Visualizzazione post con etichetta Davide O. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Davide O. Mostra tutti i post

martedì 10 febbraio 2015

Bolivia: Tornare a casa

1 commento:




La valle di Pocona vista dall'alto del cimitero incaico.
Una cholita che porta al pascolo le vacche
Sono tante le cose che avrei voluto scrivere, avrei voluto raccontare del narcotraffico in Bolivia, avrei voluto narrare le carceri di Cochabamba, avrei voluto dipingere a parole la festa di Urkupiña e le sue contraddizioni e forse qualcos’altro ancora e non è detto che non giorno non si torni a scrivere sul blog di MICASCEMI, ma per il momento questo è il post di fine servizio.
Un anno è lunghissimo, quando sta per incominciare non si vede la fine e quando lo si vede dalla fine, quando si chiude la casa e si imballano gli ultimi interminabili oggetti di casa (e chi ha traslocato almeno una volta nella vita sa di cosa sto parlando), ci si rende conto che è stato un anno lunghissimo, che si sono fatte molte cose, che si è vissuto un sacco di esperienze. Ma mentre lo si vive, mentre si è dentro al momento, il tempo scappa via dalle mani, è difficile trovare un istante per fermarsi a riflettere, è difficile fermare momenti, immagini, emozioni e volti semplicemente nella memoria.
La valle di Pocona vista dall'alto del cimitero incaico
Per questo ho sentito il bisogno di comprare una macchina fotografica, per necessità narrative, ma anche per avere delle immagini sulle quali riflettere, dei ricordi miei, dei momenti che ho vissuto e che sono riuscito a fermare in uno scatto. Vedere le foto mi aiuta a rendermi conto del tempo passato in Bolivia, delle cose fatte e vissute.
Hermana Cherubina che porta la comunione agli infermi di Vacas
Ma non è stato un anno facile, non è stato un anno che si può riassumere semplicemente con la parola: “bello” o, passatemi il francesismo, “figo”. Quando le persone, amici, conoscenti, famigliari, compagni di squadra ti chiedono come è andata, e ti dicono sorridendo: “chissà che bello, chissà che figata”, beh viene da sorridere difronte a queste affermazioni e non si sa mai cosa rispondere, ma soprattutto come rispondere. Si è stato un bell’anno, è stato un anno utile per tanti motivi ed è un’esperienza che se si pensa di essere pronti raccomanderei, ma ciò non toglie che è stato un anno difficile, un anno dove ho vissuto, dove tutti noi che eravamo in servizio civile abbiamo vissuto, con tutte le cose belle, le difficoltà e le contraddizioni della vita, abbiamo vissuto all’estero in mondi che non erano i nostri, ci siamo dovuti adattare e cambiare qualcosa in noi.
Adesso sono di nuovo a casa, il rientro è la cosa più naturale del mondo, una volta tornati è come non essere mai partiti. Tante delle piccole cose che facevano la nostra quotidianità tornano con una facilità incredibile, eppure per alcune di esse è come essere lontani anni luce. Le cose che straniscono sono molte, tra le quali rientra anche la sensazione che qui, a casa, il tempo si sia congelato aspettandoti, eppure si ha camminato, ho fatto un anno via, in un mondo dove le cose cambiavano da un giorno all’altro e come è possibile che qui il tempo si sia fermato? Eppure sai che il tempo anche a casa è passato, mio fratello ha fatto un altro anno all’università e poco ci manca che si laurei con me, alcuni amici si sono sposati e altri hanno avuto dei figli, altri ancora hanno finito l’università e hanno iniziato a lavorare. E allora perché sembra che non sia successo niente? Da una parte è una sensazione rassicurante, si torna a casa e si torna ad avere i propri punti di riferimento, si torna a poter levare lo sguardo e a poter orientarsi con il campanile o per chi vive in Milano con la “Madonnina”. D’altra parte non si può negare che questa rassicurante sensazione un poco spaventi, può sembrare una negazione dell’anno appena vissuto, come una calda coperta che ti invita a rimetterti sotto di essa e di abbandonarti al suo morbido tepore.
Volti di campesinos
Questo tepore è confortante e allo stesso tempo soffocante, si ha come la sensazione che c’è qualcosa di più che casa propria, che la quotidiana routine che sempre si ha vissuto. Eppure, eppure bisogna rientrare, non si può vivere sempre lontani, non ci si può isolare. Dicendo che bisogna rientrare intendo che bisogna rientrare anche con la testa, non solo fisicamente. Ritengo di essere fortunato da avere l’università ancora da finire, ciò ad un certo punto mi ha come fatto preparare al rientro a casa, alla domanda: “sei dispiaciuto di andartene?” la risposta era: “no è il momento”. Bisogna imparare a vivere con gioia ogni giorno, a vivere con felicità le piccole cose di tutti i giorni e a rendere ogni attimo, ogni momento speciale, senza aspettare le grandi occasioni, ma creandole dentro ogni giorno, cercandole dentro quello che ci circonda. A tutti quelli che pensano di essere troppo grandi o troppo fighi per leggere storielle per bambini, io consiglio ugualmente di leggere “Lo Hobbit”, che si chiama anche: “Andata e ritorno”. Tolkien, volendo narrare una favola per bambini alla fine ha raccontato la storia di una vita, mai titolo fu più azzeccato. Ogni viaggio deve avere un inizio e una fine, bisogna sapere quando è il momento di partire, ma così anche bisogna sapere quando è il momento di tornare, di chiudere un capitolo, così da poterne aprire un altro e iniziare un altro viaggio, iniziare una nuova strada.
La vita è fatta a tappe e tutte queste tappe penso che debbano essere collegate da un filo conduttore, bisogna avere un mappa, sul quale muoversi, improvvisare cambiare direzione, tornare indietro eventualmente. La vita è fatta di rituali e bisogna saperli sfruttare, perché aiutano e vanno presi con la giusta importanza leggera.
Boh i pensieri sono tanti e ci vuole tempo per riordinarli, è esattamente un po’ come aver fatto un trasloco, i libri si mettono via nelle scatole, ma una volta nella nuova casa, o una volta tornati (come è il mio caso, dalla Bolivia mi sono portato via 46kg di libri) bisogna rimetterli sulla libreria in maniera che siano fruibili. O è come con le foto di un viaggio, mentre si è in viaggio si scatta finché si ha batteria, ma a fine giornata o una volta tornati a casa si collega la macchina fotografica al computer, si scaricano le foto e le si riordina.
Bene adesso la smetto di tediare, torno a mettere a posto le mie foto e a continuare a percorrere la mia di strada. Comunque sulla strada non si sa mai lo que puede pasar e io penso sempre che un hasta luego es mejor que un adios.

Viene il giorno in cui chiedi a te stesso dove voli
viene il tempo in cui ti guardi e i tuoi sogni son caduti
E' il momento di rischiare di decidere da soli
non fermarsi e lottare per non essere abbattuti
RIT.
Spingerò i miei passi sulla strada
passerò tra i rovi e l'erba alta
la gioia m'ha trovato la pienezza
non starò più seduto ad aspettare

Sulle spalle una mano che si spinge a trattenere
vuol fermare l'avventura ma ritorno a camminare
ho incontrato troppa gente che mi ha dato senza avere
voglio dare queste braccia non c'è molto da aspettare.

RIT.
E' parola come vento 
tra le porte quella stretta

gli uni gli altri nell'amore
non avere che un canto
questo tempo non ha niente

da offrire a chi aspetta
prende tutto prende dentro
sai fin dove non sai quanto.

RIT.
Non è strada di chi parte
e già vuole arrivare
non la strada dei sicuri
dei sicuri di riuscire
non è fatta per chi è fermo 
per chi non vuol cambiare
E' la strada di chi parte 
ed arriva per partire.



lunedì 3 novembre 2014

Bolivia: Cantieri Bolivia 2014: "Pellegrini in Cammino"; Il Film

Nessun commento:
Finalmente arriva sul grande schermo, dopo lunghissimi mesi di attesa, dopo una lunga preparazione, dopo infiniti ripensamenti, mazzette passate alla censura, il film che mai avreste voluto vedere!
Tutto quello che avreste sempre voluto sapere ma non avete mai avuto il coraggio di chiedere! Tutti i retroscena, le verità nascoste, tutto quello che han cercato di nascondervi, ahora finalmente è disponibile, per tutti!
VIETATO AI MINORI DI ANNI 1





PROSSIMAMENTE: "Si puoi farlo! Si con Bob!".
NON PERDETEVI il prossimo capolavoro della casa produttrice: Av. America; ed Torres America!

lunedì 25 agosto 2014

Bolivia: Gratuitamente avete ricevuto...

2 commenti:

Lavoriamo un sacco sul donare gratuitamente, su quanto sia bello donare e su quanto questo sia arricchente, ma siamo capaci di ricevere? Siamo veramente capaci di ricevere gratuitamente? O il ricevere ci è scomodo e ci infastidisce? Oppure nella nostra infinita arroganza pensiamo di non aver mai bisogno di ricevere e che abbiamo solo da donare?

Il ricevere è molto scomodo, ci fa sentire piccoli, ci da l’impressione di dipendere dalla persona che ci ha fatto il dono, ci fa sentire in debito nei suoi confronti e non ci piace sentirci in debito, ci fa vivere con l’ansia di ricambiare, di liberarci. Il debito, nella nostra testa, ci lega all’altra persona e per noi “occidentali”, per la nostra cultura, il sentirci legati a qualcuno, che magari non conosciamo bene o che non ci sta troppo simpatico, non ci piace. O peggio, il dono potrebbe venire da una persona che noi riteniamo “inferiore”, dalla quale noi crediamo di non avere nulla da ricevere. Scusate il politicamente scorretto, ma nelle nostre teste esiste il concetto di “inferiore”, anche se facciamo di tutto per mascherarlo, anche se abbiamo inventato mille modi e mille altre parole per camuffarlo e anche se grazie alla ragione stiamo facendo di tutto per dirci che siamo tutti uguali, nella nostra testa, nel nostro subconscio che deriva dalla nostra parte più profonda, dove ancora si annidano i nostri più antichi e biechi istinti animali, esiste il concetto di inferiorità. Come “inferiore” ora identifichiamo: i bambini, gli anziani, gli “sfigati”, le persone con handicap fisici e/o mentali, i poveri, i bisognosi…insomma le persone che stanno ai margini della società.

Donare a queste categorie ci fa sentire grandi, importanti, buoni, ci fa sentire dei super eroi e ci da prestigio a livello sociale. Ci piace farci belli dicendo: “Sono andato in missione in… (aggiungete voi il nome del paese più povero e più sfigato che vi venga in mente), e ho salvato vite, ho costruito scuole, ho costruito ospedali gratuiti per tutti, ho lottato contro malattie impossibili… Quando raccontiamo queste cose le ragazze o i ragazzi (a seconda di chi parla e di chi ascolta) sospirano, le nonne ti fanno lo sganascino sulle guance e dicono: “và che bravo fiö” (chi ancora parla o scrive queste antiche lingue nordiche che sono i dialetti del nord Italia mi scuserà per come l’ho scritto)i sindaci ci premiano con chiavi della città e riconoscimenti che andranno su di una mensola a prendere polvere, il nostro ego si allarga a dismisura e a volte entriamo in competizione per chi dona di più: “io ho donato 100!”; “io 1000!”; “io DI PIU’ !”. Così donando, a volte, calpestiamo la persona che vorremmo aiutare. Non lo facciamo più per lei, ma lo facciamo per noi, solo ed esclusivamente per noi, e manchiamo il nostro obbiettivo.

Allora io dico: impariamo a ricevere, a ricevere gratuitamente, a fare tesoro di quello che riceviamo. Capiamo che chi ci dona qualcosa lo sta facendo per la semplice gioia di donare, che non si aspetta nulla in cambio, a volte neanche la nostra riconoscenza. Impariamo a lasciare da parte la nostra fretta di ricambiare, il momento in cui l’altra persona avrà bisogno di noi si presenterà e semplicemente, per coglierlo, basterà stare con gli occhi e il cuore aperti.

Perché questa riflessione? Perché il week end del 16 y del 17 Agosto sono successe due cose. La prima è la camminata della notte di Urkupiña, durante la quale Caritas Cochabamba ne approfitta per raccogliere monete per finanziare una sua campagna, quest’anno a favore della lotta alla tratta e al traffico di persone. La seconda è stata domenica la visita ad una comunità rurale, dove siamo stati invitati in casa di una famiglia.

Venerdì notte, da mezzanotte alle sei, noi volontari di Caritas Ambrosiana siamo stati coinvolti nella raccolta di monete organizzata da Caritas Cochabamba. Una delle cose più interessanti fu vedere come la gente partecipava alla raccolta. C’erano persone che ti donavano la moneta solo per far si che tu li lasciassi proseguire il cammino, altri che lo facevano per abitudine, altri ancora perché lo facevano tutti. Poi c’erano quelli che lo facevano perché presi dal momento, quelli che lo facevano per devozione alla Madonna quelli che lo facevano perché ti ascoltavano e capivano l’importanza del tema della campagna. A donare partecipavano tutti i tipi di persone, ricchi e poveri; giovani e vecchi. Di fronte a persone, che ai nostri occhi europei non hanno un centesimo da donare, che lasciano giù non una, ma magari quattro o cinque offerte, ci viene in mente la domanda perché? Beh al di la della convinzione di alcuni, dello spirito caritativo di altri e delle altre mille motivazioni che ho detto prima ce ne è una quasi più profonda: “io dono perché ho una dignità. Sarò povero, non guadagnerò molto, farò fatica ad arrivare a fine mese però comprendo quello che stai facendo, so che è una cosa buona e voglio contribuire anch’io, con quel poco che ho, donandoti magari quello che non posso permettermi di donarti, però siccome ho una dignità e mi guadagno da vivere voglio partecipare anch’io”.

Seguendo questo filo conduttore arriviamo al secondo episodio. Domenica, invitati (noi e il gruppo del centro missionario di Bergamo) in casa di David e della sua famiglia, ci è stato offerto da mangiare. Questo perché eravamo ospiti e qui l’ospitalità è ancora sacra. In Bolivia ci sono tanti problemi, si ha ancora molto da lavorare sulla gratuità, però l’ospitalità rimane sacra e all’ospite si offre il meglio che si ha, senza fare calcoli (come facciamo noi) di quanto questa visita ci viene a costare o che magari se offro a lui poi non rimane più niente in casa. Così di fronte al catino di mais (mote) e di uova che ci veniva offerta, che sicuramente era più di quello che si sarebbero potuti permettere, noi, europei ci siamo sentiti a disagio e abbiamo sentito il bisogno di placare le nostre coscienze. Di fronte a tanta generosità, di fronte all’orgoglio di David che ci stava mostrando casa sua, la sua famiglia e il suo stile di vita. Di fronte ad un “povero” che con orgoglio ci offre più di quello che può, noi ci siamo sentiti a disagio. Di fronte al nostro disagio abbiamo reagito nella peggiore delle maniere, dando un valore in denaro a quello che ci veniva offerto e lasciandoli quindi un’offerta en plata. Il valore materiale dell’offerta superava di molto il valore materiale di quello che ci veniva offerto e sicuramente quei soldi faranno comodo a questa famiglia; ma ciò non toglie che li abbiamo offesi, abbiamo offeso la loro dignità, anche se abbiamo spiegato che non lo facevamo per fare l’elemosina, alla fine è quello che abbiamo fatto.

Non siamo stati capaci di ricevere, abbiamo pensato solo a noi, solo al nostro disagio di europei, non abbiamo saputo vedere l’orgoglio che queste persone avevano nel donare a noi e nel mostrarci casa loro. Abbiamo solo saputo pensare che siamo noi quelli che sono qui per salvare, che non siamo qui per ricevere. Così abbiamo offeso la dignità di queste persone e il disappunto e l’imbarazzo sulla faccia di David era tangibile.

E’ incredibile la nostra arroganza e di come salti fuori anche quando cerchiamo di fare del bene (il gesto di lasciare l’offerta non è stata fatta in cattiva fede ma semplicemente senza considerare l’altro).

Impariamo che il donare e il ricevere sono due atti di amore, che entrambi sono gratuiti e che non esiste una contropartita per un gesto del genere.

Vorrei chiudere con un pensiero di Hermana Cherubina: noi non salviamo nessuno, non siamo qui per salvare qualcuno, non hanno bisogno di essere salvati, ma siamo qui per salvare noi stessi.






lunedì 28 luglio 2014

Bolivia: Io non dimentico, Je n'oublie pas, Yo no olvido...

1 commento:



Io non dimentico, Je n’oublie pas,  Yo no olvido…

O per lo meno alcune cose…

Viviamo in una società e in un tempo storico dove siamo bravissimi a non dimenticarci dei morti, ogni giorno ci ricordiamo di un morto differente, o alcune volte di due morti alla volta (San Pietro e Paolo, Santa Gesualda, Santa Barbara e così via discorrendo). Ma la domanda che mi sorge è: siamo capaci di ricordarci dei vivi?

Credo che siamo abbastanza bravi a dimenticarci dei vivi, degli amici, dei parenti, di chi lavora per noi, per la nostra sicurezza... E ce ne dimentichiamo finché queste persone non iniziano a soffrire, a stare male o finché non muore qualcuno (e allora rientriamo nel discorso che ci ricordiamo benissimo dei morti). Viviamo in una società che si ricorda dei morti ma che ha una paura dannata della morte, siamo incapaci di accettarla come una cosa naturale della vita e per questo ne scappiamo. Nella nostra fuga siamo tanto frenetici che ci dimentichiamo di celebrare la vita come si deve, cerchiamo di stringere tutto, così come con la sabbia, più stringiamo più le cose belle della vita ci scappano dalle mani e noi ci avviciniamo inevitabilmente al momento tanto temuto senza aver assaporato niente e senza aver lasciato la nostra impronta sulla terra, e così ce ne andiamo come nella nostra più profonda paura, come cenere al vento… ma adesso sto divagando, sto lasciando il mio pensiero libero e mi sto allontanando dall’obbiettivo del mio post.

Ci ricordiamo dei grandi personaggi del passato, Giulio Cesare, Napoleone, poeti, eroi, artisti che guarda caso sono tutti morti e sono diventati famosi o eroi dopo la morte…sarà che bisogna morire per essere ricordati?

Il fatto è che i giorni nostri sono pieni di silenziosi “eroi”, persone normali, che lottano per qualcosa e lo fanno in silenzio nella solitudine di tutti i giorni. Fate attenzione a questa parola: solitudine. Ebbene si, ci sono persone che nonostante ricoprano cariche in cui sono sempre in mezzo alla gente, sono incredibilmente sole. In particolare mi sto riferendo a chi lavora nel sociale (includo i preti in questa categoria)e a chi lavora in ambito umanitario.

Lavorare in un paese straniero, culturalmente differente, non è facile, a maggior ragione non è facile se il tempo per il quale bisogna fermarsi nel paese non è determinato, non si vede un orizzonte al proprio soggiorno e si cerca di costruirsi una vita, una propria normalità. Aggiungiamo che già lavorare in situazioni critiche (emergenze sociali, catastrofi naturali, guerre, primo soccorso) sul proprio suolo nazionale non è facile, a maggior ragione non lo è lavorando fuori dal proprio territorio. Lavorare all’estero, in queste situazioni, non comporta solo le oramai scontate difficoltà linguistiche, ma comporta anche una “solitudine”, dovuta a differenze culturali, schemi mentali differenti. A volte si vivono esperienze fortissime, delle quali non si può parlare con nessuno, o perché non capirebbe o perché non gli compete sapere quello che è successo. Per porre rimedio a questa solitudine entrerebbero in gioco tutta la cerchia di relazioni che ci si è costruiti prima di partire, che sarebbero estranee al contesto, con le quali si potrebbe parlare liberamente di quello che succede. Il fatto è che la gente (amici, familiari, conoscenti, datori di lavoro), ha delle aspettative altissime nei confronti di queste persone. Pensa che sia una specie di super uomo, che non necessiti di niente. A volte queste sensazioni sono dovute da alcuni comportamenti dell’operatore. Come per esempio: l’operatore alla generica domanda: “beh! Che racconti di bello? Che hai fatto?” risponde in maniera vaga. La risposta vaga non è dovuta a non voglia di raccontare, è dovuta a difficoltà nel raccontare, al bisogno di tempo per raccontare, oppure ci sono delle cose che non si riescono a raccontare perché sarebbero comprensibili solo a chi le ha vissute. Altro comportamento è quello di non farsi sentire. Questo succede per problemi oggettivi il più delle volte, fusi orari differenti, orari di lavoro differenti, perché si è consci che la vita a “casa” va avanti anche senza di noi, oppure anche perché il ricordo causa nostalgia, e quindi per vivere meglio la realtà in cui si è inseriti si cerca di tagliare un po’ i ponti.

La riflessione mi viene dopo gli incontri che ho fatto qui in Bolivia, di persone molte in gamba, molto semplici, ma che per le loro competenze li vengono affidati incarichi di responsabilità per i quali non sono mai fisicamente soli. Ma la solitudine non si misura solo con la quantità di persone che ti circondano, si misura anche con il numero di persone che sono in grado di entrare in relazione con te. In particolar modo mi sono dato conto che in Bolivia il mondo relazionale e affettivo è molto differente dal mondo relazionale e affettivo al quale siamo abituati, ciò fa si che sia difficile che ci sia qualcuno in grado di capirti veramente, con il quale potersi confidare liberamente, che sia in grado di capire le tue difficoltà e quello in cui lotti. Qui viene a mancare quella cerchia di relazioni fuori dal lavoro delle quali stavo parlando prima. Inoltre a stimolare la mia riflessione è che qui in Bolivia si è pieni di “giornate”, El dia del Niño, El dia del Peatón, El dia de la Mamà (che vabbè abbiamo anche noi), El dia de la Amistad, e visto il grado di ingiustizie, il basso grado di coesione sociale che affliggono questo paese, sembra che abbiano bisogno di una giornata specifica per ricordarsi dei bambini, per ricordarsi degli amici e delle persone che care.

Per favore non arriviamo anche noi a questi livelli.

La verità è che per quanto uno sia forte, una buona parte della sua forza viene dalle persone che gli stanno attorno e tutti abbiamo dei momenti di sconforto o di debolezza in cui abbiamo bisogno di sentire vicino le persone care.

Viviamo in un mondo dove sentirsi è facilissimo, basta un click per restare connessi. Siamo pieni di “amici” sui social network, siamo sempre connessi, ma quando ci prendiamo del tempo per parlare veramente? Per ascoltare e non solo sentire con le orecchie come sta l’altra persona?

Non dimentichiamoci delle persone importanti, anche se sono lontane, prendiamoci un attimo per scrivere, per raccontarci e a volte per vederci, nel silenzio a volte ci sono molti più significati che in mille parole.

Per ricordarci dei vivi non aspettiamo che il Papa o la ONG o l’ONU di turno indicano la Giornata Mondiale di Qualcosa. La gente vive tutti i giorni non solo una giornata.
 

P.S. Per quanto mi piacerebbe, i disegni non sono miei, ma mi sono avvalso delle capacità grafiche di Banksy.
 
 

martedì 1 luglio 2014

Bolivia: De Ida y De Vuelta

Nessun commento:

Hace mucho tiempo…

Che non sto scrivendo, ed è così perché sono successe molte cose…

Vorrei iniziare dal nostro rientro in Italia e dal viaggio meraviglioso fatto in notturna su uno dei pullman boliviani, attraverso paesaggi lunari, resi ancora più meravigliosi dai giochi di luce creati dalla morbida illuminazione della luna, che si riflette sulla terra arida e bianca e all’improvviso viene oscurata dal passare sotto a boschi di altissimi eucalipti. Poi c’è l’arrivo a La Paz. La Paz è infossata in una valle, sembra costruita li per errore e che stia attaccata agli erti pendii delle Ande non si sa per quale miracolo. E’ tutta in pendenza e come Cochabamba, da l’impressione di un immenso formicaio che sta aspettando le prime luci dell’alba per despertarse e quando si sveglia, rivela il suo carattere di metropoli. C’è gente di tutte le nazionalità a La Paz, e probabilmente, come ai tempi della conquista spagnola è rimasta uno dei crocevia del sud America. Si può incontrare di tutto, dai campesinos che ruminano in continuazione la loro immancabile foglia di coca, ai super uomini d’affari in giacca e cravatta; dai disperati che senza una meta vagano per il mondo, ai faccendieri di tutto il mondo che rinchiusi in lussuosi uffici si spartiscono le enormi ricchezze di questa terra. Però la nostra tappa a La Paz si chiude in fretta.

Italia, la formazione: un mordi e fuggi, o usando la terminologia del film “Fight Club”, una formazione “porzione singola”. E’ servita, per carità, però è stato tutto molto rapido.

Poi di nuovo in Bolivia, e come da tradizione noi boliviani non riusciamo a star tranquilli, così atterriamo a Cochabamba, il tempo di lasciare giù le valigie, mettere un po’ a posto la casa, mangiare qualcosa e poi di nuovo in viaggio alla volta di Vacas, per la celebrazione del capodanno Aymara: Inti Raymi.

Così di nuovo con la testa tra le nuvole, a pochi chilometri da Cochabamba, che è dove dobbiamo fare servizio, eppure così lontani dalla realtà di quella grossa e caotica città. E via a viaggiare con la testa, a sentirsi come alcuni dei miei personaggi preferiti, come i grandi viaggiatori, mai sazi di conoscere e mai comodi in un posto. Come il famoso Ulisse o il meno conosciuto Corto Maltese, che mai si sentono quieti, mossi da una grande irrequietezza viaggiano, non per viaggiare, ma per vivere per esaudire un loro più profondo desiderio e non per fare del volgare turismo. Ed è questa voglia che ti apre alla gente, all’incontro, e incontrando ci si rende conto di quanto poco si conosca, di come il proprio mondo sia piccolo.

E così, riempiendosi di stupore, a volte ci si rende conto di quello che la nostra fretta di vivere ci fa dimenticare, che la felicità, a volte sta proprio nella semplicità, che il più delle volte è sotto il nostro naso, ma noi siamo così concentrati a guardare lontano, a mirare con il cannocchiale che le cose belle, che ci stanno vicino, ci scappano.










sabato 3 maggio 2014

Bolivia: Cobija terra di frontiera

Nessun commento:

Per pasqua abbiamo deciso di andare a trovare Eugenio Coter, ora vescovo di Pando e precedentemente ex-direttore di Caritas Cochabamba. L’avevamo conosciuto in occasione della conferenza episcopale boliviana che si era tenuta qui a Cochabamba, così alla prima occasione lo abbiamo raggiunto.

Il pando è la regione più a nord della Bolivia, la più lontana dalla civiltà e la più povera. Confina con Perù e Brasile ed è completamente immersa nella foresta amazzonica, la quale si estende a perdita d’occhio per chilometri e chilometri in un afoso piattume. Ad interromperla ci sono solo gli sconfinati fiumi, come il Madre de Dios e gli immensi pascoli. Un tempo l’economia principale del Pando erano gli alberi da gomma e l’allevamento, ora è ben altro.

Dall’aereo, Cobija quasi non si vede, si scorge solo qualche tetto di lamiera e paglia che sbuca dagli alberi. L’aeroporto quasi non esiste, c’è soltanto una pista da cui gli aerei decollano e atterrano, la struttura è una capannona circolare in cemento e paglia con un gate per chi arriva e un gate per chi parte. A garantire i collegamenti con la città ci sono solo un paio di voli di linea,neanche tutti i giorni e gli aereo taxi, piccoli aerei da turismo. Via terra c’è solo una  grande strada che la collega con il resto del paese, ma questa strada, per metà dell'anno non è percorribile a causa delle forti piogge e per l'altra metà a causa dei bloqueos organizzati dai sindacati.

Per le strade della città, la cui maggioranza è in terra battuta, si muove qualche macchina, ma soprattutto moto e i famosissimi moto taxi. A vederla di giorno sembra una città fantasma, il forte caldo afoso tiene al chiuso e all’ombra la maggior parte della gente, ma non è che alla sera ci sia molto più movimento.

Cobija, capoluogo del Pando, voluta li, nell’angolo più a nord e remoto della Bolivia da un gruppo di famiglie di commercianti, che vedevano negli scambi con il Brasile il futuro per l’economia locale, ma soprattutto il futuro della propria economia. Per questo motivo Cobija ora è porto franco, non si pagano le tasse sulle importazioni di certi prodotti e i controlli alla frontiera sono…beh…diciamo che quasi non ci sono, noi siamo entrati e usciti dal Brasile senza che nessuno neanche ci guardasse.

Cobija è semi-isolata dal mondo, e la posizione che doveva garantirle floridi commerci ora la rende buona per un solo tipo di commercio. Da li infatti passa la ruta nacional 18, che diventa la ruta nacional 13, e che va dal confine con il Perù al confine con il Brasile, passando appunto da Cobija, dove non fanno controlli…una vera pacchia per i narcos… Parlando con gli abitanti, se si ha pazienza e se si è bravi nell’ascoltare, non è assolutamente raro sentire racconti di vecchi compagni di scuola che sono scomparsi o che vivono consumati dalla droga.

Gli abitanti del Pando sono diversi da quelli di Cochabamba. Le differenze sono molto marcate. Si parte dal fatto che non si sopportano vicendevolmente, i pandini chiamano i cochalos collas e i cochabambini chiamano i pandini cambas. Entrambe le definizioni si riferiscono alla differente provenienza territoriale e culturale e non hanno propriamente il tono di un complimento. Si prosegue con le differenze fisiche, i tratti del viso sono diversissimi a causa della mescolanza con i brasiliani. Sempre per lo stesso motivo aumenta la taglia, la gente è più alta e più slanciata. Infine le differenze culturali. Nel pando,a primo impatto,sembrano più aperti rispetto alle zone andine, fanno molta più caciara e ti danno l’impressione di accoglierti più favorevolmente. Parlano, hanno bisogno di parlare, ma non è facile che ti dicano la verità, non è facile che ti dicano quello che sentono veramente, e non è facile che ti parlino dei problemi della loro terra; gli viene molto più facile dirti che il Pando è più bello della zona andina, quanto loro siano più simpatici e di come tutto stia cambiando in fretta in questi anni. Però basta fare un po’ di attenzione per accorgersi di quello che non va. I silenzi o le cose non dette non sono frutto di mancanza di consapevolezza, ma bensì di una quasi rassegnazione, di non voler pensare sempre ai problemi, di pensare anche ad altro. Senza contare l’ancestrale diffidenza verso i gringos,che per troppi anni sono venuti nella loro terra per imbrogliarli o per portargliela via.
Le cose le si vengono a sapere soprattutto da chi lavora a stretto contatto con la gente e gode di una maggior consapevolezza, come i parroci, i preti, i religiosi ma non solo, c’è anche qualche difensore del pueblo,qualche volontario ( anche boliviani). Così ti raccontano che si trovano carceri dove il 60% degli ospiti è dentro per narcotraffico, il 30% per violenza su donne o minori, il 10% per reati comuni e dove si può incontrare una donna che si è presa la minima per aver rubato un cellulare e che probabilmente uscirà dopo a qualche narcos o qualche ricco amico di qualche politico, che chiaramente hanno i soldi per accorciarsi la pena… oppure, ti raccontano di come lo scandalo del momento sia stato trovare nella migliore scuola della città ragazzini dediti allo spaccio e al consumo di droga.

La condizione generale è di marcata povertà, le case sono di legno, che in quella zona abbonda, con i tetti in paglia o in lamiera. La stragrande maggioranza è sprovvista di acqua e servizi igienici, i vetri alle finestre non sono necessari a causa del clima, ma molte ventanas sono sprovviste di zanzariere, esponendo chi ci abita alle punture dei vari insetti, alcuni dei quali portatori della dengue.
La vista delle case, a volte delle vere e proprie ville, di chi ha soldi, perché narcotrafficante o governativo, spingono molti a migrare, a cercare fortuna da altre parti. Ma uscire dal Pando non è possibile per tutti. Il passaggio aereo è molto caro e addirittura anche le quattro ruote, per alcuni, sono proibitive. Inoltre non tutti se la sentono di abbandonare il luogo dove sono nati, dove sono cresciuti e dove nel bene o nel male sanno di godere dell’appoggio di una famiglia o di amici, o se non hanno né amici né famiglia, almeno sanno di conoscere l'ambiente, per andare verso un futuro incerto. Così in tanti rimangono e finiscono delle trame del narcotraffico, anche da giovanissimi, o si guadagnano da vivere con piccoli espedienti, come il mercado negro, o i niños che popolano il piccolo aeroporto, che con aria irreverente e con tono di sfida, per qualche bolivianos si offrono di portare bagagli pesantissimi fino al taxi.

La disgregazione della famiglia e della società, il narcotraffico e la violenza affliggono il Pando, come tutta la Bolivia, chi lo sa cogliere, per chi sa osservare con pazienza, perfino in questa terra di pescatori e di gente legata alla terra, si può trovare un messaggio di speranza. Lo si trova in tutti gli operatori di pace che dedicano la loro vita al prossimo, come padre Eugenio, come i tanti religiosi e volontari, sia stranieri che boliviani o in tutte le persone comuni che sono disposte ad aiutarti come possono, indicandoti la strada, spiegandoti come funzionano i mezzi locali o semplicemente rivolgendoti la parola con un sorriso e facendoti sentire un po' meno straniero.







lunedì 7 aprile 2014

Bolivia: Micro, trufi e ogni qual genere di mezzo per deambulare

Nessun commento:

Questo post nasce per non fare sentire i nostri colleghi del libano (la signorina Anna Pulici e il signor Stefano Fogliata) soli nelle loro avventure stradali.

Io pensavo di andarmene dall’Italia e di non dovermi più preoccupare del dovere prendere la metro, pensavo che qui non fossero necessari i mezzi pubblici e che nel caso, prenderli sarebbe stata una passeggiata. Ah quale ingenuo fui, non potevo immaginare che prendere dei mezzi di trasporto con nomignoli dolci e buffi potesse rivelarsi una vera e propria battaglia. Qui nomi come: Micro, trufi, taxi trufi, taxi e moto taxi al solo nominarli fanno soffrire di claustrofobia chi non ne ha mai sofferto, invocano i peggiori incubi di qualsiasi pendolare e fanno desiderare che non sia mai stato inventato il motore a scoppio...
Micro
  •   il Micro è una specie di pullmino da una ventina di posti, generalmente motore americano e un quantitativo di anni che al solo vederli farebbero morire d’infarto qualsiasi ispettore della motorizzazione. Si pensa sia diffuso in tutta l’America latina, con avvistamenti anche nell’America centrale (magari i nicaraguensi possono confermare). In questi musei deambulanti della storia del motore, gli autisti sfoggiano tutti i migliori ornamenti del sud America, tra i quali un abbondante campionario di foto di donnine MOLTO POCO “vestite”. Studi recenti, effettuati nelle ore di punta, affermano che in realtà un micro ha la stessa capienza di un treno merci, o se vogliamo, in proporzione, di una scatola di sardine.

Trufi

  • Il Trufi è un furgoncino, stile Volkswagen, che nella testa degli ingenieri che lo hanno progettato doveva avere una capienza massima di 9 posti. Qui i fisici Boliviani, hanno scoperto che non è vero, e che un pullmino della Volkswagen in verità può contenere lo stesso quantitativo di persone di una nave da crociera. Il trufi non gode delle pittoresche decorazioni del micro.
Taxi-trufi
  • Il taxi trufi è una macchina, una cinque porte omologata per portare cinque persone. Anche in questo caso i matematici Boliviani hanno dimostrato che tramite un’accurata equazione e grazie ad un esperto di tetris, una comune berlina può portare lo stesso quantitativo di persone di un volo transoceanico. Il taxi trufi, viene venduto come una comune macchina da città, in realtà nasconde un’anima da corsa.

Taxi in corsa per portare il cliente a destinazione il più in fretta possibile.
Foto dell'abitacolo di un taxi durante un salto nell'iperspazio.
  • Il taxi invece non è ancora riuscito ad abbattere le barriere dello spazio (quelle del tempo si). Normalmente porta un solo gruppo di clienti alla volta e lo fa in tempi rapidissimi. Non so quanti di voi abbiano visto Star Wars e quindi abbia in mente la scena in cui il Millenium Falcon fa il salto nell’iperspazio, o nella scena finale in cui Luke Skywalker si infila nel tunnel della Morte Nera per sparare al nucleo e distruggerla…ecco prendere un taxi è un misto tra entrambe le esperienze. Come il taxi trufi, il taxi ha una natura sportiva, ma il rivenditore la spaccia per una normale auto da città. Il tassista, invece, che gode di una particolare empatia con i veicoli, capisce il bisogno della vettura e fa di tutto per riportarla alla sua originaria natura.
  • Il moto taxi non l’ho ancora preso, so che si tratta di una moto che fa da taxi. Lascio a voi immaginare il viaggio…
Quello cha hanno in comune tutti questi mezzi di trasporto è: l’incertezza del percorso che compiranno, il prezzo che varia in base all’autista e l’incertezza di arrivare. Inoltre in giro per le strade si possono osservare dei pali blu che vorrebbero essere delle fermate dei mezzi pubblici, il problema è che l’alcaldia non lo ha spiegato ai cochabambini. Quindi il buon cittadino, che ci tiene alla sua salute e ha paura di logorare i piedi e le gambe, sale dove gli fa più comodo e al grido di “a la esquina voy a bajar por favor” scendono in qualsiasi punto della calle.
Insomma, come scrisse il buon Stefano: paese che vai, taxi che trovi.
Micro lleno
 

Trufi dopo l'intervento del famoso esperto di Tetris
Tipico pedale di un micro con donnina incisa sopra

Interno e decorazioni di un Micro
 

domenica 23 marzo 2014

Bolivia: Un veloce ritratto di Cochabamba

1 commento:

Incominciamo con un po’ di dati:

·         30h è quanto è durato, secondo un calcolo approssimativo, il nostro viaggio. Nel calcolo sono compresi i tempi di attesa e i ritardi.

·         4 sono i voli presi e sempre 4 sono le volte che abbiamo dovuto passare i controlli per il bagaglio a mano. Per fortuna il bagaglio da stiva ci è stato spedito direttamente a Santa-Cruz.

·         NIENTE è quello che abbiamo visto durante il viaggio. Né lo spettacolare (così mi han detto) arrivo all’aeroporto di Lima, né Amsterdam, né Santa Cruz né l’oceano Atlantico.

·         2 sono le persone che abbiamo conosciuto durante il viaggio.

E qui mi fermo perché il numero di fusi che abbiamo cambiato non lo so calcolare e perché una volta arrivati nella sterminata Cochabamba è impossibile tenere il conto di qualsiasi cosa. Basta pensare che secondo il censimento del 2007 contava 896 097 abitanti, mentre invece secondo il censimento del 2012 aveva già 1.758.143. Lo spettacolare sviluppo, secondo gli abitanti, è dovuto in parte alle politiche del governo Morales, in parte alle attrattive che la città esercita sui campesinos e in parte al narcotraffico, di cui a quanto pare Cochabamba sta iniziando a divenire un importante snodo. Non esistono, per colpa di questo suo repentino e continuo sviluppo mappe aggiornate della città, infatti un turista, che dovesse avere la sfortuna di trovare alloggio fuori dalla seconda cerchia, si troverebbe fuori da ogni mappa.

L’arrivo in aereo a Cochabamba è l’unico che sono riuscito a gustarmi, Cristina invece dormiva, ed è a dir poco spettacolare. La città si trova nel mezzo di una conca a 2570 metri SLM, è completamente circondata dalle Ande, e intorno a sé non ha niente, o quasi, magari di solito esistono altri pueblos, ma ora la stagione delle piogge ha praticamente sommerso tutta la zona attorno.

Cochabamba è l’imperfetta sintesi tra modernità e ruralità. E’ una città tutto sommato moderna, con un esteso servizio di trasporto pubblico, fatto da Micro, taxi Trufi e taxi le cui tariffe sono decise dai tassisti e mercanteggiate con i clienti (di tutto questo magari ne parlerò meglio in un altro post). Inoltre Cochabamba può vantarsi di un’importante diffusione di internet, molte piazze sono dotate di WI-FI pubblico, che io non sono ancora riuscito a beccare; ha servizi di ristorazione aperti a qualsiasi ora del giorno; ha ospedali e cliniche private; supermercati ed enormi centri commerciali; i suoi abitanti sono tutti in giro con uno smartphone e se non ne hanno uno possono usufruire di uno degli innumerevoli internet point; ma… c’è sempre un ma. Sembrerebbe che la sua popolazione non voglia proprio adattarsi alla modernità e conduca una resistenza, neanche troppo passiva, al XXI secolo. Così possiamo osservare le due facce della medaglia. Da una parte il loro vivere “rilassati” li permette di vivere con più tranquillità e serenità, senza stressarsi come facciamo noi in Lombardia e li permette di dedicarsi di più a se stessi e al parlare con le persone, ma dall’altra parte li pone un attimo fuori contesto e li espone a tutti i pericoli della modernità, come ad esempio, pensare al telefono o alla macchina, non come a degli strumenti da utilizzare ma piuttosto come degli status simbolo, c'è chi prende lo smartphone di ultima generazione e poi non ha i soldi per permettersi la spesa; come anche il loro “vivere spensieratamente” e alla giornata non li fa pensare a  prevenire i danni procurati da “emergenze cicliche” (ossimoro).Sembrerebbe che la Bolivia si sia trovata per sbaglio nel 2014, e che siccome oramai si trovava qui ha alzato le spalle e ha detto: Vabbè proviamoci…

Cochabamba per il momento sembrerebbe la città dei paradossi, del tutto e niente e così i suoi abitanti che guai a fermarli per chiedergli un’informazione perché sono capaci di trattenerti mezz’ora a parlare di niente, perché sono una popolazione abbastanza riservata e diffidente ma che prova piacere nel parlare. Oppure non ho mai visto una popolazione tanto attaccata alle tradizioni, a “quello che si è sempre fatto”, all’apparire ligi all’etichetta ma che nello stesso tempo è capace di presentarsi con tre quarti d’ora di ritardo ad un appuntamento o di non presentarsi del tutto.

C’è voglia di vita, è un paese che canta, balla, esce alla sera… ma allo stesso tempo non sai se canta e balla per riempire il vuoto che la modernità sta creando all’interno della società.

Quando si esce alla sera non si può fare a meno di osservare che di fianco ai locali, in mezzo alla onnipresente spazzatura ci sono per terra madri vestite tradizionalmente che con i propri bambini cercano di vendere accendini ai giovani. Come anche non si può fare a meno di osservare che gli stessi giovani che all’uscita del locale facevano una gran figura rispetto a chi era nella strada, poi a casa non vivono in una situazione propriamente idilliaca. E non si può fare a meno di storcere un po’ il naso di fronte ad uno stato che si dice per il popolo, ma che ha ancora tanto da camminare in tale direzione.


Boh non credo di poter rendere l’idea della complessità, della meraviglia e nel frattempo della miseria di questa città con queste mie poche e confuse righe, non mi rimane che invitarvi a vedere di persona. Ma forse, per poter vedere tutto quello che vi ho descritto vi basterebbe uscire di casa e aprire bene gli occhi, e non sto parlando delle meraviglie geografiche della regione. L’Italia non è molto diversa, il fatto che i parametri di ricchezza e di sviluppo siano differenti e i nostri un po’ più alti, non ci pone al sicuro dalle emergenze sociali ed economiche, anzi in molti casi sono le stesse, quello che cambia è solo il contesto.

lunedì 10 marzo 2014

Bolivia: Come un moderno Ulisse

Nessun commento:

 
Noi Boliviani non abbiamo ancora scritto niente, in verità le bozze sul computer sono tante e le idee ancora di più. Ma non è per niente facile…

Ci siamo letteralmente ritrovati catapultati in una realtà incredibile, in un paese spettacolare e ci siamo trovati al di là di ogni nostra aspettativa. Ritrovarci oltre ogni aspettativa è stato magnificamente traumatico, visto che non ne avevamo di particolari…la Bolivia mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta.

Così quando si parte ci si sente come un moderno Corto Maltese
 o come un Ulisse dei giorni nostri, si sente il bisogno di partire, vedere, osservare per conoscere, capire e comprendere. Si sente il mondo che improvvisamente va stretto,  la realtà che si conosce ancora di più e il richiamo di quello che ti attende è irresistibile…e poi quando ci si trova in mezzo si ha una sola parola: WOW.

Lo sbalordimento è tanto, non si finisce mai di conoscere, tutto è nuovo, ci si lascia travolgere completamente dalla nuova realtà, si ha poco tempo per fermarsi a realizzare. Così ci si prende il tempo, ci si ferma per cercare di capire…ma proprio quando inizi a capire il tuo cervello ti dice che non puoi stare fermo, devi agire, ma è presto. Vedi un sacco di cose che sarebbero da fare, vedi un paese con un sacco di potenzialità che non vengono sfruttate e non capisci il perché, poi conosci gli abitanti,
 incominci a capire il loro stile di vita, il loro modo di fare, ti affacci sul loro mondo…ma la voglia di fare non passa, anzi aumenta, così come aumentano la rabbia e la frustrazione di fronte a questa situazione e ti dispiace, non per te ma per loro…così in questi momenti,  le Ande, che si stagliano magnifiche sopra di te, rappresentano un irresistibile richiamo a prendere lo zaino e partire ancora…

Ma ci vuole pazienza, bisogna tirare un bel sospiro, calmarsi, prendere la palla e andare al campetto da basket a sfogarsi. Allora si pensa e si riflette, bisogna osservare, capire, ricordarsi che si è in un nuovo contesto e che non si può agire (per poi fare cosa???) senza prima essere ben sicuri di aver ben compreso, e che non sono tutti uguali, sei qui solo da due settimane e c’è ancora molto tempo e molta gente da conoscere…

Mi piacciono le sfide, e sicuramente la Bolivia, lo stare in questo contesto è una bella sfida.

Osservando con occhio critico, prendendo tutto quello che di buono c’è senza lasciare che le cose ci scivolino sopra e traendo forza dalle difficoltà.

Mi piace la Bolivia.

Un buon inizio avventura a tutti.
Davide