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mercoledì 29 febbraio 2012

Da Haiti, tutto da rifare o quasi...

2 commenti:
25/02/2012

Tutto da rifare: dopo cinque mesi per insediare il governo, Haiti si trova ancora una volta senza guida. E’ notizia che ieri (venerdì 24 febbraio) Garry Conille primo ministro eletto non con poche difficoltà ha rassegnato le sue dimissioni. Questo significa che a solo quattro mesi dall’insediamento, il governo che dovrebbe guidare la ricostruzione si trova nell’impossibilità di agire. Alla base delle dimissioni ci sarebbero incomprensioni con il presidente Michel Martelly, proprio su come impiegare i fondi della comunità internazionale per ridare slancio al paese. Non di meno le minacce che le numerose inchieste sulla doppia nazionalità del presidente e di altri non ben chiari ministri del suo esecutivo stiano arrivando a conclusioni non felici per l’esecutivo hanno inciso sulla decisione del ormai ex primo ministro. Secondo le leggi haitiane non è possibile ricoprire cariche presidenziali e governative se non si è esclusivamente cittadini haitiani. Il tema della doppia nazionalità del presidente è un cappio che è stato messo attorno al collo dell’esecutivo pochi giorni dopo il suo insediamento: gli accusatori dichiarano che il presidente ha un improbabile passaporto italiano e altri un plausibile passaporto statunitense. In molti vedono dietro questi giochi di palazzo la lunga mano dell’ex dittatore Aristide, tornato in patria proprio nei giorni della proclamazione del presidente Martelly e che da quel momento sta cercando di destabilizzare l’assetto politico e ricreare consenso attorno alla sua figura. Il presidente è debole e non particolarmente esperto di giochi di potere, sulle sue reali capacità ci sono parecchi dubbi, ma in questo momento non ci vuole un'altra crisi. Di fronte alla tragedia che ancora oggi Haiti rappresenta non si può ascoltare solo la propria pancia e voler portare a casa ed a tutti i costi il proprio torna conto, la succosa torta degli aiuti fa gola a tante, troppe persone, destabilizzare un paese che da due anni aspetta risposte e che ha ricevuto una grande occasione dalla generosità internazionale significa condannare il paese intero a perdere anche quel minimo di speranza che si è riaccesa dopo il terremoto e che si è conservata fino ad oggi, significa ignorare la   sofferenza di milioni di persone, significa infiggere altra sofferenza alla collettività per un relativo guadagno personale. Spiace dirlo: ma da un altro punto di vista significa semplicemente, fare i conti con la mentalità più diffusa ad Haiti.

venerdì 1 aprile 2011

[OT] Reportage da Haiti 2: Matteo racconta

2 commenti:

Il tempo di stare a Port au Prince è terminato: si parte per arrivare a Port de Paix.
Sono 150 km, un totale di 7-8 ore sulle strade haitiane, quindi l’unica via percorribile è un aereo da 15 posti che opera voli giornalieri. Partenza dall’aeroporto internazionale, arrivo su strada sterrata che viene chiusa al traffico di auto, muli e persone a colpi di fischietto.
Dall’aereo si può intravedere quello che rimane della perla nera delle Antille, una volta conosciuta per le piantagioni di caffè, canna da zucchero e cacao. Oramai di suolo boscoso non è rimasto più niente: l’ecosistema tropicale è stato spolpato fino a ridurlo a desertico, l’esportazione di legname pregiato da parte del presidente o dittatore di turno. La miseria delle povera gente che produce carbone per sopravvivere non ha lasciato che una terra bruciata dal sole ed erosa dal vento.
Il contrasto con la cugina Repubblica Domenicana sembra un esercizio cromatico: di là verde lussureggiante, di qua marroncino miseria. Port de Paix si fa fatica a descriverla senza cadere nella retorica: caldo, sporcizia, strade fatiscenti, cumuli di calcinacci che non sono lì grazie al terremoto.
Fanno da sfondo ad una frenetica quanto indecifrabile attività umana: sull’unica strada parallela al mare, sembra che la città intera sia riversa sulle strade urtandosi, strusciandosi, tamponandosi rimproverandosi e salutandosi ad un ritmo di una danza frenetica ed incomprensibile.
Il porto della città è stato dismesso anni fa dalla fame di centralismo di un ex presidente che, in questo modo, ha potuto concentrare tutti i traffici direttamente dalla capitale. Sulla strettissima spiaggia non ci sono bagnanti, ma è comunque popolata: si vedono sono maiali che mangiano la spazzatura che ricopre la sabbia e vecchie navi arrugginite. Siamo di fronte a Tortuga, l’isola dei pirati di Salgari. Sulle sue coste si può ancora nuotare, non ci sono più i pirati, ma in qualche maniera l’isola, come tutta questa costa di Haiti, conserva qualcosa di quel vivere fuori dalle regole. Infatti è nota la presenza di narcotrafficanti che trovano in questo punto di Haiti lo snodo preciso a metà tra la Colombia e la Florida, non infastidiscono più di tanto e forse qualche cosa investono pure in questa terra per loro tanto accogliente quanto indifferente. Incontrata la Caritas locale, andiamo a raggiungere quello che è l’avamposto dei missionari diocesani ambrosiani qui nel nord di Haiti.
Sono a Mar Rouge, 50 di km dalla città che si traducono in 3 ore di fuoristrada con tanto di guado del fiume. Il posto è diverso da quello che abbiamo conosciuto fino a questo momento: siamo in una zona collinare, la temperatura scende e la mattina è frequente la nebbia. Siamo in una zona rurale immersi in una vegetazione che ancora si conserva. I lenti ritmi della campagna concedono un po’ di tranquillità e lasciano spazio alla riflessione. La povertà e l’indigenza anche qui la fanno da padrone: anche qui il nocciolo della questione è il tessuto sociale debole che, nonostante il contesto, fa fatica ad organizzarsi, a creare reti di solidarietà, a valorizzare una terra dura, ma non ostile. Il sospetto e la paura tra le persone impone relazioni privilegiate, condiziona il comportamento e spinge a pensare al proprio interesse. Sono frequenti i racconti in cui, dopo aver messo in marcia un progetto, qualche persona è letteralmente “scappata con la cassa” vanificando sforzi e frustrando l’impegno di chi rimane con un niente in mano. Le credenze aiutano a creare questa barriera tra le persone, alimentano la divisione in gruppi. I missionari ci hanno raccontato che dopo il terremoto, alcune sette religiose hanno interpretato il terremoto come la punizione divina sulla religione cattolica, visto il crollo della cattedrale e la morte del vescovo di Port au Prince.
La pratica del Vodoo, trasversale a tutti i gruppi religiosi, nella sua accezione di rito nero, fomenta la paura di essere oggetto di riti malefici e fa in modo che per ogni disgrazia avvenuta si sospetti del vicino o del conoscente, ma più spesso del più debole. Una persona importante invece, aumenta il suo ascendente grazie al Vodoo: i riti costano ed una persona ricca se ne può permettere tanti. Meglio assecondare chi può maledire la tua condizione già precaria.

Padre Giuseppe, Padre Mauro, la missionaria Maddalena ed un eclettico Sig. Mauro, che ha deciso raggiungere Padre Giuseppe fino in capo ad Haiti, sono ben visti dalla gente di Mar Rouge e vivono in una struttura modesta vicino a quella delle gente comune. La domenica "la grondaia" dove celebrano, è gremita di persone come non succede nelle parrocchie vicine. Da anni cercano di coinvolgere le persone nell’essere protagoniste del proprio sviluppo umano e sociale. La casa dei missionari è di riferimento per qualsiasi tipo di necessità: dal malato, alla richiesta di aiuto e conforto.
Lo sforzo è enorme, i mezzi scarsi ed in vincoli tanti: la visione non è idealista né romantica.
Il confronto anche con i fidei donum africani non è incoraggiante, ma si continua a fare la goccia che prova a scavare la roccia dura di Haiti.
La sera si cena assieme: l’orario è italiano, si benedice la tavola: “Benedici il cibo che stiamo per prendere e questa terra strana, ma comunque bella”.

Una piccola luce si accende nel buio della notte a Mar Rouge.

Matteo Fietta

mercoledì 23 marzo 2011

[OT] Reportage da Haiti 1: Matteo racconta

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Oramai non ci fai più caso e non lo ascolti più da parecchi viaggi, ma questa volta non evito di sentire l’annuncio che dall’altoparlante recita “benvenuti a Port au Prince, vi auguriamo un piacevole soggiorno”.
C’è qualcosa che stona, si mantiene una normalità che già fa a pugni con i pochi scorci della città che sono passati sotto i finestrini.
Sì, perché non mi era mai capitato di vedere una città con solo tetti di lamiera arrugginita interrotti da enormi spazi occupati dalle tende degli aiuti internazionali.
Di gente nelle tendopoli ce n’è ancora tantissima, qualcosa si è fatto certamente, di aiuti ne sono stati mandati, ma la gran parte non sono ancora stati spesi, ci sono, ma Haiti non ha ancora un presidente e quindi mancando un minimo di regia è impossibile iniziare dei lavori strutturali, intanto la gente si arrangia come può e come purtroppo è abituata a fare da tanto, troppo tempo. Un anno fa ci sono state le elezioni, dalle quali sono usciti, non senza l’intervento della comunità internazionale, due candidati. Nei prossimi giorni ci sarà il ballottaggio la scelta è tra Martelly un cantante di musica locale che ha come spot elettorale e programma ha “tete kale” ovvero “testa rapata” vista sua brillante chioma, l’altro candidato è la signora Manigat, come curriculum può vantare di essere la vedova di un ex presidente, poco promettente per il cambio che Haiti ha bisogno, ma pure Martelly che si presenta come volto e chioma nuova non promette bene visto il populismo che spara dai suoi altoparlanti e più seriamente visto che ha già fatto accordi con il governo uscente, ad oggi lo danno come favorito.
Prima di uscire dall’ areo i saluti di rito delle hostess sembrano ritrovare un po’ di onestà intellettuale e tralasciato il bon ton aziendale e si lasciano ad un più sincero “take care”.
Saliti sull’auto che ci porterà a casa degli operatori di Caritas Italiana la città si offre per quello che dall’ alto promette: strade affollate, traffico di fuoristrada, i segni del terremoto sono praticamente ovunque, le tende sono disposte in campi organizzati dove da poco è stata messa l’illuminazione pubblica per cercare di limitare la criminalità. Ci sono altre tende che sono sorte spontaneamente un po’ ovunque, sono persone che erano ospiti da amici e parenti che hanno dovuto abbandonare questi posti ed ora si arrangiano ricavando qualche metro tra gli anfratti delle strade.
Chiacchierando con gli operatori di Caritas Italiana, ci descrivono la loro quotidianità; l’interazione con gli haitiani non è facile, la sicurezza mette distanze difficili da colmare, ma anche dove l’interazione è possibile lo stereotipo del bianco visto come portafoglio “gambe dotato” è forse la barriera ancora più grande. Inoltre gli abitanti di Port au Prince non sono entusiasti della presenza internazionale, il costo della vita è aumentato da quando ha ricevuto il personale espatriato, sulle strade martoriate e già affollate si è aggiunto il traffico dei fuoristrada delle varie agenzie che manda in tilt la circolazione. Lavorare per le ONG non è facile. L’interazione con la burocrazia Haitiana è pesante, i tempi si moltiplicano, si perde di efficacia, alimentando lo stereotipo che non si sta lavorando, ma è anche l’unico modo di creare qualcosa che ha la possibilità di avere qualche futuro.
Gli operatori vivono praticamente con la scorta, i protocolli di sicurezza delle ONG sono dettagliatissimi, muoversi a piedi non è consentito ed in macchina è quasi obbligatorio un autista locale per non entrare in anfratti pericolosi;
in caso di incidente stradale è consigliato non fermarsi, ma mettersi in sicurezza e successivamente presentarsi alla polizia; le abitazioni, oltre alle recinzioni con filo spinato, sono munite di guardiano armato, anche se delle volte bisogna proteggersi dal guardiano stesso che si presenta ubriaco. In questo caso non è consigliabile licenziarlo, visto che è armato e conosce la casa e le abitudini degli occupanti: è meglio assumere un secondo guardiano per controllare il primo e la casa. Alcuni organismi addirittura chiedono ai loro espatriati di comunicare costantemente con il proprio responsabile della sicurezza, quindi dal sms del ” sto uscendo per arrivare in ufficio” fino a quello della buona notte si ha questa presenza da mamma da tenere costantemente informata su ogni spostamento. Prelevare dei soldi non è consigliabile: ci sono stati casi di assaltanti fuori dalle banche che sapevano esattamente l’importo appena ritirato. Quindi: vatti a fidare delle banche! Il numero di rapine e rapimenti è ancora molto alto: in parecchi casi ad essere rapiti maggiormente sono i bambini, il cui riscatto sembra essere più alto.
Visitando qualche progetto e parlando con alcuni missionari di diverse congregazioni mi rendo conto che su una cosa sono tutti d’accordo che si riassume nelle parole di Suor Luisa: “se vuoi lavorare, qui da fare ce n’è tanto”.
Matteo Fietta