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martedì 9 febbraio 2016

A peaceful place

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Una parte fondamentale del mio servizio a Mombasa si svolge in un rescue centre chiamato “Mahali pa Usalama”. Un posto di pace, appunto.

Qui vengono portati per provvedimento giudiziario bambini che si trovano in situazioni di emergenza. Questi bambini sono stati vittime di violenze, abusi di vario genere o abbandonati dalla famiglia di origine, vittime di trafficking e altro ancora; vengono mandati al centro per un periodo più o meno lungo, quanto è lunga la giustizia e la burocrazia kenyota e a seconda della difficoltà del caso.

La mia giornata tipo al centro si svolge così: arriviamo al mattino presto e troviamo i bambini impegnati nelle pulizie di tutta la casa, poi alle dieci iniziano le ore di lezione. 'Classsss!' urla l'housemother e via tutti a sedere.
Boom!, con queste lezioni mi sono ritrovata catapultata in mondi che non pensavo di ricordare. Come si insegnano le divisioni e le moltiplicazioni? Senza regoli né abaco mi sono dovuta arrangiare con palline e stecchini disegnati su un foglio che si riproducono a piacere! E come glielo insegno a un bambino che parla kiswahili (dove le vocali si pronunciano e leggono esattamente come in italiano) a leggere in inglese, dove una 'u' iniziale si legge 'a' e altre simili stranezze fonetiche??? Ci arrangiamo insomma, tra italiano inglese kiswahili e la lingua dei gesti.

All'ora di pranzo mangiamo con i bambini farinata di mais (ugali per gli esperti!) e fagioli, fagioli e mais, fagioli e riso, fagioli&fagioli, lenticchie e, nel giorno della dieta bilanciata, (udite udite) una patata, cavolo e un minuscolo pezzo di carne! Il tutto ovviamente condito con insettini di ogni tipo. Nonostante questa presentazione vi giuro che è tutto molto gradevole!...più o meno.

Nel pomeriggio e nei momenti liberi giochiamo, parliamo, balliamo, cantiamo, facciamo lezioni di gym e di canti all'italiana (tipo 'il cocomero tondo tondo' o 'jack in cucina con tina') e chi più ne ha più ne metta.

La parte più bella di questo servizio è lo 'stare'. Stare sotto un albero seduta a non fare niente tutti insieme, a parlare con le ragazze che mi fanno un sacco di domande assurde sui bianchi e mi raccontano le loro passioni, interessi, sogni o mi chiedono di raccontare fiabe e racconti. Stare vicino a loro, anche fisicamente, con un abbraccio, una carezza, un 'vola vola' coi più piccoli: cose normali che loro molto probabilmente non hanno mai avuto. Stare che significa interessarsi, tenerci a qualcuno anche solo per pochi giorni o un mese, far vedere che c'è dell'altro rispetto a quello che la vita ha riservato loro finora. Stare e non abbattersi, anche quando i bambini non hanno voglia di parlare o sentono la mancanza del mondo esterno e sono arrabbiati con tutto e tutti, stare anche quando proponi un'attività e nessuno ha voglia di seguirmi.
Stare e guardare con occhi puliti chi si ha di fronte, vedendo soltanto un bambino come ogni altro, che ride di niente e piange per un capriccio.

Mari



giovedì 10 dicembre 2015

"Quanto dista Roma dall'Italia?"

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sei sposata”
quanti figli hai?”
quanto dista roma dall'Italia?”
ma da voi ci sono gli street children?”
davvero c'è disoccupazione in italia?”
ci sono le sirene da voi?”
ma anche tuo padre è mzungu(bianco)?”

Queste sono alcune delle tipiche folli domande che ci vengono fatte da quando siamo arrivate. E il problema è che è difficile rispondere. Se fossi in Italia magari riderei al solo sentirle, ma qui alcune non fanno poi tanto ridere. Però queste domande, e le relative risposte rappresentano un incontro. 
Mi sono interrogata spesso sul senso di cultura intercultura intracultura ma, come dire, finché non ti trovi nel mezzo a tutta questa roba non capisci fino in fondo. E tutt'ora continuo a chiedermi: cos'è la cultura? Che forma ha? È come uno zaino di cui ci portiamo il peso sulle spalle o come un paio di occhiali attraverso i quali guardiamo il mondo o come un corso d'acqua che cambia continuamente forma ma viaggia sempre sullo stesso percorso. Certo quest'ultima immagine sembrerebbe la più adatta all'incontro con le altre culture (immagino dei corsi d'acqua che si incontrano si mescolano si ridividono). E' anche vero però che l'acqua è un elemento troppo libero per paragonarlo ad una cultura che a volte sembra più una corda.

Ci provo con tutta te stessa ad essere priva di giudizi ad abbracciare la cultura che mi ospita con estrema umiltà apertura e voglia di imparare ma, ogni tanto, non posso fare a meno di arrabbiarmi, imbarazzarmi, sentirmi frustrata, spiazzata, meravigliata o senza parole. Quel poco che ho capito da quando sono qui è che devo togliere i miei occhiali e cambiare modo di vedere le cose. Ogni volta che mi sembra di aver capito qualcosa, sono costretta a cambiare direzione di pensiero e ricominciare il ragionamento da capo.

Ad esempio, una questione che mi ha profondamente spiazzato nonostante la mia preparazione, e mi fa salire una rabbia folle, è il convivere con bambini che vivono in strada. Gli street children. La società, la comunità, il vicino di casa, io stessa e il mondo intero, chiunque dovrebbe avere il dovere in quanto essere umano di aiutare e prendersi carico di un bambino che non ha una famiglia e un posto dove stare.
È contro natura per il mio modo di pensare, e invece qui è il quotidiano. E questo vale per gli slum, la gente che vive nelle discariche e molte altre forme di povertà estrema che si trovano qui. E questa povertà qui convive a braccetto con il lusso o comunque con certi stili di vita a là occidentale. Tra questi estremi ci sono io che non riesco a collegarli, non sono capace di capire come possano coesistere. Anche da ciò ho capito veramente quanto la nostra etica sia strettamente collegata alla piccola realtà nella quale viviamo. Molto probabilmente non devo capire, solo accettare questa realtà così com'è, ma anche questa non è cosa da poco.

Poi per esempio rimango colpita, non in senso negativo, dalla apparente inerzia di molti uomini che se ne stato tutto il giorno fermi sdraiati da qualche parte o a giocare a dama. È strano da vedere per me che vengo da una società nella quale se non corri sei un vagabondo, uno scansa fatiche, un poco di buono. Da noi tutto è scandito da orari: quelli delle lezioni, del treno, del cinema, del lavoro...
 Qui il tempo ha un senso diverso e quando provo a pianificare qualcosa c'è un imprevisto che fa sballare i miei piani. E anche la reazione della gente alle avversità è una cosa che mi stupisce enormemente. E non sto parlando di fatti gravi, solo di cose semplici della vita di ogni giorno: l'autobus che prendi fa un incidente, si incaglia in una delle immense voragini della strada, viene fermato dalla polizia che fa scendere tutti oppure si ferma in mezzo al niente tra Malindi e Mombasa e non riparte più (parlo per esperienza personale...). 
Ecco la gente in questo caso che fa? Niente. Si ferma e aspetta che tutto si risolva. Nessuno urla, nessuno impreca, nessuno perdere la pazienza. Tutti aspettano che la situazione si risolva. Perché qui in Africa prima o poi sembra trovarsi una soluzione per tutto. E le attese vuote sembrano non dar fastidio proprio a nessun mentre a me hanno sempre creato una certa dose di ansia.

In ultimo, mi meraviglia la città in cui vivo. Mombasa è un luogo dalle mille facce che mi stupisce in continuazione. Giri l'angolo e sembra di stare in Medio Oriente, poi nella savana africana, in un villaggio masai, in un resort extralusso di qualche isola caraibica, di fronte alla peggiore discarica o in India a pregare in un tempio indu. Qui convivono 42 tribù con altrettante lingue diverse e un discreto
numero di religioni e usanze religiose diverse, tutte le gradazioni di pelle che si possono immaginare e tanto altro ancora. E tutto ciò avviene in maniera naturale. Vedere queste interazioni ha su di me un effetto molto potente perché ritengo di appartenere ad una cultura generalmente omogenea e omogeneizzante. Lo società in cui vivo richiede la omologazione a valori, tradizioni e interessi comuni e poco differenziati. E l'integrazione è una parola spesso priva di significato concreto o comunque che contiene molti ambigui significati.

Per questo mi sento spesso in difetto, come se la mia cultura di appartenenza non fosse abbastanza allenata all'incontro con questo mondo e questo immenso agglomerato di culture, apparentemente schizofrenico ma, in un suo modo bellissimo, dotato di incredibile armonia. Riassumendo, il rapporto della mia cultura, qualunque forma essa abbia, è fatto di costanti contraddizioni, momenti bellissimi di incontro e meraviglia e momenti di forte rabbia e frustrazione. 




Sarà questa costante contraddizione che mi rende ogni giorno più affamata di stare qui. 

Mari

giovedì 12 novembre 2015

Mekatilili, una storia di resistenza kenyota

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Pochi giorni fa Angela e io siamo state a Malindi, alla scoperta dei progetti dell'ONG Coast Inter-faith Council of Clerics Trust con cui collaboreremo in quest'anno. Questa si occupa tra l'altro portare avanti una serie di progetti sociali che abbiano come approccio quello della collaborazione tra appartenenti a fedi diverse per la costruzione di una società più pacifica e inclusiva. www.cicckenya.org 


Per prima cosa, siamo andati a visitare un centro culturale della tribù Mijikenda intitolato a Mekatilili” di cui vi dirò qualcosa tra poco.

I Mijikenda sono un gruppo etnico di origine Bantu  presente soprattutto sulla costa del Kenya e praticano una religione animista tradizionale. La tribù dei Giriama è quella più numerosa tra i Mijikenda. Questa popolazione viveva (e in alcune zone rurali vive ancora) in capanne di legno e paglia nelle quali tengono al sicuro anche tutti i loro averi e i loro animali durante la notte.


Nella loro religione i sacerdoti hanno un ruolo molto importante. Quando uno di loro muore viene sepolto sotto un albero che incorporerà il suo spirito e diventando quindi un luogo di culto, un luogo di contatto con Dio. Le loro icone sacre sono delle asticelle di legno che rappresentano ognuna un diverso spirito divino.

Una questione di particolare interesse che è venuta fuori è il ruolo degli anziani all'interno della tribù. Se da una parte questi sono molto rispettati perché dotati di particolari sensibilità, dall'altra negli ultimi anni sono in costante pericolo. Gli anziani, infatti, possono facilmente essere accusati di stregoneria, anche solo per uno sguardo storto alla persona sbagliata, e per questo uccisi. Questo centro ha tentato dal 2010 (anno in cui le uccisioni son state più di 300!!) di “salvare” degli anziani in pericolo: quelli che vengono allontanati dalle famiglie o che sono ritenuti in pericolo vengono presi in carico e qui vivono serenamente i loro ultimi anni.

Mekatilili, personaggio storico che ha dato nome al centro, è stata la prima donna a essersi ribellata alla colonizzazione britannica nel 1913. La sua storia dice che un comandante britannico fosse andato nel suo viaggio a reclutare uomini da mandare in guerra a ovest del Kenya. 
Questa donna, vista l'inerzia degli uomini del suo villaggio decise, di affrontare i britannici personalmente, ma non conoscendo la lingua usò gli animali per farsi capire. In una cesta portò una gallina con i suoi pulcini davanti al comandante e lo invitò a prendere un pulcino. La mamma chioccia inferocita attaccò la mano del comandante. Con quest'espediente Mekatilili fece capire al comandante britannico che se avessero preso i loro figli, le donne del villaggio sarebbero scese 'in guerra' per difenderli. La storia continua con Mekatilili che viene incarcerata per ben due volte in luoghi lontani dalla sua tribù e per due volte riesce da sola a evadere e tornare a casa a piedi.
Non so quanto di vero e quanto di leggendario ci sia, resta il fatto che una donna è ricordata come uno dei primi eroi della resistenza kenyota e del risveglio del popolo Mijikenda contro i dominatori britannici. Un donna, ripeto. Mi sembra un fatto importante da ribadire più e più volte perchè la società kenyota vista la sua forte struttura patriarcale, come moltissime altre - ancora troppe, ha bisogno di una differente narrativa sulla donna è quasi sempre l'ultimo anello su cui si ripercuote tutta la violenza e la frustrazione sociale e individuale. 

E poi è sempre bella una storia di resistenza, figuriamoci se ha una donna come protagonista.


Momento imbarazzo: 
Giriama Girls ;)


Mari

sabato 17 ottobre 2015

Karibu Kenya! Benvenuto a me.

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Scrivo questo post dal letto della mia nuova camera. Dal letto del mio nuovo mondo almeno per il prossimo anno. Sono in Africa da otto giorni e solo ora ho la testa un po' più libera per fermarmi un attimo a scrivere.
Sono stati otto giorni folli intensi meravigliosi e disperatissimi. Ho sperimentato in poco tempo non dico tutta la gamma delle emozioni possibili, ma quasi. Entrare in contatto con un nuovo mondo, così diverso dal mio mi ha mandato in confusione, e così ho capito che tutta la mia preparazione mentale a quest'incontro è stata inutile. La realtà è un'altra cosa. Tutto mi ha stupito, tutto ha lasciato un segno. Ci sono cose che adoro, cose che odio, cose che non accetto e non capirò mai. Però mi hanno detto che il punto della mia esperienza e delle scelte che faccio sta proprio lì: nell'imparare ad accettare le cose che non posso capire. E conviverci nel miglior modo possibile. 

Resoconto tragicomico di questi otto giorni.

Giovedì 8 ottobre

Sveglia ore 4.30 am. Tutttttapposto. 8 ore di aereo Parigi-Nairobi simpatiche in cui non sono riuscita a dormire un minuto e mezzo. Ore 00.00 arrivo a Blattiland o “La Bettola”: la deliziosissima abitazione dei colleghi Irene e Gianluca in cui troviamo ad aspettarci una numerosa colonia di blatte che ci accompagnerà per i giorni successivi. Molto bene.

Abbiamo poi alternato momenti di formazione e meetings con i partners locali (quanto sono già diventata international!). Abbiamo conosciuto il buon Felix e altri responsabili fighi preparati entusiasti. 
Abbiamo capito che siamo e resteremo per il prossimo anno e per sempre dei Muzungu, tanto vale farsene una ragione e tentare di non comportarsi come tale. Abbiamo mangiato chapati, sukamaweki, nyamachoma (praticamente rosticciana accompagnata da verdure varie, mangiata rigorosamente con le mani e senza i piatti yeah!) e altre cose bellissime con nomi impossibili da ricordare. 
Siamo stati momentaneamente salvati da Blattiland e siamo stati alloggiati alla reggia di re Angelo, o sede di Caritas Italia.


Lunedì 12 ottobre

Volente o nolente siamo dovuti tornare alla base a Kahawa West e quindi abbiamo pensato bene di dare una pulita. Con esito positivo per noi, ma anche per le blatte che hanno deciso di restare. Ho imparato i numeri in swahili e scoperto che il mio studio dell'arabo in fondo non è stato del tutto inutile.

Mercoledì 14 ottobre

Korogocho
Il pensiero di questo giorno non mi ha fatto dormire la notte, e anche qui la realtà di una bidonville ha superato ogni mia più nera aspettativa. Credo ancora che il mio cervello non abbia accettato un po' delle cose che ho visto, alcune cose ho tentato di rimuoverle del tutto, altre sono state una sorpresa. Come il fatto di aver trovato in uno dei posti più dimenticati della terra tanta tanta vita.

“basti pensare che nelle mappe catastali le baraccopoli non esistono: sono segnate come spazi bianchi. Non c'è nulla. Non a caso tutte le baraccopoli sono collocate sotto il livello delle fognature della città "vera", quella segnata sulle mappe. I poveri sono collocati sotto la cloaca. Andare in baraccopoli significa letteralmente scendere agli inferi, nelle fogne." Korogocho, Alex Zanotelli 



Giovedì 16 ottobre

Dopo giorni e giorni di agonia e snervante attesa, siamo arrivate a Mombasa, era l'ora Maffi!!!! Scesi dall'aereo i millemila gradi e l'umidità del 300% ci hanno stesi e Angi ha nuovamente minacciato di andare in Moldova.
Arrivo alla villa di Angi e Mari. Uh Yeah! Altro che Blattiland!
C'è un “però”.
Per la legge del contrappasso che punisce chi giosce delle disgrazie altrui il grazioso animaletto qua sotto è mio vicino di casa. 
L'ho presa bene tutto sommato: dopo due o tre attacchi di panico e tentativi di fuga me ne sono fatta una ragione. Fintanto che non me lo trovo in casa.


Adesso siamo a Mombasa, si inizia a fare sul serio.

Vabè... magari domani.


Mari


martedì 29 settembre 2015

Le cinque W di una partenza.

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Già. È arrivato il momento di scrivere le sensazioni “zero”: tutto quel marasma di roba che ti porti dentro addosso intorno prima di partire per un lungo viaggio. Ma fondamentalmente (un avverbio qua e là fa figo intellettuale!) è difficile per me trasformare il 'marasma' in qualcosa di sensato e non in uno stream of consciousness incasinato. Quindi provo a seguire lo schema del giornalista in erba e mi autointervisto in maniera semiseria.

Who?

Ciao, sono Maristella. Sembra una cosa banale dire il nome, ma siccome il mio viene declinato a fantasia ci tengo a sottolinearlo: non è Maria spazio Stella, il più gettonato anche per via della ministra Gelmini, non è MaristAlla che mi ha fatto molto soffrire da piccola, nè Stella che sembra il nome di una -star, eccetera. Ho venticinque anni sono molto solare simpatica frizzante intraprendente dinamica... no dai.

Mi sono laureata pochi mesi fa ma non è cambiato niente, mi piace ballare coi piedi e con la mente, non vado matta per la pizza, cambio idea tanto quanto cambio le mutande, sono acida come il limone, piango durante le pubblicità progresso e per tutti i programmi televisivi sui matrimoni, credo nella libertà di ogni essere vivente, sono fissata con la street art, penso di avere sempre ragione.

What?

Sto per partire per il Servizio Civile Internazionale - pensa te!, con Caritas Ambrosiana di Milano (wè figa! Hai la schiscètta?) all'interno del progetto Impronte di Pace 2015.

When?

Eh... tra 9 giorni, che può sembrare tra un secondo o tra un'eternità a seconda di come mi sveglio la mattina o delle fasi ormonali che attraverso durante il giorno. Passo da fasi di esplosiva eccitazione e convinzione, a fasi di profonda angoscia emotiva e depressione, a fasi di apatica indifferenza.
Aggiungo in questa domanda che riguarda il tempo anche la durata: 1 anno. Ebbene sì, il contratto da serviziocivilista scadrà il 13 settembre 2016. Nel mezzo si saranno un paio di visitine a casa, una vacanza a Zanzibar, la scalata del Kilimangiaro e una marea di quotidianità che resta ancora un mistero.

Where?

Kenya, Mombasa.
Le nozioni di base sono: è una città di mare (sarebbe meglio dire 'di oceano' - olè!), metà turistica gettonata, in particolar modo da italiani che ci vanno a fare cose zozze e safari, fa caldo ma non si muore di caldo, ci sono le scimmie, e le giraffe gli elefanti i lemuri... non so se questi ultimi proprio in città, hakuna matata (traduzione per gli appassionati di “Gomorra” = 'Sta senza pensier'), c'è traffico.

Why?

Questa domanda meriterebbe un pippone antropologico-esistenziale che non mi sento di affrontare ora. Un giorno di marzo scorso mi è capitato di andare sul bando del SCN, di leggere i progetti Caritas per il settore internazionale, di pensare 'caspita che bello' ... e di presentare domanda.

Avevo bisogno di partire. Di mettere tutto sottosopra e ricominciare. Di cercare una strada sterrata, una capanna in mezzo al deserto, un corso d'acqua di periferia dove sentirmi... piena. 
Ho seguito la spia del bisogno e sono arrivata allo SCE. Qualcuno mi ha poi dato fiducia e sono arrivata a pochi giorni dalla partenza.
Avevo bisogno di restituire. In questi anni ho preso molto e ho dato poco, per questo il servizio civile mi è sembrato una soluzione perfetta per svariati motivi.
E poi chissà che questa esperienza non diventi un lavoro vero e proprio, chissà!

La serietà la lascio al prossimo post, ma questa citazione iniziale me la – e ve la – dedico:

Il segno non è intorno a te, non è nei muri, nei mattoni, nella calce, nei ciottoli, no, non troverai ciò che vai cercando. Il segno è la ricerca stessa, il segno sei tu che arranchi nel fango delle strade. Siete voi. Noi che siamo in cerca: noi che siamo l'adesso, il già e non ancora.”


Mari