martedì 7 marzo 2006

Baba Velika

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Nadia e Ani si stanno vestendo per uscire. Sono le 18. "Dove andate? Tra mezz'ora c'è il gruppo giovani!". Come immaginavo vanno da baba (nonna, ndr) Velika, e il loro invito ad accompagnarle è spontaneo. Metto la giacca ed esco con loro nel buio. Ci raggiungono Vania, Venzi e suo cugino. Superiamo la scuola, un altro isolato, e poi Vania apre un cancellino. L'ho sempre visto quel cancello, dà su un piccolo prato con una casupola di terra a sinistra. Abita lì? No. Vania apre un altro cancellino ed ora sulla destra c'è una stanza illuminata da una solitaria lampadina che pende dal soffitto. Tutto il resto è scuro.

"Babo Veliko!" urla Vania mentre spinge la scassata porta d'ingresso. All'interno vedo una piccolissima stufa scalcagnata, un letto in pendenza e sul letto, sotto due coperte, due occhi azzurri. Un tavolo con un po' di pane e dei tegami in disordine, un mucchietto di pezzi di carbone, qualche ramoscello e null'altro! La stanza è tutta nera di fuliggine; dal soffitto basso, non più di 2 metri, pendono neri fili di erba, come pavimento la nuda terra. Nell'aria quell'odore pungente di chi vive per strada.

Nadia inizia a lavorare alla stufa, buttandoci dentro carbone e gli avanzi delle candele della chiesa. Le sue mani si sporcano di fuliggine nera. Baba Velika non si muove, si limita a guardarci con i suoi occhietti azzurri, vecchi ma ancora vivaci e intelligenti. Ci invita a sederci: siamo in sei e lei ha solo una sedia rotta.

Baba Velika ha 83 anni e vive in questa condizione da sei. Un figlio è morto, l'altro è ricoverato in psichiatria. Beveva un sacco e rubava la pensione alla madre; le ha persino venduto i vestiti per ricavare qualche soldo. Lei usufruisce della mensa comunale: tutti i giorni riceve colazione, pranzo e cena. Troviamo sempre dei piccoli pentolini sul tavolo. Ma come fa a mangiare da sola se non riesce a camminare?

Sappiamo che è seduta in questa posizione da almeno tre settimane, ha i piedi semiatrofizzati. Quando i ragazzi sono andati a trovarla la prima volta le hanno subito fatto un massaggio ai piedi per favorire la circolazione del sangue. Ha le dita sporche di fuliggine ed anche il viso è nero perché ogni volta che si gratta il naso si sporca sempre di più.

"Mnogo mi e studino - ho tanto freddo" dice in dialetto. Nel gesto di coprirsi di più, mostra il braccio scheletrico e raggrinzito dagli anni. Vania le offre da bere, lei succhia da una cannuccia appena due sorsi, "Stiga stiga - basta!" e accompagna le sue parole con il gesto della mano. Dice che le fa male dappertutto. Non vuole mangiare e beve pochissimo. In un tegame c'è del pesce. Vuole che lo buttiamo nella stufa. "Magari dopo ne avrai voglia", cerchiamo di convincerla. Segue attentamente ogni nostro movimento, ci chiede del don, della suora, di tutte le persone che in questi giorni sono andate a trovarla, alternandosi ogni sera per accenderle la stufa e darle da mangiare. Comincia a chiacchierare un po' di più; Ani la avvolge meglio nella coperta. Ogni volta che si tocca la testa una nuvoletta si fuliggine si disperde nell'aria.

Le ragazze cercano di farla cantare e intonano un canto tradizionale. Baba Velika conosce la canzone e accenna un movimento della mano come se tenesse il fazzoletto di chi apre la fila delle danze.
Gli occhi le brillano. Mi chiede chi sono ed inizia a chiamarmi Radka, nome bulgaro. È inutile che le dicano che sono italiana e che il mio nome è un altro. Per lei sono Radke! E mi chiama così quando vuole un po' più di carbone nella stufa. Ormai è tardi. Dobbiamo correre al gruppo. La salutiamo, lei vorrebbe che ci fermassimo un altro po'. Le assicuriamo che torneremo il giorno dopo. "Leka nosht!".

Come baba Velika, così vivono in Bulgaria tanti altri anziani: soli, abbandonati dai figli, in estrema miseria. Il problema principale è che le pensioni sono bassissime, circa 40 euro mensili, e a volte anche meno. La gente qui riesce a sopravvivere perché lavora la terra: la primavera e l'estate sono dedicate a coltivare le verdure da mettere in conserva per l'inverno, la stagione in cui tutto si ferma.
Se c'è tanta neve o le temperature sono molto rigide la gente non va al lavoro e le scuole chiudono per la mancanza di riscaldamento. Come in chiesa, dove trovi il ghiaccio nell'acquasantiera e quando preghi o canti la tua visione è offuscata per qualche secondo dal tuo stesso respiro che esce sotto forma di una spessa nuvoletta.

Ti colpisce il fatto che quando racconti la storia di baba Velika a qualche adulto di Sekirovo, ti accorgi che tutti la conoscono, tutti sanno come vive. Ma perché nessuno interviene? Il servizio sociale qui non esiste, tanto che nessuno sa quale sia la funzione di un assistente sociale...

Il mattino successivo io e Ani andiamo verso le otto e mezza da Baba Velika per accendere la stufa. Fa freddo. Il ghiaccio scricchiola sotto i nostri passi veloci. Apriamo un cancellino e poi l'altro; una voce maschile proviene dall'interno della casa. In effetti, baba Velika parla sempre di un certo Angel che va da lei al mattino. Un giovane uomo sta trafficando alla stufa, ha portato del pesce e della legna. Come ci vede, dice che tornerà più tardi e se ne va. Baba Velika è nella stessa posizione in cui l'abbiamo lasciata il giorno prima, solo il viso più nero di fuliggine. Entrambe ci togliamo la giacca per avere più libertà di movimento. Ani si dedica alla stufa, io chiacchiero un po' con la baba. Dice che le fa male il cuore e che è affamata. Metto il pentolino con un po' di zuppa sulla stufa, le offro dell'acqua. Rifiuta. Stamattina ha voglia di chiacchierare, fa un sacco di domande. Purtroppo non riesco a capire tutto perché parla solo in dialetto. Le faccio assaggiare la zuppa: studina! È fredda! Davvero questa stufa non dà calore. Cerco di avvolgerla il più possibile nelle due coperte che ha addosso. I due occhietti azzurri mi fissano. Chissà se mi chiamerà ancora Radka! Spero di no, non mi piace. Le offro del pesce. "Da!". Afferro al volo il sì, e inizio a pulire con le mani il pezzo di pesce e ad imboccarla a piccoli pezzi. Mangia con gusto, non tanto, ma sempre più di ieri! La faccio anche bere. Non vuole, ma se insisto acconsente. La zuppa è sempre fredda. La posiziono in tutti i modi sulla stufa, ma proprio non vuole scaldarsi. Chiedo se vuole del pane. Sì, ma me lo fa sbriciolare nella zuppa, come fanno tutti i bulgari quando mangiano la "manjya". Ne metto poco, sapendo che non riesce a mangiare più di tanto. Un vapore, finalmente la zuppa fuma! A piccole cucchiaiate la imbocco, dandole soprattutto il pane. Si stufa quasi subito di mangiare, "Haide, ima hlyab!" le dico per incoraggiarla un po'. Accetta di mangiare il pane che le offro e vuole altro pesce. Le pulisco le labbra con un fazzoletto di carta, diventa nero di fuliggine. Mangia come un uccellino, ma rispetto a ieri si è fatta una mangiata!! Ani continua ad aggiungere carbone, si consuma velocemente. Ho i piedi che sono due pezzi di ghiaccio, posso immaginarmi il freddo che ha lei. Ogni tanto baba Velika sussurra "Occicciu!!" che è l'esclamazione che i bulgari usano per esprimere il freddo che provano. È di nuovo tardi, dobbiamo andare. Baba Velika vuole che ci fermiamo ancora, ma di nuovo le assicuriamo che nel pomeriggio altri ragazzi verranno a trovarla per parlare un po' con lei e per ravvivarle la stufa che ora crepita allegramente. Usciamo, Ani con le mani sporche di carbone, le mie che puzzano di pesce. Camminiamo a braccetto, infreddolite ma contente, il ghiaccio che scricchiola sotto i nostri piedi.

Per quasi tre settimane, tutti i giorni, con i giovani della parrocchia abbiamo visitato baba Velika. Siamo riusciti anche a convincerla a lasciarsi lavare, un dottore l'ha visitata gratuitamente dicendo che era sana con un pesce. Evidentemente stava meglio, i massaggi ai piedi hanno fatto sì che potesse camminare di nuovo da sola, anche se a noi non voleva farlo vedere. Ormai tutti ci eravamo affezionati a lei ed anche ai suoi molteplici capricci… Ma una fredda mattina di febbraio, quando di notte la temperatura è scesa a -18°C, baba Velika si è spenta, da sola, in silenzio. Una vicina se ne è accorta e ce l'ha comunicato. L'abbiamo accompagnata al camposanto, poche persone le hanno dato l'ultimo saluto, pochi fiori intorno alla sua magra figura. Una ragazza mi si avvicina e mi dice: "Se non fosse stato per lei, non avrei mai saputo che delle persone vivessero così male qui, nel mio paese…"

 
di Grazia Bizzotto,
volontaria in servizio civile all'estero Rakovsky, 7 marzo 2006