domenica 19 novembre 2006

Da Milano al Mozambico

Nessun commento:
Non saprei dire da dove è incominciata.

Probabilmente dalla stazione Centrale di Milano, un tardo pomeriggio del maggio dell'anno scorso.

Sapevo che dom Ernesto, vescovo da qualche mese della diocesi di Pemba, a nord del Mozambico, e amico da tempo, era di ritorno da Roma e arrivava con il treno a Milano, e così inforcai la bicicletta e mi fiondai in stazione almeno per salutarlo qualche minuto.
Sicuramente non immaginavo che in quei pochi minuti, e con qualche spiazzante parola delle sue, di quelle che vanno a centrare proprio il cuore dei tuoi pensieri, mi avrebbe proposto (e convinto, lo ammetto, con una rapidità sorprendente) ad andare a vedere il "suo" Mozambico.
E così è nato il nostro viaggio: fine dell'antefatto.

In tre settimane non si vede molto, e si conosce proprio poco di un paese e della sua gente: praticamente soltanto un assaggio.
Il nostro primo impatto è stato con Maputo, la capitale, al sud del paese.
Maputo è, come tutte le grandi città e soprattutto quelle africane, luogo di contraddizioni: si passa molto in fretta dai quartieri ricchi, quelli dove risiedono i ministri e i membri del governo, dove ci sono le ambasciate, dei bei villoni circondati da un praticello degno dei migliori film americani, (tutti rigorosamente sorvegliati dalle polizie private), i palazzi, nuovissimi, delle multinazionali, costruiti nel 2000 in occasione del summit dei paesi africani; alle sterminate distese di casupole, alcune in muratura, baracche di lamiera, capanne di argilla.
Non è una periferia, non è un quartiere, non è un campo come quelli in cui ghettizziamo i rom e che denunciamo come indecenti: è una città. Non me ne ero resa bene conto, da terra, di quanto fosse immensa, ma vederla alzandosi con l'aereo è qualcosa che toglie il fiato.

Maputo è al sud del paese, settanta kilometri più in là c'è il confine con il Sudafrica. Si raggiunge in fretta: qualche anno fa è stata costruita un'autostrada, l'unica del Mozambico, che collega Maputo a Pretoria e Johannesburg; autostrada si fa per dire: è una bella strada, su cui in settanta kilometri si paga il pedaggio quattro volte. La strada è stata costruita per collegare il Sudafrica alla grande industria di alluminio, dicono la più grande d'Africa, aperta poco dopo nella periferia di Maputo, un'industria che "per qualche ragione" i sudafricani non volevano sul loro territorio, e che porta ricchezza non certo ai mozambicani.

In capitale la gente non sta bene, ma rispetto al nord, in un certo modo, si sente che la vicinanza con il Sudafrica porta qualche beneficio. Il confine, però, è lo stesso impressionante: al di là della frontiera sorgono subito belle casette, negozi, ai lati della strada giardinetti curati e campi coltivati sistematicamente, con dei buoni sistemi di irrigazione. Al di qua, il villaggio a ridosso della dogana, lungo il pendio di una collina, è un'accozzaglia di baracche e casupole, e non tutti hanno l'acqua corrente.

Ma chi ci ha accompagnato nei primi giorni a Maputo ci ha ripetuto più volte "vedrete, vedrete, a Pemba si sta peggio".
È vero.
Pemba, duemilacinquecento kilometri più a nord, è capoluogo della regione di Cabo Delgado, la più povera del paese.
Noi l'abbiamo raggiunta in aereo; in auto oggi si potrebbe, anche se, dicono, ci vogliono due giorni di viaggio. Fino a qualche anno fa, nei trent'anni di guerra prima d'indipendenza e poi civile che hanno lasciato sfinito il paese, l'unico modo per andare da una città all'altra era muoversi in aereo: facile capire che spostarsi era un lusso di pochi.

In diocesi stanno avviando un progetto per lo sviluppo sociale delle comunità della regione: tre giorni pieni, a discutere al Tavolo di lavoro, per capire da dove partire... eppure Pemba è una città in una posizione splendida, si trova sull'Oceano Indiano, sulla terza baia più grande del mondo e il suo territorio avrebbe anche diverse potenzialità: agricola, i tre quarti della terra di Cabo Delgado permetterebbe investimenti in questo senso; faunistico, è una zona in cui vivono elefanti, coccodrilli, leopardi, leoni; culturale, nella sola regione nord sono tre i grandi gruppi etnici, ognuno con una diversità di cultura e di lingua.
Eppure non basta, eppure queste caratteristiche si traducono spesso in difficoltà.

Quello che è più visibile, che colpisce al primo impatto, sono proprio i villaggi e le case: puoi percorrere kilometri senza incontrare case in muratura, nelle aldeias - i villaggi - più piccole è praticamente impossibile trovarne. L'elettricità è lusso di pochissimi che hanno un generatore, e solo nei capoluoghi di distretto. Acqua corrente neanche a parlarne, la maggior parte non ha nemmeno pozzi, si serve di piccoli fiumi che resistono anche nella stagione secca, e in alcuni casi donne e bambine compiono percorsi di ore per andare a prendere l'acqua. Il terreno permette di coltivare facilmente alberi da frutta, in particolare di papaya, arance, mango, ma l'agricoltura di sussistenza è costituita principalmente da granoturco e mapira, un tipo di grano piccolo e bianco.

"Ma educare a coltivare e mangiare frutta, cosa che attenuerebbe di molto il problema della mancanza d'acqua nell'alimentazione, è un discorso lungo da portare avanti" sostiene dom Ernesto.
Un'altra ferita aperta è quella sanitaria: in tutta la regione nord esistono solo tre farmacie, i presidi medici sono a decine di kilometri di distanza, e i farmaci comunque costano troppo.
La dissenteria qui uccide.
La tubercolosi è diffusissima.
Il Mozambico è il secondo paese africano per numero di malati di lebbra.
La malaria è all'ordine del giorno.
E poi la grande, enorme, piaga dei paesi africani, e il Mozambico è tra i paesi più colpiti: l'Aids. Non è semplice fare informazione, nelle aldeias "ne hanno sentito parlare", ma sono pochi quelli che conoscono le modalità di contagio e sanno qualcosa di questa malattia. Parlarne incontra spesso resistenze, perché vuol dire toccare argomenti tabù come i rapporti sessuali e i riti di iniziazione.
E poi il grande problema della lingua: quella ufficiale è il portoghese, retaggio di secoli di dominazione coloniale, ma solo nelle città e chi ha studiato lo sa.
Per il resto sono le lingue dei gruppi etnici quelle utilizzate; nella sola regione nord, per fare un esempio, sono due diverse. Il problema è sociale, sicuramente.
Ma, dal lato umano, la capacità di comunicare al di là della lingua, di accogliere, di rispettare l'altro, di vivere con profonda serenità di questa gente la capisci anche se non parli macua.

Marta Zanella
novembre 2006

mercoledì 8 novembre 2006

Prime impressioni dal Nicaragua

Nessun commento:
Sul bimotore che ci porta da San José a Managua abbiamo un sussulto quando pochi secondi dopo il decollo i due motori, rigorosamente ad elica, sembrano fermarsi per un attimo, e ancora di più ci preoccupiamo quando il comandante annuncia alla trentina di passeggeri accaldati che stiamo per passare una turbolenza, che effettivamente ci farà trascorrere momenti indimenticabili nei cieli tra Costa Rica e Nicaragua.

Pare che quasi a volerci far abituare al clima umido e soffocante che si respira nella capitale nicaraguense, ci abbiano dato l'unico aereo di linea al mondo in cui l'aria condizionata non funziona!

Mi addormento, sono troppo stanco dopo quasi venti ore di volo, e mi risveglio con il nostro prezioso autobus con le ali che rimbalza come una pallina da ping-pong sulla pista di atterraggio... meglio rimbalzare che schiantarsi al suolo, no?
Siamo finalmente arrivati; quello che ci aspetta è la caotica capitale, Managua, sonnecchiante appena il sole lascia i suoi cieli e piena di traffico nelle calde e umide giornate di quello che qui chiamano inverno.
Affacciata sul grande lago potrebbe essere un gioiello, ma come subito ti dicono e come subito ti accorgi, Managua non è una città concepita per camminare. I suoi vialoni con benzinai ad ogni angolo, grossi mezzi per il trasporto delle merci come nei film americani, autobus ricolmi in ogni lato, tutte le case ad un unico piano, niente che ricordi una storia che la potrebbe identificare, darle un'anima, darle la parvenza di una città vissuta da esseri umani invece che da macchine.

Managua è stata completamente distrutta nel terremoto del '72, e dopodichè, completamente ricostruita. Ironia della sorte uno dei pochi edifici che è rimasto in piedi, solido come una roccia mentre la città cadeva come un castello di carte, è quello su cui si trovava al momento del sisma il sanguinario dittatore Somoza insieme ai suoi galoppini. Adesso l'edificio ospita uno dei più lussuosi hotel capitolini: come prima il popolo nicaraguense era tenuto sotto scacco da una becera ed arrogante oligarchia con a capo il suo imperatore, adesso è tenuto in scacco dal dio Dollaro e dalle sue concubine, le politiche neo-liberiste.

Il tessuto sociale del Nicaragua vede un 80% della popolazione vivere in condizione di povertà, il restante 20%, quello che possiede quasi l'80% delle risorse del paese, vive nella ricchezza più assoluta.
Sembra di tornare indietro nel tempo, quando i nobili vivevano nei loro castelli e i servi della gleba coltivavano le loro terre.
Adesso i servi della gleba lavorano nelle fabbriche dei ricchi, quelle che qui chiamano "zonas francas", e in Messico "maquiladoras". Luoghi dove il diritto non esiste, dove se arrivi in ritardo di un minuto ti decurtano una intera giornata di lavoro.
Luoghi che sorgono ai lati dei quartieri più poveri per trovare facilmente mano d'opera a basso costo.
Luoghi dove non esistono controlli sanitari a favore dei lavoratori, dove se respiri dei gas velenosi non puoi fare causa al datore di lavoro.
Luoghi dove i proprietari non pagano le tasse perchè per legge i primi dieci anni dall'installazione dell'impianto sono gratuiti.
Luoghi dove se qualcuno osa lamentarsi viene licenziato.

Il mio amico Felix, che lavora nel centro di "Redes de Solidaridad" in cui presto servizio, un giorno mi ha detto che "é vero che sono posti in cui i lavoratori vengono sfruttati, ma tutta la gente che vive qui a Nueva Vida (quartiere periferico dove sorge il centro e dove sta nascendo una nuova "zona franca", ndr) e che passa le sue giornate a far niente e senza sapere come mantenere la propria famiglia, almeno potrà avere un salario".
Questo è vero, ho pensato... ma allora è questa l'idea di progresso che esportiamo in tutto il mondo con le nostre imprese e la nostra tecnologia?
Si, perchè le industrie che si installano qui non confezionano abiti che saranno vestiti dai bambini di Nueva Vida, sono abiti che saranno vestiti dai bambini, donne ed uomini europei, statunitensi, giapponesi. Abiti che ad unità saranno venduti ad un prezzo che potrà equivalere grosso modo al salario mensile di un operaio che lavora qui.
È così che queste persone diventano i servi della gleba che lavorano per noi.

Vedere la povertà è sconvolgente, ma mai quanto viverla.
O meglio...
... forse quando la vivi è paradossalmente meno dura di quando la vedi e sei abituato a vivere con un livello minimo che nel "non avere nulla" può corrispondere al massimo.

Nueva Vida è un insediamento che si è formato dopo l'uragano Mitch, che ha portato morte e distruzione in varie parti del paese.
Le popolazioni che vivevano sulla costa e che sono state tra le più colpite, hanno perso tutto e sono arrivate qui. Questo è un fenomeno tipico: la migrazione verso le città in caso di disastri o anche solo per cercare fortuna o sopravvivenza in condizione di povertà estrema, è una pratica ormai assodata e ovvia.
Le Nazioni Unite hanno annunciato all'inizio di quest'anno che la popolazione urbana per la prima volta nella storia dell'umanità, ha superato quella campestre.
La povertà qui a Nueva Vida non è solo materiale.
La povertà è anche fatta di madri che a 34 anni hanno nove figli da almeno cinque uomini differenti, da bambini abbandonati che per sopravvivere passano le loro giornate nella vicina discarica, da uomini che pur avendo un figlio malato invece di usare i soldi per curarlo, li usano per ubriacarsi.
La povertà è fatta di ignoranza e di mancanza di educazione.
È fatta di superstizione e di poca fiducia nella medicina e nelle istituzioni.
È fatta di mancanza di interesse verso le persone che la vivono, di indifferenza.

È facile per un ragazzo di Nueva Vida entrare in una pandilla (banda giovanile), cominciare a tirare la colla, rubare nelle case, tanto altro futuro non c'è.
Non esistono sogni, nessuno pensa ad un futuro migliore che lo possa portare fuori da questo inferno.
Una delle cose che più ti lascia attonito è proprio questo; tutti noi abbiamo progetti e cerchiamo chi più chi meno di costruire qualcosa che possa dare un senso alle nostre vite.
Qui è molto difficile e sopratutto i giovani non hanno speranze, progetti, non hanno mai visto e non si immaginano una vita fuori da qui e non si immaginano un Nueva Vida diverso.
Qui bisogna lottare anche per sognare.

In tutto questo il centro di Redes de Solidaridad appare come una piccola isola felice dove qualcosa si può e si vuole cambiare. Quando entri al mattino e vedi le persone che iniziano a lavorare e i bimbi che vanno a scuola e i ragazzi che lasciano il barrio per venire qui ad apprendere un mestiere e cercare finalmente di avere dei sogni e degli obiettivi, almeno un po' di speranza ti torna.
È un seme che si inoltra nei solchi della terra e che non si sa se darà vita ad un albero o se marcirà travolto dalle torrenziali piogge tropicali. Un lavoro lento e duro in cui qualche persona crede; non certo i politicanti locali occupati ad accaparrarsi qualche peso in più, ma delle persone che credono in questo popolo che storicamente ha dato prova di grande unità e potenza, ma che negli ultimi anni stanco della guerra e su cui si giocano interessi internazionali enormi, ha lasciato il suo destino in mano ad altri.

Glauco Sponza