giovedì 30 agosto 2018

Nairobi. Splendid memories arrise in my breath

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Every time i always wonder how may be i can overcome this but i lack any choise because all in all i can nevva make days go back again but in real manner bi miss you alot and will neva forget what byiu taught me atleast you gave me hope in my exams. i always admire days to go back again but all i always have in mind is that i want to come to italy as from tomorrow but all in all i love and miss you my friends. you helped me alot  thank you for your coming  and am always praying for you.for real my memmories arise everyday when i think about you friends.

JOHN MOSCQUERO TUNYA OMONDI.

Nairobi. The things i would like to happen in the next summer camp

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HI TO ALL AM COLLINS,


AM glad for the previous summer season and to all who perticipated in it.I was fantanstic cool such that all of us enjoyed it,even though it was a shot period of time but.....................Am still in agony and sorrow coz i just mis u guys so much.      NOW hear i go,i would like u guys to at least in among of the group to mix up.By this i mean,in the group make sure that there is a dancer (just as the previous one),a motivator,a counceller.and many others.actually the previous season was so cool and so i hope next summer camp will be extremely cool compared to the previous one.Thank u all very much and you are always feel at home whenever you think of caffaso.and please when you plan for the periods to stay in kenya ,please extend the days like at least a month.GRAZIE,CiAO.

  1. TO THE LAST SUMMER CAMP

Am very happy and glad that among all the places in the world,you choose caffaso infact, that was a previlage to us and we are so gratefull .its hurts when we imagine that we no longer have you people.(S,A,J,J,E,Si,C,F)I mis you so much.bye bye.


COLLINS#

mercoledì 29 agosto 2018

Il tuo mondo è come il mio - cds2018 Italia

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Per il cantiere Italia, a Milano, con la grave emarginazione abbiamo deciso di indossare delle maglie disegnate da noi. 
Ciascuna maglia riportava la scritta: ”Il tuo mondo è come il mio”; scrivere nero su bianco qualcosa che non sempre riusciamo a dire: a volte mancano le occasioni, a volte il coraggio.. lasciamo così che siano le scritte, i colori e i disegni a parlare per noi. Questo è stato il nostro motto per vivere al massimo un’esperienza che ci ha messo a contatto con persone senza fissa dimora. La frase voleva esprimere il nostro desiderio di sentirci vicine alle persone che abbiamo incontrato senza innalzare barriere di alcun genere insieme alla nostra voglia di vivere dei giorni di serenità e compagnia, con spontaneità e semplicità. 

Abbiamo imparato che non è necessario fare sempre qualcosa per entrare in relazione con l’altro. Si può giocare, guardare insieme la TV, parlare oppure stare in silenzio. Il nostro intento era quello di accogliere le persone dei centri in cui abbiamo vissuto il cantiere per farli sentire guardati non come persone in difficoltà, ma come persone, non piene di mancanze ma di punti di forza. 

La relazione autentica nasce quando vengono messi da parte i pregiudizi, le pretese, le aspettative. 

Quando ci si relazione con l’altro senza maschere ne filtri, e soprattutto quando l’altro viene considerato una persona alla pari. Dall’incontro tra due persone nasce sempre  uno scambio reciproco, un dare/ricevere spontaneo, forse anche inconsapevole, che alla fine rende entrambi più ricchi. 


Grazie ancora!

Elena 

martedì 28 agosto 2018

Serbia. Le leggi del viaggio

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A Krnjača ci sono troppe persone e troppi nomi da imparare; nomi per lo più ostici alla nostra lingua, tanto da costringerci a trovare dei variegati equivalenti. Una galleria di soprannomi, dunque, è uno dei primi strumenti che abbiamo elaborato in questa settimana; una collezione di storie, di persone che si portano dietro molte e dure “leggi di viaggio”.

1: non mettersi mai in viaggio con fratelli, mogli, fidanzate, genitori.

Il Falso Teenager compare un giorno in sala computer. Alla prima richiesta di età risponde “sedici anni”, ma davanti a un bel sorriso esce dal suo guscio schivo, ammette di avere un viso da uomo e trent'anni, una moglie e due figli a casa. Non vede la sua famiglia da quattro anni; non sa quanti altri anni passeranno prima di un incontro. Dice di non aver visto crescere i suoi figli, di sentire la mancanza di un semplice contatto, anche fisico, con la sua donna, che non può toccare ormai da moltissimo tempo.

10: poter contare sull'aiuto di un amico speciale con cui si è partiti o di cui si è fatta la conoscenza durante il viaggio, e sulla cooperazione all'interno di un ristretto gruppo di persone che si affratellano.

Nell'ultima baracca in fondo al campo c'è una stanza di amici speciali. Sono in quattro, si sono conosciuti durante il viaggio, e si sono promessi di non lasciarsi mai. O partono tutti, o restano tutti: nessuno verrà lasciato indietro. Prendono questa promessa talmente sul serio che, durante l'ultimo tentativo di superare la barriera della polizia alla frontiera croata, il più veloce fra loro ha deciso di tornare indietro per non rischiare di far catturare (e picchiare) l'amico più lento.
Il ragazzo che corre in fretta si chiama Deejay: dj lo era davvero, produceva musica, e il suo account su Instagram aveva raggiunto un milione e mezzo di followers. Di famiglia benestante, pulitissimo, i modi garbati, ha dovuto prima subire la morte di due fratelli, in un attentato suicida, e poi un sequestro da parte dei talebani, di cui aveva attratto troppo l'attenzione. Gli è stato sottratto tutto: casa, proprietà, macchine, l'account da cui lanciava la sua musica. Poi i talebani gli hanno chiesto di fuggire e di non tornare più.
Così è partito, più veloce della polizia di frontiera, al punto da riuscire a scappare ai poliziotti iraniani che volevano bruciargli la spalla con un ferro da stiro, un segno di spregio per tutti i clandestini. Ha trovato un buco nel soffitto, e ha tratto in salvo anche tutti i suoi amici.

17: mantenere viva la convinzione del perché del proprio viaggio.

Per entrare in contatto con il Giornalista ci mettiamo un po' più di tempo: è un ragazzo giovane, dai modi e dalla voce delicati, di buona famiglia, quietamente introverso. Poi troviamo la chiave che sblocca il dialogo: la sua passione. Il Giornalista è scappato perché a Kabul non poteva più proseguire gli studi, che per lui sono una parte di esistenza non secondaria: “la cosa più bella dell'imparare”, ci scrive, “è che nessuno può portartelo via”. Con la sua istruzione, di qualità più alta possibile, il ragazzo vuole fare buon giornalismo: vuole cioè raccontare tutto ciò che avviene di sbagliato o di brutto, nel suo Paese o altrove, perché il mondo sappia.


Le leggi da cui abbiamo preso spunto per affiancarvi esperienze di persone realmente conosciute sono tratte da La frontiera, libro del 2015 di Alessando Leogrande. Lo scrittore riporta 28 leggi elaborate da Sinti e Dag, due rifugiati etiopi che ora vivono a Roma. I due, dopo averle sperimentate in prima persona durante il loro viaggio di migrazione, hanno deciso di appuntarle per mettere in guardia chi sarebbe partito dopo di loro.
Mancano ancora molte leggi e molte persone all'appello: l'Astrologo, Borsello, il Fashion designer, La Donna con la croce, Andrea. Forse anche a noi mancano ancora molti tasselli, molto più tempo perché i tanti spunti di riflessione si concretizzino in un'azione, in un pensiero precisi.

Colpisce, intanto, in tutti questi casi, l'enorme distanza fra ciò che queste persone erano e ciò che sono; la perdita degli anni migliori della loro vita spesi in questo viaggio; e, contro ogni nostra aspettativa, la compostezza educata del loro dolore, il riserbo discreto nel quale celano tutto il peso della loro storia.  

Giulia, Ilaria, Michela, Stefano

lunedì 27 agosto 2018

Mombasa. "Ringrazio questi occhi di essere qui"

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Ringrazio tutto ciò e chi  mi ha portato a compiere questa scelta: partire per Mombasa.
Nulla accade mai per caso.
Tutto ciò che i miei occhi hanno visto, sono stati infatti un grande regalo per me. Un dono che mi ha arricchita e fatto riflettere tanto. Sicuramente ha segnato la mia vita! Mombasa mi ha insegnato tanto: tutto.
Mombasa è ricca di persone che ti guardano, non perché sei diversa, ma perché sei un nuovo membro da accogliere nella loro grande famiglia. 
Mombasa è luce, colore, profumi e polveri che ti avvolgono appena esci di casa. 
Mombasa è forza e tenacia, quella forza che vedi tra i volti  delle persone che trasportano con le proprie forze pesi e pesi di materiale su un carretto a 2 ruote; è la forza che vedi tra gli sguardi delle donne che lavorano per strada, curano i figli e preparano pranzi per i famigliari e gli uomini che lavorano nei cantieri per le vie della città. 
Mombasa è la velocità dei Matatu e dei Tuk tuk che ci hanno trasportato ogni giorno da Tudor a Kongowea. Proprio questi viaggi per le vie strette e affollate del quartiere sono stati significativi per me e lì i miei occhi hanno visto scene particolari, toccanti, inspiegabili e  a volte scioccanti.
Quando però arrivavo al Milkong's, il grest che abbiamo organizzato nella parrocchia di Kongowea, il sorriso dei bambini mi travolgeva. La gioia che traspariva dai loro occhi, quelle manine calde e sporche che mi alzavano per salutarmi e darmi il cinque erano splendide:questo era il loro grande saluto speciale. 

Questi bambini hanno arricchito la mia Mombasa: l'hanno resa ricca di gioia, felicità, sorrisi, ingenuità e tanta spensieratezza. Quell' ingenuità che si trasforma in intelligenza e dolcezza quando mi hanno detto di non dimenticarmi mai di loro, perché per loro ero stata speciale. Come dimenticarli e non amarli. 

Tutto queste emozioni  si sono accostate a molteplici riflessioni che nascevano appena incrociavo gli sguardi dei bambini del Mali Pa Usalama, il centro protetto per bambini vittime di abusi  dove abbiamo fatto servizio durante le settimane. Le storie passate di questi piccoli, trasparivano dai loro occhi e hanno travolto completamente la mia.
Mombasa è ricca di storia, cultura e religioni: questa cultura mi ha aperto la mente e fatto riflettere tanto.
Grazie Mombasa per essere così immensa: grazie per il tuo oceano che è stato spunto di riflessioni, pensieri, confronti, risate e ricordi di queste splendide settimane. Grazie ai volontari Kenyani che hanno vissuto accanto a noi questa splendida avventura: anche loro sono stati per me  un grande regalo. Mi hanno aiutato a capire quanto lo spirito di volontariato e aiuto verso il più prossimo sia  fondamentale e possa cambiare la propria vita: anzi darle un senso. 
Se Mombasa è apparsa così splendida ai miei occhi,  è anche grazie agli occhi dei miei compagni di avventura, che sono riusciti con i loro pensieri a mostrarmi le differenze, le sintonie e tutto ciò che ci circondava in modo splendido. La vera bellezza di questo viaggio è stata la condivisione: qua siamo riusciti a conoscerci, a mostrarci per quello che siamo e per quello che valiamo. Dunque grazie Fede Greta Ile Marta Marti Sara Tommy e un grazie speciale a Chiara e Greta che sono riuscite a condurci lungo questo splendido cammino di scoperta di questa terra.




Sono sempre qua a parlare e pensare a te Africa, come un ricordo, una seconda casa. Ciò che ho visto e provato sarà indimenticabile. 
Grazie per avermi accolta e fatta sentire parte della tua immensa famiglia. 
A presto!

Emma

venerdì 24 agosto 2018

Mombasa. Karibuni

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Da due settimane il nostro equipaggio è partito.
Siamo ora in Africa, in Kenya, a Mombasa meta da noi tanto attesa quanto desiderata.
Terra che ci sta regalando tante emozioni e sorprese. Il nostro team è formato da persone che non si conoscevano, che si sono ritrovate a dover essere gruppo, a dover vivere insieme e condividere quest'avventura ma che sembrano nate apposta per questo. 
Ci sono stati momenti felici, momenti di sconforto, di stanchezza, di fatica ma soprattutto momenti di collaborazione, di attenzione reciproca, di sostegno.
Il nostro team sembra ora una pazza famiglia.
Abbiamo conosciuto la realtà dell' MPU - Centro protetto per bambini vittime di abusi - abbiamo incontrato i suoi piccoli ospiti,i loro sorrisi enormi e le loro braccia felici di stringerci forte.
Abbiamo scoperto una realtà totalmente diversa dalla nostra; camerate puzzolenti e sporche dove i bambini dormono, armadietti rotti e disordinati dove loro tengono ciò che hanno.
Siamo rimasti stupiti quando li abbiamo visti, di prima mattina, pulire insieme. Secchiate di acqua venivano rovesciate sul pavimento e poi loro chini trascinavano lo straccio per pulire il pavimento, con piccole scope di saggina raccimolavano la sporcizia e poi con le mani la raccoglievano.
Le bambine preparano il pranzo per tutti, sparecchiano, sistemano e lavano i piatti a fine pranzo.
Questa è la quotidianità, i bambini imparano a cavarsela da soli.
Abbiamo conosciuto bambini feriti dalla vita, che hanno voglia di vivere e imparare, che amano ballare.
Abbiamo incontrato la realtà del Nyumba ya wazee -Centro residenziale per anziani- gestito da suore grazie alle donazioni ricevute, luogo in cui gli anziani più bisognosi possono trascorrere la loro vecchiaia.
Ci hanno accolto mani ruvide e forti, ci hanno accolto volti segnati dagli anni, sorrisi spontanei e sguardi curiosi.
Ci siamo lasciati travolgere, ci stiamo lasciando travolgere da questa ondata di accoglienza, inaspettata e allo stesso tempo sperata.
Abbiamo incontrato alcuni giovani di Kongowea, ragazzi della nostra età, con uno stile di vita molto diverso da quello dei giovani occidentali.
Ci siamo conosciuti, ci stiamo conoscendo e sta nascendo qualcosa di meraviglioso.
Viviamo in realtà diverse, siamo diversi per molti aspetti: la lingua, il cibo, i vestiti, le case in cui abitiamo, le strade che percorriamo, il lavoro che facciamo, il modo in cui studiamo, il colore della pelle. Sono totalmente diversi da noi ma qualcosa ci lega. Loro hanno verso di noi una cura e un'attenzione sorprendente. Si preoccupano se ci vedono stanchi, distratti o annoiati. Ci siamo sentiti, ancora una volta, a casa. 
Con loro abbiamo iniziato il Milkong's Festival nella Parrocchia di Kongowea, con loro collaboriamo per programmare i giochi da proporre  ai circa 200 bambini iscritti, con loro balliamo, facciamo animazione, impariamo a mangiare con le mani, impariamo lo Swahili, con loro ridiamo e scherziamo.
Questi giovani stanno dando un valore aggiunto al nostro viaggio, si stanno mettendo in gioco, stanno collaborando con noi ed il nostro equipaggio, grazie a loro, è più forte.
Si sono fidati di noi, ci hanno dato modo di inserirci nel loro gruppo, nella loro quotidianità. 

Abbiamo scoperto che l'incontro con l'Altro è possibile grazie all'ascolto reciproco, alla pazienza, abbiamo scoperto che comporta la capacità di mettersi in gioco, di mettersi in discussione. 
Abbiamo scoperto la gioia di sentirsi accolti, di essere gruppo, di collaborare insieme. 
Abbiamo scoperto che Mombasa è colori, oceano, safari, bambini sorridenti e Chiapati, Tuk Tuk, sporcizia, traffico, piedi scalzi per terra, case in lamiera, Moschee, Templi Indu e Chiese.

Sara.





Nairobi. Invisibili

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Quando parti dalla Comunità Papa Giovanni XXIII per andare a fare attività educativa di strada con i bambini non ti puoi immaginare cosa troverai al tuo arrivo.
I ragazzi che un tempo vivevano sulla strada e che ora sono accolti qui da Simone sono vestiti bene, puliti, parlano un buon inglese e sono molto affetuosi. Ti accompagnano in questa mattinata tenendoti per mano, abbracciandoti, chiedendoti di raccontare loro qualcosa sulla tua vita in Italia, facendoti da ciceroni tra le vie di un quartiere nel quale sembra meglio assicurarsi di non passare mai da soli.
Le loro risate e i giochi che accompagnano la buona mezz’ora di cammino si interrompono bruscamente quando in lontananza si inizia ad intravedere il campo da calcio: i sorrisi si spengono, le battute sciocche stonano e tu capisci che stai per entrare in un altro mondo, completamente diverso da quello in cui stavi vivendo fino ad un attimo fa, e che anche tu devi rallentare, guardarti intorno, respirare.
Il ragazzo che ti stava accompagnando si defila con lo sguardo basso e triste, e tu ti senti per un istante sola in mezzo ad un enorme campo da calcio fatto di terra battuta che rapidamente si sta popolando di persone di ogni tipo.
Senti saluti intorno a te, vedi mani che si stringono e abbracci.
Ti viene spontaneo cercare mani, presentarti, abbracciare.
E’ solo allora che ti accorgi di quelle bottigliette sporche e schiacciate che iniziano a creare il primo imbarazzo: dove la metto per salutarti? In bocca? In tasca?
Non ci fai caso, sorridi e ti presenti. Si cambia mano a volte per agevolare la cosa.
Poi ci si mette in cerchio, tutti insieme.
Noi volontari italiani (i bianchi), Simone, Ben, i ragazzi della Papa Giovanni e i bambini di strada.
Non è tanto il diverso colore della pelle che stona, quanto il diverso colore dei vestiti.
Candidi e puliti i nostri ( che già avevamo scelto dal nostro guardaroba quelli più malconci) e luridi e zozzi i loro, che anche con un sole cocente indossano uno sopra l’altro due paia di pantaloni e almeno un altro paio di magliette con tanto di giacca sopra.

Vestiti da lavare al Boma Rescue Center di Korogocho

Non perchè faccia freddo. Ma perchè quando vivi per strada non puoi permetterti di toglierti niente, perchè non hai un posto sicuro dove lasciarlo.

La formazione a cerchio richiede di utilizzare entrambe le mani per tenersi stretti l’uno all’altro. E la difficoltà iniziale riguardo al dove mettere la bottiglietta aumenta: i bambini, chi più e chi meno, sono tutti dipenenti da quella colla che esala dalla bottiglietta e non riescono proprio a separarsene nemmeno per pochi secondi.
Qualcuno risolve mettendola in bocca, qualcun’altro nello scollo della maglietta per averla sempre vicina alla bocca e al naso, pronta da sniffare.
Il bambino alla mia destra è invece alle prese con un pezzo di maglione lercio, impregnato di cherosene, che a intervalli regolari di pochi secondi deve respirare.
Stessa difficoltà della bottiglietta all’inizio, perchè sia io che Enrico gli tendiamo le mani, e per poterle stringere entrambe deve liberarle.
E’ il momento più difficile della mattinata: mettere da parte quel fagotto per qualche secondo o qualche minuto.
I ragazzi più grandi accelerano la procedura, prendendo a calci quelli che ancora non hanno messo via le sostanze. Fanno a pugni per un pò, poi tornano nel cerchio come se niente fosse.

La manica della giacca è un altro punto perfetto dove infilare colla e cherosene, perchè da lì è un attimo avvicinarla al viso.
Con la guida dell’educatore al centro, e a turno di qualcuno di noi “grandi”, facciamo riscaldamento generale prima della partita di calcio: salti, flessioni, giravolte, persino yoga!
Resto incredula nel vedere come questi bambini che continuano a sniffare riescano comunque a raggiungere performance soddisfacenti negli esercizi sulla coordinazione in movimento e sull’equilibrio.
Qualcuno proprio non ce la fa, e affronta ogni esercizio ridendo a crepapelle e divincolandosi a casaccio o arrovellandosi senza raccapezzarsi...ma qualcun’altro, soprattutto i più grandicelli, sembrano essere buoni atleti. Il mio cervello non riesce a capacitarsene.
Poi ripesca pian piano nozionilegate all’effetto dell’abuso delle droghe studiate all’Università.
L’assuefazione e il bisogno di aumentare sempre le dosi perchè le droghe possano avere l’effetto desiderato.
Li guardo, uno più fragile dell’altro, e non lo accetto: mi sembra tutto così ingiusto!
Com’è possibile che dei bambini così piccoli e indifesi siano già a questi livelli di dipendenza?

Poi scatta il meccanismo di difesa: il mio cervello decide di non vedere più la colla e il cherosene ma solo i bambini. Bambini (alcuni anche un pò cresciuti) con tanto bisogno di giocare e divertirsi, per i quali per questo paio d’ore siamo chiamati ad essere presenti al cento per cento.

E allora prima dell’inizio della partita di calcio io mi stacco dalle squadre in formazione per andare a raggiungere il gruppo di disegno.
Per la prima volta abbiamo portato qui foglie e pennarelli, ed è affascinate osservare da fuori i disegni che, liberamente, la loro creatività e immaginazione, mescolate alle loro storie di vita, stanno generando.
Ed ecco che sui fogli compaiono i primi tratti, prima indistinti e poi sempre più chiari.
C’è chi disegna un matatu in prospettiva perfetta, chi degli alberi, chi una casa e chi ancora un cane, fedele compagno che li protegge e scalda nelle notti fredde.
C’è chi rappresenta sè stesso come un omone grande e squadrato con una bottiglietta piena di colla stretta tra le mani e avvicinata al viso, chi cita il nome di una delle più diffuse gang giovanili di Nairobi, chi disegna un adulto e un bambino tristemente accompagnato dalla scritta “love is blind”...ma c’è anche chi, in mezzo a tutto questo, da vita ai sempre attuali e intramontabili Scooby-doo, Topolino, Spongebob.

Alcuni dei disegni dei bambini

Noi volontari oggi siamo davvero tanti, e mi accorgo che questo gruppo sta funzionando davvero molto bene. Faccio i complimenti ai bambini per le loro capacità artistiche e mi spingo un pò più in la, con il gruppo dei più piccini, dove altre volontarie stanno facendo animazone proponendo giochi e bans.
Mi aggrego a loro, cantando e ballando fino a che il sole, troppo forte per me, non mi costringe a ritirarmi all’ombra per prendermi una pausa.
Mi siedo a bordo campo, all’ombra di un piccolo edificio che sembra sia stato messo lì apposta per ristorarmi.

Da qui vedo tutto quello che succede attorno, e più di tutto mi colpisce l’atteggiamento dei ragazzini della Papa Giovanni XXIII, che si muovono lenti e spenti tra la folla attiva e brulicante di persone che giocano, cantano, ballano e chiacchierano.
Mi chiedo quali possano essere i loro pensieri venendo qui e rivivendo per qualche ora quella vita dura e maledetta che anche a loro è toccato sperimentare prima di trovare nella Comunità una nuova casa e famiglia accogliente e sicura in cui stare.
Li vedo spenti, quasi irriconoscibili rispetto al solito, guardarsi intorno come se non volessero più vedere quel mondo a cui fino a poco tempo fa anche loro appartenevano.
E’ nel mezzo di questi pensieri che mi si siede accanto S. che fino a poco tempo fa stava giocando con me nel gruppo dei piccoli, nonostante abbia almeno sedici anni.
Si mette a chiacchierare con me in un inglese perfetto che gli invidio e mi chiede tante cose su di me, sulla mia vita, sui miei progetti.
E’ una chiacchierata bella, sincera, lucida. Di quelle che non ti aspetteresti proprio con ragazzini sotto l’effetto di colla, con i quali la maggior parte dei discorsi sfiorano i limiti dell’assurdo, saltano di palo in frasca e faticano a trovare una conclusione logica.

Assisto ad una discussione tra alcuni bambini. Non capisco nulla di cosa stia succedendo, ma tra uno spintone, qualche calcio e sberla, uno di loro afferra un masso grande quanto due o tre mattoni, e minaccia di lanciarlo contro al suo avversario. Mi chiedo se le loro condizioni gli permettano di avere una percezione reale del rischio e soprattutto se riuscirebbero a controllarsi e a fermarsi prima di scagliarlo davvero.
Faccio un respiro profondo, mi alzo e con indifferenza glielo sfilo gentilmente dalle mani. Lui non oppone resistenza e continua concentrato a litigare. Ma a mani nude. E questo già mi pare un successo.
I cani sono sempre li che si aggirano intorno. Annusano, ringhiano, si avvicinano girandogli attorno quasi per calmarli.
I bambini li spostano, li spingono e li trascinano a sè, ci si siedono sopra a cavalcioni e li incitano a muoversi...insomma, gliene combinano di tutti i colori. Ma loro niente, sempre docili e tranquilli, intenti più a proteggere loro che sè stessi.

Un bimbo che avrà si e no quattro anni inizia a girarmi attorno.
Si avvicina, mi scruta, ma appena lo guardo scappa via.
Poi torna di nuovo, gli tendo la mano, e la scena si ripete almeno una decina di volte.
S. se la ride, e discutiamo così della paura dell’uomo bianco, così simile a quella che in Italia i bambini hanno dell’ “uomo nero”, una delle minacce preferite dagli ignari genitori, che senza volerlo iniziano a gettare nei cuori semi di una non innata paura del diverso.
Ride S. mentre gliene parlo.
Ma io, che ho bene in mente quello che nel frattempo sta succedendo nella “mia” Italia, non riesco proprio a fargli compagnia nemmeno con un sorriso.
Chiacchieriamo fitto fitto ancora per un pò, e nel frattempo il piccolino si avvicina passo passo.

Un altro bimbo, più o meno della sua età, mi sorride e mi si avvicina di più. Non scappa, lo invito a sedersi accanto a me. Giochiamo un pò con le nostre mani e ridiamo.
Lo stringo forte e lo annuso. Ha appiccicato addosso quell’odore di strada che riempiva la stanza del dormitorio a Como durante “l’Emergenza Freddo”, quando da volontaria restavo all’accoglienza a fare quattro chiacchere di fronte ad un thè caldo con chi nel resto della giornata non aveva avuto un posto dove stare. Erano sempre belle serate, ricche di giochi, musica, incontri e strorie incredibili, che avrei continuato volentieri ad ascoltare per tutta la notte.
Mi impressiona pensare che bambini così piccoli possano riuscire a sopravvivere alla dura e spietata vita di strada, fatta di freddo e di fame, competizione continua, abusi e sofferenze.
Vita di strada che è soprattutto assenza di quello che nelle lezioni di circo sociale ci avevano sempre raccomandato di aver cura di ricreare: uno spazio “sicuro e divertente”.
Resilienza. Qui la si può quasi toccare con mano.
Accarezzo e bacio la sua pelle sporca, anche per fare qualche pernacchia sul suo braccino.

I suoi vestiti pieni di terra rossa sporcano i miei e mi sembra di tornare a quando, in Madagascar, camminavo su per la collina rientrando a casa dopo un pomeriggio trascorso a giocare con i bimbi del Rambon-Danitra, e mi sembrava che tutti guardassero con stupore i miei vestiti sempre zozzi e un pò logori.

E mi ritorna in mente anche quel giorno in cui, sotto la pioggia, prestai la mia giacca al piccolo T. e poi indossandola sentivo di avere ancora addosso il suo profumo di bambino un pò selvaggio.
Quanta tenerezza in quei ricordi!

Intanto Simone mi chiama: per noi volontari è ora di salutare tutti e di andare via per raggiungere a piedi il posto in cui i bambini vivono...o meglio si rifugiano la notte.
Loro nel frattempo andranno con l’educatore a mangiare: a ciascuno di loro, al termine dell’attività, viene offerto un pranzo completo in uno dei piccoli “ristorantini” delle baracche del Ghiturai 45. Cinquanta scellini (meno di 50 centesimi) per chapati, riso, fagioli o cavoli, avocado e the caldo. Un lusso che molti di loro non possono permettersi mai, e al quale sopperiscono sniffando colla o cherosene (ben più economici) per non sentire i morsi della fame.

Saluto i miei nuovi piccoli amici, e quasi mi dispiace doverli lasciare e andarmene via senza di loro.
Cerco di immaginare, lungo la strada, come sarà fatto il posto in cui vivono.
Immagino un giaciglio nascosto, a bordo strada, magari riparato da delle lamiere, pieno di materassi disfatti e coperte di lana sporche.
Invece, arrivati ad una rotonda, Simone dice “eccoci arrivati, è qui che dormono”.
Mi guardo intorno con aria interrogativa...cosa mi sono persa? Forse ho capito male e ci siamo già passati. Essendo l’ultima della fila non mi sarò accorta.
Alzo lo sguardo e non voglio credere a quello che vedo. Gli occhi si sgranano e poi istintivamente si ritraggono. Non capisco se sia per l’incredulità o per rispetto, per non rischiare di posare lo sguardo troppo a lungo su quel luogo disperato.
E’ una rotonda enorme, uno spazio aperto e indifeso, di passaggio, al centro di un enorme incrocio sotto gli occhi di tutti, tutto il giorno e tutta la notte. Ma che nessuno vive davvero, a parte loro. Che restano invisibili.
Un “non-luogo” direbbe qualche antropologo moderno.
Le lacrime iniziano a spingere quando Simone ci invita ad alzare ulteriormente lo sguardo per scorgere, sopra alle nostre teste, i loro giacigli. Sono veri e propri tuguri, più simili a delle tane o a delle tombe che a dei letti. Piccoli spazi stretti e lunghi con le pareti di cemento, fessure tra una trave e l’altra di questo enorme cavalcavia, sospese a più di dieci metri d’altezza e raggiungibili solo arrampicandosi ai piloni con l’aiuto di una corda ormai sdrucita. Il vuoto sotto, l’autostrada a fare da tetto. Tra le due uno spazio concavo in cui infilarsi e sdraiarsi (troppo basso anche solo per starci seduti) da cui si vedono spuntare catini e coperte.

Passo in rassegna nella mia testa quel che so sulla Dichiarazione Universale dei diritti del Fanciullo, e quello che proprio continua a tormentarmi è il diritto di vivere in modo “sicuro”: garanzia di cure mediche e protezioni sociali, cibo, casa, divertimento. Ma cosa c’è di sicuro qui? Non sono forse anche loro bambini? Perchè ci sono bambini di serie A, fortunati e coccolati, che io da educatrice in Italia addirittura ho il divieto di far correre nel prato a piedi scalzi per non rischiare che si facciano male, e altri di serie B ai quali questi diritti non spettano nemmeno nelle forme più elementari, anche solo per garantirne la dignità di esseri umani, per non farli regredire a bestie, per far si che non vivano guidati sempre solo dalla crudeltà dell’istinto di sopravvivenza?

Rivedo le storie e le vite dei bambini che ho incontrato nella mia breve esperienza di educatrice in questi sei anni dalla mia laurea. Storie di incuria, abbandoni, maltrattamenti, abusi, rifiuti. Storie di dolore e sofferenza, a cui ogni volta mi dicevo “peggio di così non si può stare”. E mi arrabbiavo con il destino che a volte sembrava essersi accanito su piccole vite indifese.
Ma ora? Dov’è, se c’è, un limite al peggio? Qual’è la soglia di dolore e di sofferenza che la vita può infliggere e a cui si può riuscire a resitere?
Non è solo un’infanzia, ma anche un’umanità schiacchiata, calpestata, ignorata.
Che pur essendo lì, nel mezzo di una immensa rotonda cittadina, riesce a restare incredibilmente invisibile.

INVISIBILE. E’ questo che fa più male.

Mi sento colpevole per tutte le volte in cui sono di certo passata per rotonde e cavalcavia come questi e non ho visto nulla. Come è possibile? Forse non ho voluto vedere?
Il groppo in gola aumenta ancora quando Simone si avvicina ad un materasso sbattuto a terra sul quale, tremante sotto ad una coperta, spunta la testa di un ragazzino di una decina di anni.
E’ stato circonciso da poco, e dovrebbe stare in ospedale per evitare le infezioni, che in queste condizioni igieniche pessime sono all’ordine del giorno. La cosa più logica da fare sarebbe chiamare un’ambulanza o portarlo in ospedale e farlo ricoverare. Ma non si può: ne va del suo onore. E’ un rito di iniziazione all’età adulta a cui tutti i bambini devono sottoporsi per essere accettati. E non sarebbe giusto intervenire. Perchè dopo l’ospedale lui dovrebbe ritornare in strada, e senza la sua dignità e il suo orgoglio la vita per lui sarebbe ancora più dura.

Mi sento piccola e impotente.
Dovrei rispondere alle tante domande che i ragazzi del campo estivo di cui sono coordinatrice mi continuano a fare ininterrottamente.
E invece mi spengo. Voglio solo un pò di silezio. Chiedo loro un attimo di tregua: ne ho proprio bisogno.
Cammino lasciando andare avanti tutti quanti per poter restare finalmente un pò da sola con i miei pensieri e le mie domande, con la mia rabbia che non so placare, con le risposte concrete che sento di dover dare.
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Mi aiuterà Padre Maurizio, missionario comboniano che lavora in Kenya poco distante da noi e che ci regalerà un momento di riflessione al termine di una visita di alcuni centri per ragazzi di strada a Korogocho, ad interrogarmi davvero sulla mia responsabilità personale, sulla mia scala di valori, sulle mie scelte di vita.

“ Dobbiamo continuare a scandalizzarci! Non dobbiamo mai abituarci alle ingiustizie!
Dobbiamo decidere che persone vogliamo essere, che valori portare avanti...ad ogni costo!
Donando noi stessi, quello che siamo.
Vivendo una vita che valga la pena di essere vissuta. (...)
Non dobbiamo avere paura di rischiare!
Abbiamo troppa paura di perdere le nostre sicurezze
ma la domanda che dobbiamo farci è: ne vale la pena?”

  
Ora che ho visto con i miei occhi non posso più fingere di non sapere.
Sento di avere un mandato, una responsabilità personale a cui non posso e non voglio venire meno.
Ora che sono stata testimone ho il dovere di raccontare, di denunciare, di scegliere da che parte stare, di agire.
Soprattutto ho il dovere di scegliere quali siano i valori che voglio difendere e in quale misura io sia disposta a spendere la mia vita per essi, anche rinunciando alle mie sicurezze e ai miei sogni certa che, come ci ha testimoniato Padre Maurizio

“ Donare la vita agli altri non significa che te ne portino via un pò, ma che la si può condividere”
 ... moltiplicando la gioia!




Alice Viganò

giovedì 23 agosto 2018

Nairobi. L'arte di dare abbracci

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Il mio cantiere è fatto di incontri.
Quelli che ogni sera condividevamo ad alta voce intorno al tavolo di casa.
Sono tanti, troppi incontri, per poterli condividere tutti in un unico post, soprattutto quando si cerca di dare a ognuno il giusto peso. Ogni ragazzo di Cafasso, ogni persona di Kahawa e ogni detenuto della YCTC mi ha dato qualcosa che cercherò di conservare per il futuro.
Ho scelto perciò di raccontare di due incontri simbolici con due ragazzi che, in modo diametralmente opposto, sono entrati prepotentemente nei miei ricordi.

Kenya. Nairobi County. Kamiti Prison. YCTC.
Ho conosciuto I. il primo giorno in cui siamo entrati allo Youth Correctional Training Centre di Nairobi, il carcere minorile maschile dove due volte a settimana Giacomo e Alice svolgono il loro servizio. Quando lo vedo per la prima volta, I. mi fa quasi paura. Ha sedici, massimo diciassette anni, e mi si avvicina con lo sguardo furbo. Cerca subito il contatto fisico mentre io mi ritraggo: non sono ancora pronta per lasciarlo entrare nel mio spazio personale. Indossa dei jeans lisi e una canottiera bianca, simbolo del fatto che è ancora in attesa di giudizio, altrimenti avrebbe addosso una divisa. Ai piedi ha delle orribili ciabatte di plastica con solo il pollice coperto. Ciabatte che vedo ovunque ai piedi di chiunque.
Lo saluto con un sorriso e gli dico Habari?, cioè “Come stai?”, e poi mi scanso, mettendomi in un angolo del campo da calcio in attesa che inizi la partita. Vorrei essere più gentile e più espansiva, ma entrare in un carcere minorile maschile con più di cinquanta ragazzi è uscire decisamente dalla mia comfort zone.
I ragazzi che mi guardano incuriositi sono adolescenti, ma il loro sguardo, come lo sguardo di I., è quello di uomini già fatti e finiti. Provo a parlare con due o tre ragazzi in divisa blu e che fanno parte della mia squadra, ma uno mi chiama muzungu (bianca), fa un commento sul mio corpo e m’innervosisco. Non dovrei prendermela, è umano e siamo tra le prime ragazze – bianche – con cui questi ragazzi entrano in contatto; eppure non riesco a sentirmi a mio agio.
Scelgo di giocare a calcio perché so che per me è il modo più facile per interagire con un branco di adolescenti puzzolenti con gli ormoni su di giri. Io e I. siamo in squadre diverse. Io ho la maglietta, lui no. Io sono libera, lui è ancora in attesa di giudizio. Lui sorride, io sono nervosa. Mi sorride ancora e mi incoraggia con il pollice in su. Sorrido anch’io e cerco di non pensare alla paura, ma solo alla voglia di esserci e di non fare schifo a calcio. Il secondo proposito non è semplice. Mentre giochiamo, capita più volte che I. e io ci tiriamo delle spallate. Nessuno dei due ha dei piedi fini, ma entrambi non abbiamo paura del contatto. Probabilmente ho ancora il segno di una delle volte in cui mi ha tirato una gomitata per rubarmi la palla.
Finita la partita ci sediamo sul prato. Non ho più paura di lui dopo quelle spallate. Mi chiede se in Italia ci sono le zebre e se il sistema carcerario italiano è simile a quello keniano. Non so cosa rispondere all’ultima domanda, quindi ripiego sulla gastronomia. Mi chiede dei miei sogni e quanto costano le mie scarpe. Thirty euros?!, esclama basito. Per lui sono una somma di denaro con cui rifarsi tutto il guardaroba.
Sul prato abbiamo iniziato a conoscerci e a parlare. Sempre a distanza, io seduta da una parte e lui di fronte. Non ha mai più provato ad abbracciarmi e per questo riusciamo a chiacchierare di tutto. Glisso sempre sulle domande troppo personali, evito di chiedergli del suo passato, ma lui si apre e mi racconta tante cose, soprattutto di sua mamma. Chissà se tutto quello che mi ha raccontato sia vero. In quel momento per me è la verità e mi basta.
Alla fine del primo giorno lo saluto con una fraterna stretta di mano.
Lunedì 13. Non dimenticherò gli occhi lucidi e impazienti di I. quando viene chiamato da una guardia. Mi guarda e mi dice che deve andare dal giudice. Abbraccia Alice e mi saluta con la mano. Mi viene un groppo in gola e mi chiedo come facciano i servizio-civilisti a trattenere le lacrime ogni volta. Potrei non vedere più I. e parlare con lui di religione e chapati. Oppure potrei vederlo con la divisa blu, e quindi sapere che è stato processato per un crimine che effettivamente ha commesso. Non so cosa augurarmi, ma soprattutto non so cosa augurare a lui. Il carcere non si dovrebbe mai augurare a nessuno, ma penso che quattro mesi alla YCTC potranno forse portarlo a Cafasso e a  rimettersi in sesto. Non lo conosco abbastanza bene, ma mi piace pensare che si meriti anche lui una seconda possibilità. A Cafasso d’altronde si dice che there is no saint without a past nor a sinner without a future.



Mi è bastato quel primo giorno per affezionarmi a lui e per riconoscere il suo volto in mezzo a quelli dei tanti altri ragazzi che aspettano di sapere se indosseranno la divisa blu o se verranno rispediti nei loro fatiscenti quartieri in cui è difficile essere santi. Vederlo partire per l’ignoto ha sollevato in me più interrogativi che risposte e ho maturato sentimenti agrodolci, misti a un pizzico di saudade. Auguro a I. che la vita sia un po’ più buona con lui, a prescindere dalla sentenza, mentre un altro ragazzo mi riporta alla realtà del prato dentro la YCTC.
Ripensando a quella prima impressione, non avrei mai pensato che sarebbe stata questione di un attimo riconoscere il volto sorridente di I. tra le divise blu il giovedì dopo e che sarei andata io, per prima, ad abbracciarlo.

Kenya. Nairobi County. Kamiti Prison. St Joseph Cafasso Consolation House.
K. è un ragazzone ben piazzato, alto (ma questo vuol dire ben poco visto quanto sono bassa) e con uno sguardo vispo. Ha un senso dell’umorismo e un mondo dentro più grandi di quanto intuisco dai suoi lunghi silenzi. Con K. ho parlato per la prima volta dopo due settimane di cantiere e mi pento di non aver passato più tempo con lui.
Si è aperto con me lentamente, ma mi piace pensare che l’abbia fatto proprio perché volesse e non fosse costretto. Lui e N., piccolino nei suoi sedici anni, sono simili in questo. A inizio cantiere stavano appena sulla porta quando noi arrivavamo, troppo timidi o troppo orgogliosi per sedersi vicino a noi. Scappavano via subito per svolgere i loro duties: K. con le mie amate mucche e N. in cucina. 
Siamo diventati amici giocando in silenzio a carte, pronunciando in swahili a mezza voce i quattro semi. Sia ringraziata mia nonna che mi ha messo in mano un mazzo di carte prima ancora che imparassi a leggere!



K. fa braccialetti e sembra mio cugino, eccetto che per il colore della pelle. È un diciottenne fondamentalmente buono (goodness è la parola che gli ho scritto sul braccio l’ultimo giorno) e meno “paperottolo” di quello che vorrei ammettere. Se esiste una cosa su cui continuo ad arrovellarmi, è come sia possibile che un ragazzo come lui possa essere andato in carcere. Come lui, ma anche come N., NJ., M. e tutti gli altri ragazzi di Cafasso. K. con la divisa blu mi sembra stonare più del crème caramel con i cetriolini. Come può essere stato possibile?
K. sta quasi sempre in silenzio, ma, quando non è presente, la sua assenza entra nella sala comune e la fa da padrona. K., il nostro italiano onorario, mi manca anche ora nel silenzio della mia camera perché questo silenzio non è paragonabile a quello che condividevamo mentre spannocchiavamo al sole di mezzogiorno.
K. sono certa che trarrà giovamento da Cafasso e che avrà una seconda possibilità coi fiocchi. Se la merita davvero. Sebbene io non conosca il suo passato e non conoscerò il suo futuro, so che è proprio un bravo ragazzone di campagna che merita il meglio della vita. Da lui ho imparato lezioni per la vita che vanno al di là di mungere le mucche e fare braccialetti di perline un po’ pacchiani. Mi ha insegnato ad avvicinarmi a qualcuno senza bisogno di parole e a stare in ascolto nel silenzio, anche se io sono logorroica.
Non dimenticherò il tuo abbraccio, l’ultimo giorno, quando mi hai detto di tua spontanea volontà I will miss you. Quattro parole e un abbraccio che avranno per sempre un posto nei miei ricordi.
Asante sana, uomo pelato. 



Silvia Brambilla

Moldova: un tuffo nel Medioevo tra contraddizioni e bellezza

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30 Luglio 2018 – Volovița
Moldova. 
Quasi tutti noi conosciamo il nome di questo Stato o l’aggettivo ad esso collegato “moldavo/a”, magari utilizzato proprio in riferimento a qualche colf o alla badante di qualche nostro parente o conoscente. Ma cosa vi è dietro a questo vocabolo? 
L’esperienza dei Cantieri mi ha permesso di andare oltre la superficie e oltre gli stereotipi correnti, troppo semplicistici e semplificatori, per immergermi e penetrare in un contesto sociale ricco e complesso, ma anche contraddittorio. Ricco di culture, presenti e passate, di cui ancora si vedono le tracce: a Chișinău, la capitale moldava, block sovietici coesistono con le tradizionali casette basse ed edifici fatiscenti fanno da contraltare a ville e chiese maestose. Quest’ultime, anch’esse divise e facenti capo a due Credo differenti ed indici di un’influenza rumena ed una russa, presenti con tutte le loro problematiche. I cartelli pubblicitari e le insegne sono inoltre scritti in rumeno e a carattere cirillico. 
Ciò che apparentemente può sembrare un’accozzaglia di culture, istituzioni e lingue è in realtà uno zibaldone ricco di fascino, che mi ha conquistata sin dal primo giorno. Ricordo il momento esatto ho sentito di trovarmi all’ingresso di un una realtà nuova e avente molto da raccontarmi: mi trovavo sull’auto che dall’aeroporto mi stava conducendo nel cuore di Chișinău e al limitare della città ho scorto due edifici maestosi e simmetrici al lato della strada, le cosiddette “porte della città”. 
Mi sono parse pronte ad accogliermi, con il loro aspetto così simile alle “Vele” di Scampia, e cariche di promesse.

30 Luglio 2018 – Volovița
La mia esperienza in Moldova ha avuto luogo in particolare in due villaggi, Volovița e Florițoaia Veche. Entrambe realtà molto piccole, isolate e povere ma pronte e desiderose di accogliere me e il gruppo di cui ho fatto parte, e di raccontarsi. Villaggi isolati dunque, ma caratterizzati da tanto calore umano. Quel calore umano e quell’umanità che nella vita di tutti i giorni sento che vengono a mancare; giocoforza la frenesia, la cieca focalizzazione sui propri bisogni e obiettivi e un contesto globale, frammentato e competitivo come quello in cui viviamo.

Eppure Volovița e Florițoaia Veche, nella loro povertà e sottosviluppo più estremi, mi hanno ricordato il significato dell’essere accolti e quello della parola speranza. Speranza, che ho letto negli occhi dei bambini ma anche dei Părinți di riferimento delle comunità, impegnati a conoscere e riconoscere ogni persona nella propria singolarità e a conservare quel legame sociale tra persone e tra persone e territorio, credendo fermamente che questa sia la sola chiave per andare avanti. Sono partita con l’idea di accogliere i bambini e le persone che avrei incontrato; invece ho sperimentato l’essere io stessa accolta. Accolta dai miei compagni di avventura, i volontari italiani e quelli moldavi, accolta dalla comunità, con sorrisi e con l’immancabile vino fatto in casa, conservato in bottiglie di plastica. Accolta anche dai bambini, nella loro semplicità. Per loro tutto è un gioco. Non importa da dove tu venga o il tuo status socio economico; loro non si pongono domande di troppo ma accolgono con il loro desiderio di vita e la loro più pura loro vivacità. 
I bimbi, loro si che mi sono entrati nel cuore insieme all’insegnamento che mi hanno trasmesso: basta poco, basta ricordarsi della Meraviglia e di meravigliarsi, basta la bellezza per salvare questo mondo. La domanda che dunque mi è sorta spontanea è stata: “chi accoglie chi?”

3 Agosto 2018 – Volovița
Pochi giorni fa, ho assistito ad una scena che mi ha fatto riflettere. Mi trovavo in una macelleria con la mia famiglia per acquistare la carne in vista della tipica grigliata di Ferragosto. C’era in coda una mamma con un bambino che avrà avuto 4/5 anni che piangeva poiché il papà si era allontanato. In quel momento, ho realizzato che in due settimane in Moldova non ho mai sentito un bambino piangere, se non al momento dei saluti. Da un lato reputo ciò una cosa molto bella, ma dall’altro penso sia davvero strano che bimbi anche molto piccoli non abbiano mai pianto. Ritengo dunque che essi siano temprati dalla vita, che debbano imparare a cavarsela e ad essere autonomi.. così come Asia, bimba di 8 anni che doveva prendersi cura del fratellino più piccolo poiché i genitori sono in Italia e loro a Volovița con i nonni. Lei mi ha insegnato a lavare gli indumenti a mano, cosa fuori dal mio mondo, e nonostante la sua forza e schiettezza, mi ha trasmesso l’idea di una bimba senza il diritto di essere bimba. 
Tutto ciò è il villaggio, ma lo sono anche i pozzi, le tipiche casette azzurre, le galline che pascolano libere e le capre legate agli alberi sul ciglio della strada per le corna, i crocifissi in stile ortodosso presenti a quasi ogni incrocio e lo è anche il giro che ho fatto su un carretto cigolante trainato da un cavallo, insieme al Părinte di Florițoaia Veche e ai miei compagni di viaggio. Tutto questo è la vita di villaggio; è un ritorno indietro nel tempo, è riscoperta.

2 Agosto 2018 – Volovița
In conclusione, sono partita per la Moldova curiosa, desiderosa di incontrare, scoprire, turbarmi, meravigliarmi, riflettere e scoprirmi. Nel mio cuore non c’era spazio per la paura; lasciarmi andare alle emozioni non è stato dunque difficile. Piena, ricca di gioia, sorrisi, colori: ecco come sono tornata a casa. È con tanta voglia di raccontare, certo. Una cosa l’ho imparata: l’importanza e la bellezza del fidarsi. Ho imparato a fidarmi dei bambini, del carretto fatiscente con cui ho percorso strade accidentate in mezzo alla natura più incontaminata, dei miei compagni di viaggio e ho così riscoperto come solo riponendo fiducia nell’altro si può costruire qualcosa di davvero bello, qualcosa da cui partire, qualcosa con cui costruire la vita. 


15 Agosto 2018
Lidia Biondi



Nairobi. Giornata a Ghiturai 45

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Githurai 45

Rendo pubblica una pagina del mio diariodiviaggio: racconta una delle giornate più intense vissuta durante il #CantiereNAIROBI.

8 Agosto 2018

Scrivo questo post appena rientrata da Githurai 45, una tenuta che si trova al confine della contea di Kiambu e della contea di Nairobi, lungo Thika Road.
Giusto il tempo di farmi una doccia approfittando dell’acqua corrente che domani potrebbe non esserci più. Qui a Kahawa West in questo periodo l’acqua corrente è garantita solo un giorno a settimana, solitamente il martedì. Oggi è mercoledì, quindi siamo fortunati.
Essendo in dieci ogni martedì dobbiamo riempire le taniche di riserva e i boccioni da venti litri, per avere acqua in caso di necessità.

Sono tornata a casa da poco e non so dire esattamente cosa provo. La visita a Githurai 45 mi ha sconvolto, turbato.
Sono arrabbiata
triste
de-moralizzata
delusa
scardinata.

Ma andiamo con ordine. Sveglia ore 7:00. Come ogni mattina Giacomo irrompe nelle nostre camere preparandoci al nuovo giorno con una pistola d’acqua.
Si prospetta una giornata impegnativa. Non tanto fisicamente, quanto a livello emotivo.
Destinazione: Githurai 45.
Simone, responsabile di una comunità per bambini di strada gestita dalla Papa Giovanni XXXIII, ci aspetta alle 10 nella loro sede, la “G9”, vicino alla baraccopoli di Soweto, a sud-est di Nairobi.
Ci incamminiamo verso Githurai 45 insieme a lui, ai volontari che stanno svolgendo il servizio presso questa comunità e ai bambini che vi vivono. Uno di loro, John [i nomi dei bambini in questo articolo sono stati modificati per rispettare la loro privacy, nda], mi prende per mano con tanta naturalezza prima di uscire dal cancello, senza dirmi una parola, stringendomela forte.
Abbiamo raggiunto il campo da calcio in venti minuti circa e per tutto il tempo siamo stati mano nella mano passando attraverso
baracche
fango
immondizia
sporco
acqua putrida e puzzolente
capre
mucche
donne che cucinavano per terra
bambini che facevano la pipì in mezzo ai rifiuti
odore di marcio
di cibo putrefatto
rifiuti organici
bambini seduti per terra, nel fango, con vestiti strappati e nemmeno della loro taglia e sesso.

Si stacca da me solamente una volta arrivati al campo da calcio a cui eravamo diretti solo perché devo presentarmi ad un ragazzo stringendogli la mano: mi serve proprio la destra.

Durante il tragitto abbiamo parlato tanto: nel pomeriggio sarebbe tornato a casa dalla sua famiglia a Kahawa West, nello stesso quartiere dove alloggiamo noi di Caritas. Tornando verso casa, infatti, l’ho rivisto appena fuori da un supermarket e ci siamo salutati.
Il campo di calcio. Un campo di terra rossa. Terra rossa che sporca tutti indistintamente.
Terra rossa sui vestiti
Terra rossa nei capelli
Terra rossa sotto le unghie
Terra rossa sulle scarpe
Terra rossa sulla parte di caviglia tra la scarpa e il pantalone che inevitabilmente rimane scoperta
Terra rossa sullo zaino
Terra rossa negli occhi.

Ci sono decine di bambini. Entro nel campo, sempre tenuta stretta da John.
Una delle figure che più mi colpisce è quella che io credevo essere una bambina.
Indossa una felpa rosa col pelo nel cappuccio
jeans rotti e strappati
infradito rosa.
Sotto la felpa si intravede il colletto di una camicia a quadri rossi bianchi e neri.
Aveva i capelli molto corti
gli occhi gialli
la bava alla bocca
cammina ciondolando
è molto sporca
puzza
completamente ricoperta di terra rossa
terra rossa sotto le unghie delle mani e dei piedi
una ferita rimarginata da poco sul polso, di un colore che fa pensare ad una possibile infezione in corso
e una bottiglietta di plastica molto sporca
contenente colla.
Sniffa colla in continuazione, senza tregua

[Un problema molto diffuso qui è l’uso e conseguente abuso di colla e cherosene. Costano molto poco, meno del cibo, ed eliminano la sensazione di fame.]

è completamente drogata
anestetizzata
lontana dalla percezione della realtà.
Parla in swahili lentamente e in modo cantilenante. Al mio “Habari!” Ciao, come stai? risponde “Nzuri sana” Sto molto bene!.
Solo in un secondo (o terzo?) momento scopro che è un maschietto, un bambino.
Mi hanno tratto in inganno la felpa e le infradito rosa, oltre al suo sguardo enigmatico e perso.
Mi dice di chiamarsi James, anche se gli altri bambini lo chiamano diversamente. A me piace ricordarlo come James.
James non è il solo con la bottiglietta di colla in mano. La maggior parte dei bambini e ragazzi ne ha una, insieme ad un fazzoletto intriso di cherosene.
James e gli altri hanno costantemente in bocca e sotto il naso la colla. Non la spostano nemmeno un momento, nemmeno mentre ti rivolgono la parola. A tratti la nascondono tra le due clavicole, sotto la felpa, quando le mani devono essere obbligatoriamente libere.

Ci mettiamo in cerchio per iniziare i giochi. James viene accanto a me, alla mia sinistra e mi prende per mano.
La stringe forte.
La sua mano è sporca
è ruvida
ma mi stringe forte.
In una mano ha la mia
nell’altra la colla.
Mi lascia per un istante per poi riattaccarsi incrociando le sue dita con le mie.
Mette la colla sotto la felpa in modo tale che abbassando il mento sarebbe riuscita comunque ad inalarla. Con l’altra mano mi accarezza il braccio, alza la testa e mi guarda con i suoi occhi spenti e gialli, che ogni tanto (forse inconsciamente) gira all’indietro.
Occhi che non appartengono ad un bambino di nove anni.
James mi guarda
sorride
sbava
e continua ad accarezzarmi il braccio.
Guarda le mie unghie e le mie dita, pulite. Mette accanto la sua mano come volesse confrontarle.
Io lo lascio fare, e lo guardo sorridendo.
Il tutto penso non sia durato più di 15 minuti, ma a me è parso un’eternità.

Dopo un paio d’ore di giochi Simone ci propone di mostrarci il posto che i bambini e ragazzini di strada utilizzano come “base”, dove vivono come una famiglia proteggendosi a vicenda. È un grande spiazzo di cemento al di sotto di un ponte.
Puzza vomitevole di rifiuti organici
immondizia
terra
fango.
In quel momento c’erano solo tre bambini.
Uno di loro era sdraiato sopra ad un pezzo di cartone, sotto ad una coperta leggera. Non riesce né a camminare né a stare seduto.
È stato circonciso pochi giorni fa in ospedale e rimandato a casa (in strada) dopo due giorni. La ferita non si cicatrizza e ha fatto infezione.
Un altro bambino ha la sua bottiglietta di colla e non la toglie da sotto il naso nemmeno per un istante. Dice di consumarne una al giorno.
Questi bambini dormono lì
sotto il ponte
incastrati nelle fosse tra l’asfalto e l’immondizia
usando vecchie gomme d’ auto come cuscini
tra le travi in cima ai pilastri che reggono il ponte.
Attaccate ad ogni pilastro ci sono delle corde che i bambini usano per salire a 12 metri di altezza.
A quest’altezza ci sono cartoni, bottigliette e ciabatte
segno che lì qualcuno prova a vivere
o a sopravvivere.
Mi allontano da questa “base” insieme agli altri ragazzi, salutando personalmente i tre bambini.
Aspetto che anche il ragazzo sdraiato, poco più lontano, mi veda. Ho qui e ora davanti agli occhi l’immagine del suo saluto:
un piccolo cenno con la testa e uno sguardo rassegnato.
I miei occhi sono gonfi di lacrime.
È difficile accettare il proprio essere impotenti di fronte ad una realtà così devastata ed ingiusta.

Ci incamminiamo verso Soweto. Attraversiamo un ponte, una decina di metri sopra ad un fiume color marrone sporchissimo entro cui alcuni bambini sguazzano gridando e tre donne lavano i panni.
Il fiume passa attraverso campi verdi coltivati dove lavorano molte persone. In lontananza inizia a scorgersi Soweto.
Ho pianto tanto
Di dolore e di rabbia.
Ricordo esattamente il nodo che avevo in gola mentre camminavo tra le baracche.
Un nodo grandissimo
Soffocante
Intriso di tutte le parole indicibili e impronunciabili in quel momento.

Mi è venuto spontaneo fare un confronto con i nostri bambini:
bambini che hanno una mamma
bambini che hanno una famiglia
bambini che hanno un tetto sotto cui dormire
bambini che sanno leggere e scrivere
bambini che hanno più di un pasto al giorno garantito
bambini che possono cambiarsi i vestiti se questi sono sporchi
bambini che possono bere un bicchiere d’acqua se hanno sete
bambini che possono infilarsi sotto una coperta calda se sono ammalati
bambini che possono fare una doccia
bambini che possono giocare
bambini che la domenica vanno al parco col la mamma e papà.

Gli street children sono bambini che non hanno il diritto di essere bambini. A Nairobi sono decine di migliaia.
Bambini senza mamma e papà
Bambini abbandonati in strada all’età di tre anni
Bambini figli di atti di prostituzione
Bambini senza un letto su cui dormire
Bambini senza un tetto sotto cui ripararsi
Bambini senza un posto che possono chiamare casa
Bambini che sono costretti a rubare, per sopravvivere
Bambini che leccano i sassi, per il disperato bisogno di avere qualcosa sotto i denti

È grande il senso di impotenza che provi davanti a queste realtà.
È grande e ti distrugge ti logora. Cosa puoi fare tu?

Così finisce la mia pagina di diario di quel giorno.

Recentemente ho letto in “Korogocho” di Alex Zanotelli, padre comboniano che ha vissuto dal 1994 al 2002 proprio nella baraccopoli di Korogocho, una definizione di missione che mi ha colpito molto e che condivido totalmente: Mission is to sit where people sit and let God happen, “Fare missione è sedersi dove la gente si siede e lasciare che Dio avvenga.”.
Forse la risposta a questo senso di impotenza è proprio questa: non possiamo pretendere di salvare il mondo facendo grandi cose. Possiamo partire dallo stare, anziché dal fare.
È una cosa che ho sperimentato tanto durante queste tre settimane e non c’è niente di più vero.
A chi da casa mi chiedeva “Cosa hai fatto oggi?” spesso rispondevo “sono stata con i ragazzi”.
Sono stata ad ascoltare le loro storie i loro sogni progetti speranze e ho condiviso qualcosa di me, affinché fosse una vera condivisione e scambio.


Quando sono partita per l’Africa ero consapevole che avrei trovato tanta povertà, ma finché
non la vedi con i tuoi occhi
non la tocchi con le tue mani
non sai davvero cos’è. E una volta incontrata non puoi più far finta di niente, voltarle le spalle e aspettare che siano gli altri a fare il primo passo per cambiare qualcosa.
Devi esserne testimone
Devi uscire dal bozzolo
Devi fare qualcosa affinché la vita vinca.


Elisa De Capitani