremo altre. La possibilità di poter contribuire anche in questo piccolo modo ci rende molto fiere, e ci spinge ad agire affinché la sensibilità nei confronti di questa emergenza quasi invisibile possa diventare l’emergenza di tutti.


martedì 6 agosto 2013

Libano - Siamo arrivati!!

3 commenti:
Marhaba, shebab!!! (ciao, uangliuncèlli!) Contro ogni previsione, siamo arrivate in Libano!

L’avventura è iniziata in aeroporto quando la compagnia ci ha detto che l'eventuale rimpatrio sarebbe stato a nostro spese..ma l’apice è stato il vibrare del bagaglio a mano di Denise, che non ha ancora capito che il silk epil potrebbe essere un’eventuale arma e deve stare nella valigia!

Tra un incontro interessante e vari scali siamo arrivate a Beirut, accolte da un caldo soffocante, di quelli che ti si appiccicano alla pelle e non ti fanno respirare. Ci hanno colpito subito gli uomini armati che si trovavano quasi ovunque ma i colori, gli  odori, gli sguardi, ci sembravano moltiplicati all’ennesima potenza.

Il paese che ci ospita è Rayfoun, a 40km dalla capitale. È un posto abbastanza tranquillo, dove alloggiano circa un’ottantina di donne, alcune con i rispettivi bambini. In questi due giorni di  observation siamo state colpite dal loro entusiasmo anche rispetto alle proposte più semplici; questo ci ha incoraggiate a essere sempre più cariche e disponibili. Ognuna di noi ha avuto modo di ascoltare storie, di far volare scimmiette rampicanti, di improvvisarsi ballerina e di mettersi in gioco con 3 lingue diverse : francese,inglese e arabo.

Le donne vengono da tutto il mondo: Iraq, Etiopia, Filippine, Sri Lanka, Bangladesh, Kenya, Togo ecc…
Ci siamo rese conto che L’Ignoranza Non Guasta Un’Avventura (LINGUA è il nostro acrostico di oggi!)