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martedì 23 luglio 2019

Chi è un migrante?

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S. ha 4 anni, ha sempre voglia di giocare e abbraccia tutti dicendo "me want to play";
K. , quasi 14 anni , mi fa gli agguati con i gavettoni;
K. ,11 anni, partecipa a tutte le attività e aspetta con ansia i cantieri della solidarietà;
S. 8 anni ha paura di nuotare ma si fida di me e degli altri volontari e ci prova lo stesso;
S. 14 anni, ha la fidanzatina serba con cui esce a mangiare il gelato;
M. ha 40 anni, ma gioca come se ne avesse ancora 10.;
F. fino all'anno scorso viveva in un campo e adesso lavora per l'iom nello stesso campo come traduttore;
S. , 30 anni , mi ha convinta a fare il bagno in un fiume serbo gelato tenendomi per mano.


Che cosa hanno tutte queste persone in comune ? Sono tutti in Serbia. Sono tutti fuori dal loro paese. Sono migranti o richiedenti asilo. Alcuni di loro aspettano da anni in un centro in Serbia o solo il momento giusto per provare il "the game". Per cosa? Per entrare in Europa?Perché ?

Perché la ruota della fortuna non è girata dalla loro parte questa volta. Fossero nati in un paese dell'area shengen avrebbero, come un cittadino qualunque, potuto scegliere un altro paese dell'unione dove andare a vivere. Invece il destino , la vita , ha deciso che queste persone dovevano nascere in un paese che non rispetta i loro diritti umani, non gli permette di vivere una vita dignitosa, che magari ha la guerra o che più semplicemente è invivibile per colpa del cambiamento climatico.



Ma perché sono alle porte dell' Europa e vogliono entrare illegalmente con questo game ? Non si possono comprare un biglietto aereo? No. Magari hanno un passaporto inutile debole che non gli permette di viaggiare in nessun paese se non in Dominica e St.Vincent and the Grenadines (ndr: io non sapevo neanche dell'esistenza di questi paesi) .

Al campo di Principovac

Ebbene. Mentre io negli ultimi tre anni ho conseguito una laurea, fatto un Erasmus,sono partita per il servizio civile S. ha iniziato la sua adolescenza nel campo di Bogovadja. Ha visto molte persone trasferirsi a vivere nella stanza accanto alla sua nel centro, e ogni giorno con la sua famiglia attende che venga accettata la richiesta d'asilo. E non può fare un semplice sleepover con le sue amiche, perché non avrebbe dove ospitare le sue amiche. Q., invece, non può mangiare quando vuole il suo piatto preferito, perché nel campo non puoi cucinare quello che vuoi tu, è la mensa che da cibo a tutti. Ma sostiene di essere un gran cuoco.

Mentre tutte queste vite scorrono, ai confini dell' Europa ... Nell' Europa si discute su come gestirle, su chi fare entrare e chi no. C'è chi c'è l ha con loro solo per il fatto che esistono .

Ma poi chi sono quessti migranti? Migrante è semplicemente chi vuole vivere una vita dignitosa, che vuole avere e vedere un futuro per se e per i propri figli. Migrante sei anche tu, italiano , che leggi questo articolo da Londra mentre fai il pizzaiolo o che lavori in Svizzera per mantenere la famiglia. Migrante sono anche io, che da Reggio Calabria sono andata a studiare a Milano, e probabilmente a "casa " non ci tornerò mai.



In questi giorni in Serbia, tra un gavettone e un piede nel fango ho capito che il destino può farti nascere privilegiato. Ma tu con le tue azioni puoi fare girare la ruota, ripararla o addirittura sostituirla con quella di scorta aiutando qualcun'altro.

mercoledì 23 marzo 2016

Bordertown

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Per gli europei della mia generazione, nati sotto la buona stella degli accordi di Schengen, il confine ha sempre rappresentato un concetto immateriale più che dei veri e propri limiti fisici. Una tale libertà di movimento al di fuori dei nostri confini nazionali, ci ha permesso di crescere con radici saldamente ancorate ben oltre le nostre frontiere. Forti della consapevolezza che non sono le frontiere a fare la differenza tra le persone, ci sentiamo ormai cittadini del mondo intero e patrioti dell’umanità nel suo complesso, per prendere a prestito le parole di Charlie Chaplin.

Almeno in Europa, gli unici confini che abbiamo sempre dovuto affrontare erano quelli generati dalle nostre menti, i confini che noi stessi abbiamo tracciato. E’ sempre stata una questione di linee: le linee che ci separavano dal raggiungimento dei nostri traguardi prima scolastici e poi professionali, le linee intangibili che abbiamo tracciato per separarci dalle persone che ci circondano, che dopo tante delusioni, abbiamo trasformato in barriere con la speranza che nessuno più le oltrepassasse.

E mentre ora l’Unione Europea è affaccendata a ripristinare frontiere e confini, tra muri e chilometri di filo spinato, gli europei della mia generazione, che si sono vissuti il Vecchio Continente senza visti né passaporti, da queste linee si sentono soffocare. Proprio quando ci si prova a sporgere per allargare lo sguardo oltre il confine è lì, in bilico su quella linea tra il noto e l’ignoto, che si prova quel senso di vuoto, un misto di paura e desiderio che spinge i più avventurosi a fare le valigie e correre il rischio, varcare i confini, mossi dalla brama di scoprire cosa ci sia dall'altra parte.

Da Ranong (Thailandia) la città più vicina del Myanmar è Kawthaung raggiungibile in soli 15 minuti di barca
Alla base di queste premesse, può suonare a tratti paradossale che ora mi trovi a Ranong, città di confine tra Thailandia e Myanmar. Ranong è uno di quei posti sulla Terra in cui il confine riesce a risultare impercettibile e al contempo più imponente di qualsiasi barriera. L’elevata presenza di migranti irregolari provenienti dal Myanmar, che da decenni fuggono da guerre inter-etniche ed estrema povertà, rende le stime ufficiali sugli abitanti della città poco realistiche, forse raggiungono i 100.000, di cui i thailandesi rappresentano una risicata minoranza. A Ranong si indossano abiti tradizionali Mon, Kachin e Shan e si parla la lingua birmana. Si mangia Chin, Rakine e Karen e all’ingresso delle abitazioni, affianco alla statua di Buddha, troneggia l’effige di Aung San Suu Kyi. A Ranong si vive in Thailandia, ma si vive il Myanmar.

Abiti tradizionali birmani
Ammassati in baracche che affittano a caro prezzo, perché per legge non possono possedere proprietà, i migranti lavorano per pochi spiccioli e in condizioni estremamente precarie sulle barche da pesca, nella cantieristica navale, nell'edilizia, nella filiera ittica, nelle fabbriche di lavorazione delle materie prime e in tutti quei lavori che i thailandesi non sono più disposti a compiere. I migranti irregolari non hanno accesso alle cure mediche, mentre per quelli regolari spesso risultano troppo costose. Solo il 20% percento dei loro figli riesce ad avere accesso ad una qualche forma di istruzione, anche se poi il 90% di essi abbandona la scuola all'età di 12 anni per seguire i propri genitori nelle fabbriche o per prendere il posto dei genitori che non hanno più. Ranong è anche la città con il più alto tasso di diffusione di HIV di tutta la Thailandia, un virus che la maggior parte di essi scopre troppo tardi di aver contratto.  


Alla fine della Seconda guerra mondiale, mossi dalla riscoperta del livello di atrocità che sono in grado di commettere gli unici esseri governati dalla ragione, alcuni rappresentanti del genere umano hanno redatto una bellissima dichiarazione universale che sancisce i diritti fondamentali. Diritto all'uguaglianza, all'istruzione, alla salute, ad adeguate condizioni di vita e alla proprietà, tra gli altri. Eppure ogni volta che viene tracciata una linea di confine per paura, ad un rappresentante in più dell’umanità uno di questi diritti viene negato. Siamo davvero sicuri di sapere cosa perdiamo quando chiediamo i confini indietro?    

In ambo i lati del confine le insegne e i cartelloni pubblicitari sono scritti sia in lingua birmana sia in lingua tailandese



Martina Dominici, 
casco bianco Caritas Italiana in servizio in Thailandia

domenica 13 ottobre 2013

isole.

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Lampedusa è un'isola in mezzo al Mar Mediterraneo.

Haiti è un pezzo di isola in mezzo al Mar dei Caraibi.

Lampedusa è la destinazione di centinaia di migranti che dall'Africa cercano di entrare in Europa.

Haiti è la partenza di centinaia di Migranti che dall'America cercano di entrare in America.

Il Mar Mediterraneo è la tomba di migliaia di migranti.

Il Mar dei Caraibi è infestato dagli squali, quindi più che tomba è un banchetto.

Un detto siciliano dice: A megghiu parola è chidda ca nun si dici. 

Un detto haitiano dice: "Pito mouri anba nan reken pase mouri grangou", meglio essere mangiati dagli squali che morire di fame.

In Italia c'è ancora la legge Bossi-Fini.

Da Haiti moltissimi scappano nella vicina Repubblica Dominicana dove ci sono leggi severissime per gli immigrati, specialmente se haitiani. 

A Lampedusa c'è il CIE.

In Repubblica Dominicana ti discriminano e ti riempiono di botte appena possono se sei haitiano.

L'Italia è un Paese "unito" dal 1861.

L'America è stata "scoperta" oggi di 521 anni fa e Cristoforo Colombo è sbarcato ad Haiti. 

L'immigrazione clandestina è nata quel 12 ottobre 1492.

Oggi combattiamo l'immigrazione clandestina.

Conosco italiani che sono emigrati in America per cercare lavoro.

Conosco un haitiano che è andato da Haiti alle Bahamas su un barcone senza motore. per cercare lavoro.

Conosco storie di migranti.


Conosco migranti. 

Sono migrante.

lunedì 26 agosto 2013

Libano - Cosa vuol dire essere un rifugiato?

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Vuol dire scappare dalla Siria per salvare la tua vita e quella delle persone più care.

Vuol dire andare al centro Caritas, ritirare lo scatolone con gli aiuti umanitari e portartelo da solo a "casa", anche se pesa tantissimo. Almeno questo lo vuoi fare da solo, vuoi dimostrare che sei ancora capace di darti da fare per la tua famiglia, anche se intorno a te sai che le persone ti vorrebbero aiutare. E queste persone non fanno niente, perché immaginano cosa stai provando e non vogliono ferirti ulteriormente. È come se ci fosse un codice di comportamento. Però a ringraziare ci provi, perché anche tu, tempo fa, hai fatto il volontario come loro.

Vuol dire affittare una casa in un campo profughi palestinese, che esiste da circa 60 anni e pagare una stanza 500 Dollari al mese. Forse gli altri si dimenticano di aver vissuto la stessa condizione che hai vissuto tu, ma, nella disperazione di non avere diritti da 60 anni e di non potersi pagare le cure più costose come la dialisi, senza la quale non potrebbero sopravvivere, lucrano sulla tua di disperazione.

Vuol dire che alcuni aiuti inviati dalle ONG internazionali arrivano scaduti e non possono essere utilizzati, perché è passato troppo tempo da quando sono stati raccolti a quando sono arrivati. Le motivazioni non si conoscono, ma, anche se sei profugo e disperato, i cibi scaduti non li puoi mangiare e nemmeno darli ai tuoi bambini.

Vuol dire che una volontaria viene dai tuo figlio, gli chiede come si chiama in un arabo stentato e cerca di farlo sorridere disegnando. Tu le sorridi e capisci che lei fa quello che può, ma sai che tuo figlio ci metterà un po’ a sorridere di nuovo, perché si trova in un posto che non è casa sua, e non lo sarà per molto tempo.

Vuol dire che il giorno prima sei un ragazzo dagli occhi buoni, studente di ingegneria e il giorno dopo  fai il cameriere in un bar in Libano, perché hai scritto sul tuo profilo Facebook contro il regime. Sai che, se tornassi in patria, saresti arrestato e quindi, sempre con gli stessi occhi buoni, forse perché non hai perso la speranza, cerchi di far passare una bella serata a sette volontari italiani che si vogliono rilassare.


Vuol dire che, nonostante tu non sia più giovane, abbia lavorato una vita e voglia finalmente goderti i frutti del tuo lavoro nella tua terra, sei costretta a scappare dal tuo paese e ad essere accolta in un centro Caritas, perché non sai dove altro andare.
Vuol dire sperare che tutto questo finisca, non tanto per te che la tua vita l'hai già fatta, quanto per i tuoi figli e i tuoi nipoti, perché non debbano vivere quello che tu hai vissuto. 




domenica 18 agosto 2013

Libano - Un viaggio fatto di persone

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Ho sempre pensato che quello che contraddistingue un viaggio non è tanto il posto in cui si va ma le persone che si incontrano. Dei tanti viaggi che ho fatto non potrò mai dimenticare i volti delle persone e le emozioni che mi hanno dato. Emozioni che rimarranno per sempre impresse nella mia mente e nel mio cuore. Ed per questo che voglio raccontare delle persone che hanno reso anche questo viaggio unico e indimenticabile, iniziando dalle mie compagne.

Martina con la sua cipolla e il suo sguardo indecifrabile.

Denise con le sue mille domande e le sue battute.

 Anna con il viso da diva del cinema e la sua passione per le foto.

 Giulia con la sua insicurezza, che rivedo tanto in me e la sua dolcezza.

 Michela che non ha paura di raccontarsi e di esprimere le sue idee.

Qui allo shelter ci sono altrettante donne di cui parlare e per cui varrebbe la pena di scrivere pagine e pagine. Sono ragazze come me, mogli, madri venute in Libano alla ricerca di una vita migliore o di uno stipendio più alto per poter mantenere i propri figli o in fuga dalla guerra. Si sono ritrovate vittime di un sistema che non le tutela dalle violenze dei datori di lavori, e che non ha siglato l'accordo di Ginevra per i richiedenti asilo.

J. che in momento di sconforto mi ha aperto il suo cuore, mi ha fatto vedere la parte più fragile di sé attraverso le sue lacrime e si è lasciata consolare. Mi ha raccontato della sua famiglia, della sua casa piccolina circondata di alberi, ristrutturata con i soldi del suo lavoro che tanto le mancano. Quando si sente serena le manca ancora di più.

W. con cui ho subito trovato un legame fatto di sguardi e che è riuscita a farmi capire con una serie di battute divertenti la sua condizione allo shelter:  dividere lo stesso letto singolo con una sconosciuta,  utilizzare gli abiti usati perché quelli che aveva sono rimasti a casa della sua "Madame", ossia la sua datrice di lavoro, e non ha più modo di prenderli. Nonostante la sua capacità di ridere su tutte le cose brutte che le sono capitate ha mostrato il suo lato più sensibile (e ha fatto uscire anche il mio quando) con il viso pieno di lacrime ha raccontato di quanto fosse grata a Caritas per averla accolta.

G. che fuma mille sigarette per tenere a bada l'ansia dovuta all'incertezza di non sapere quale futuro ci sarà per lei e per la sua figlia quattordicenne. Mi ha mostrato facendosi capire a gesti che il suo cuore soffre per la figlia costretta a vivere da più 8 mesi nel centro Caritas, senza la possibilità di andare a scuola in attesa di accedere ad un programma di resettlement dell'Onu.

F. e M. madre e figlia con gli stessi occhi azzurri profondi che non possono tornare nel loro paese a causa delle minacce che le hanno costrette alla fuga. Sono nel centro Caritas da circa due anni e non sanno ancora quale sarà il loro destino.

M. che si è scusata per non aver potuto prendere parte ai nostri giochi in modo da poter rispettare il periodo di lutto per la morte del padre. Era in Siria fino a qualche mese fa ed è scappata in Libano dopo che il negozio in cui lavorava é stato bombardato. Non ha potuto essere vicina alla sua famiglia in questo momento di grande dolore perché non ha ancora ricevuto i documenti per poter essere rimpatriata. Si sente in colpa perché pensa che il padre sia morto per la preoccupazione di saperla in Siria durante la guerra.

M. mi ha presa in giro per il fatto che alla mia età non fossi ancora sposata e sosteneva che stessi scegliendo tra due o tre candidati (magari fossi così). Lei di bambini ne ha già due uno suo e uno che é il figlio di una sua amica che è venuta a mancare e del quale lei si è presa cura. Non so esattamente da quanto tempo non li vede.

L. , guerriera dal cuore tenero, tanto schietta e sincera quanto dolce e sensibile. L'ho vista difendere le sue ragioni e piangere per la nostra partenza con la stessa intensità che solo un persona di grande coraggio può avere.

N. lavora in uno degli shelter Caritas, dedica la sua vita a queste ragazze, forse perché per prima ha provato sulla sua pelle cosa significa essere una Migrant Worker in Libano. E' stata un'ispirazione. Fare il lavoro che ami vale più di ogni altra cosa.

E infine i bambini, che volevano sempre essere presi in braccio, che si sono innamorati di forbici e pinzatrici, che si sono addormentati tra le mie braccia e quelle delle mie compagne di viaggio, desiderosi di amore e di attenzione. Alcuni hanno subito le stesse violenze subite dalle madri altri sono vittime ancora più delle madri perché si trovano a vivere in una condizione che non hanno scelto. Ma i bambini riescono sempre a sorprendermi, hanno una marcia in più e riescono a vedere il buono anche dove non c'è.


lunedì 2 agosto 2010

Bravi i cantieristi palermitani, ma cosa fanno?

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Qualcuno si starà giustamente chiedendo se i cantieristi palermitani mangino e basta. La risposta è ovviamente negativa! Dormiamo anche un sacco (almeno, io. Alle 22.30 inizia a venirmi un sonno che non è facile contrastare nemmeno con un mix di caffè e RedBull, e non mi sembra il caso di provare qualche sostanza chimica, per cui mi arrendo e augurando una buona notte a tutti mi eclisso nel mio letto), andiamo al mare (Mondello), guardiamo le navi partire dal porto, visitiamo chiese e palazzi, festeggiamo i compleanni (il 30 c'è stato quello della nostra "collega" Monia: auguri!) e un sacco di altre cose carine e divertenti. E facciamo anche servizio, se no che cantiere sarebbe?!?


Ci siamo divisi in tre gruppetti (da tre persone l'uno, io faccio da jolly, vado dove c'è bisogno) che, a turno, danno una mano nelle diverse realtà dove prestiamo servizio: la mensa Caritas presso il Centro Santa Rosalia, la ludoteca Giardino di Madre Teresa e il Centro diurno per disabili Centro Anch'Io. Le attività sono varie e eventuali, dettate dalle necessità della giornata.


Mensa: cosa si farà mai in una mensa?!? Si prepara da mangiare! Guardate qui sotto che cuochi provetti:


Giulia, Alessia e Luca stanno preparando delle belle bistecche (peso medio: 400 grammi l'una), da noi affettuosamente soprannominate "lenzuolini" date le dimensioni, con un'impanatura composta da immancabile olio, limone, origano e pane grattato (giusto per la cronaca, il menù prevedeva anche un primo di pasta con le patate, seguito dalle sopracitate bistecche su un piatto di insalata e, per finire, una bella fetta di anguria fresca). Oltre a collaborare nella preparazione dei pasti, si serve ai tavoli i circa cinquanta ospiti della mensa e si puliscono i locali adibiti a sala da pranzo. E, se avanza tempo, si sistemano le quintalate di camicie e magliette che la Guardia di Finanza ha sequestrato e che sono destinate ai carcerati: vanno divise a seconda della taglia.

Giardino di Madre Teresa: molto semplicemente, qui si fanno giocare i bambini. Quasi tutti neri come il carbone (i pochi bianchi che ci sono sono soprattutto dell'est Europa), con un'età che va dai 10/12 mesi ai 6 anni, e forse anche qualcosa di più, stanno al Giardino tutto il giorno, perché i genitori devono lavorare. E quindi si finisce con lo spingere automobiline, moto di Polizia, Barbie, da corsa e da cross per mezza mattinata, con i bimbi felicissimi e la tua schiena un po' (tanto) meno. O a sedare risse nate dal desiderio di un servizio di stoviglie completo

o per il pagamento dell'affitto,

ma anche a far camminare un neo-bipede, per la gioia infinita della madre e di tutti gli operatori della ludoteca.


Anche il gestire i turni di salita/discesa dallo scivolo richiede un certo sforzo, soprattutto quando non è ancora chiaro che lo scivolo si chiama cosi proprio perché, grazie alla forza di gravità, serve per andare dall'alto verso il basso, e non viceversa...


Centro Anch'Io: l'ingrediente principale di questo servizio è la fantasia. Ogni giorno vengono svolte con i disabili (di tutte le età e con handicap diversissimi) attività diverse: realizzazione di magliette,




musicoterapia, gite al mare e ai parchi, giretti per la città. E l'immancabile sostegno nella fase della merenda, che viene poi distribuita anche a noi volontari per premiarci di tutti i nostri sforzi.


Dopo una settimana di Cantiere, il bilancio è più che positivo, su tutti i fronti: dei servizi, del rapporto tra noi, con gli altri operatori e i volontari delle strutture, del cibo, dell'abbronzatura...


Frasi del giorno:


"Ma quanto lavorate voi milanesi!", detta da un ospite della mensa ai cantieristi che sistemavano le camicie da due ore (come siamo bravi!).


"E' ufficiale: c'è un fantasma nella nostra camera", detta da Luca e Fabio,
cantieristi, che dicono che qualcuno usi il loro gabinetto (!?!) e che riempia il secchio del mocio di notte, facendoglielo trovare bello traboccante la mattina dopo.


"Poco gelato, grazie", detta da Giulia, inutilmente: le hanno dato un panino dolce con dentro almeno 100 grammi di gelato (ma senza scherzare).


Giuditta

martedì 26 gennaio 2010

Il paese che non c'è...o non si sa dov'è

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In fondo, non è male l'idea di chiamare così un gioco da tavolo. L'interrogativo suscita una certa curiosità: sarà un gioco sulla geografia? Sarà come Risiko ma meno guerraiolo? Ma il punto è che oggigiorno la domanda non è così scontata: dov'è la Moldova?!?

Forse un italiano ne ha sentito parlare in qualche occasione, conoscendo una badante est-europea o vedendo l'ultimo film di Verdone (in cui uno dei personaggi è proprio una badante moldava).

Magari un inglese un po' meno: è la domanda che si sono posti i tifosi inglesi durante i campionati europei del 1996, in cui la nazionale ha avuto modo di giocare contro quella moldava. Tra l'altro, il campionato si disputava proprio in Inghilterra e tra i calciatori inglesi debuttava Beckham in nazionale, motivi che hanno dato parecchia visibilità all'evento, richiamando una certa attenzione da parte degli anglosassoni. Da lì, presto il quesito si fa passaparola fra gli inglesi, che si vedono sfidare da una nazionale con una provenienza non ben identificata.

Ecco spiegato il titolo di questo gioco in scatola inglese. A me ha fatto una certa impressione scoprire che era solo un gioco...


Ah, per la cronaca: il gioco è un misto tra Risiko, Monopoli e Trivial Pursuit...eccovi un assaggio.

Grazie a Fabio!!

sabato 16 gennaio 2010

Il sole a strisce.0

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Le ragazze escono dalle celle a piccoli gruppi e si allineano nel cortile interno. Filippine cingalesi, indonesiane: ne contiamo circa quaranta, ma probabilmente ce ne sono almeno altrettante rimaste dentro. Basta volgere lo sguardo alle porte di ferro ormai chiuse, dove decine di volti incuriositi si alternano febbrilmente dietro gli spioncini. Devono avere tra i venti e i trent’anni, forse di più. Alcune ci salutano con un sorriso, incredule di ricevere finalmente una visita.

Siamo nella sezione femminile del carcere di Juweideh, periferia meridionale di Amman. Qui si trova l’unico carcere femminile della Giordania, con tanto di sezione per le cosiddette detenute temporanee. Qui vengono condotte le donne immigrate clandestine con permesso di soggiorno scaduto.

Riesco a parlare con una ragazza filippina. Con la voce rotta dal pianto mi racconta di esser venuta in Giordania per lavorare come collaboratrice domestica, e di esser stata trovata dalla polizia sprovvista di permesso di soggiorno. Non si può permettere di pagare la multa, così le autorità la trattengono in carcere. Un’altra ragazza mi dice di aver già pronti i soldi per potersi “comprare” l’uscita dal Paese, e di aver ancora abbastanza denaro per il viaggio di ritorno nelle Filippine, ma per qualche ragione è ancora in carcere. Qualcosa deve essersi inceppato ed è ancora qui, da più di due mesi.

Sono partito da questa piccola esperienza per raccontare il dramma delle lavoratrici domestiche straniere in Giordania. La stragrande maggioranza di queste provengono dall’Asia Meridionale e Orientale, soprattutto da Indonesia, Filippine e Sri Lanka. Lasciano il Paese di origine sperando di trovare qui un lavoro dignitoso, contribuendo così a sostenere la famiglia rimasta in patria, ma finiscono spesso in una spirale interminabile di sfruttamento: sono vittime di abusi e maltrattamenti – se non di veri e propri pestaggi - da parte dei propri datori di lavoro; lavorano dalle 16 alle 19 ore giornaliere, spesso dovendo aspettare mesi per ricevere lo stipendio o parte di esso (a volte sono le agenzie di reclutamento a trattenere parte dei soldi); vengono tenute segregate nella casa dove lavorano per impedirne la fuga.

A volte, anche quando le ragazze riescono a fuggire, l’amara sorpresa è dietro l’angolo. Impossibile lasciare il paese: il datore di lavoro, responsabile per legge dell’adempimento, non ha mai provveduto all’estensione del loro permesso di soggiorno. Non potendo pagare la multa – ogni giorno di presenza irregolare in Giordania costa alla persona un dinaro e mezzo – le ragazze finiscono così in carcere, senza sapere se e quando riusciranno a uscire. In alcuni casi la situazione è ancora peggiore: non volendo rischiare conseguenze penali o amministrative per l’irregolarità, alcune famiglie cercano di liberarsi delle lavoratrici denunciandole alla polizia per maltrattamenti o per furto (è recente la notizia di una collaboratrice cingalese imprigionata, e poi rilasciata per mancanza di prove, in seguito all’accusa di aver rubato alcuni gioielli e aver abusato della bambina della famiglia presso cui lavorava).

Del resto, come mi dice una terza ragazza a Juweideh, la fuga può anche essere sorprendentemente breve. Una volta raggiunto il miraggio del rimpatrio, molte sue connazionali hanno ripreso subito la strada della Giordania, finendo nuovamente in carcere. Lei però non ci potrà riprovare: sul passaporto le hanno messo un timbro recante la scritta “Denied Entry”, che verosimilmente le impedirà di rivedere le colline di Amman per almeno cinque anni.

Secondo Amnesty International sarebbero oltre 70.000 le collaboratrici domestiche presenti in Giordania, di cui circa 30.000 non registrate. Diverse organizzazioni, tra cui Human Rights Watch, hanno denunciato questa pratica, in contrasto con le stesse leggi giordane. Lo stesso governo si sarebbe impegnato a emendare la propria legislazione del lavoro, promettendo di dedicare un’attenzione specifica ai diritti delle lavoratrici domestiche.


Per chi volesse ulteriormente approfondire la questione:
Report di Amnesty International;

Analisi di Human Rights Watch sulla nuova legislazione del lavoro in Giordania;

Articolo del Jordan Times a proposito di un recente caso di maltrattamento.