lunedì 26 settembre 2011

Lossapevate???

3 commenti:

Già, come diceva Vulvia, l'immortale presentatrice di Rieducational Channel interpretata dal grande Corrado Guzzanti, Lossapevate???

I luoghi comuni si sa, abbondano sempre, e quindi sono poco utili eventuali commenti a questo post che sciorinino frasi fatte del tipo gli esami non finiscono mai, non si finisce mai di imparare, le lingue sono importanti e via dicendo.

Già, proprio le lingue. Effettivamente nell'era della comunicazione globale, di internet e dei viaggi istantanei c'è il rischio, come diceva Totò, che le lingue si ingarbuglino. Per questo è importante studiare l'inglese, che molti dicono è il latino della nostra epoca, ma anche le altre lingue post-coloniali come francese e spagnolo, o quelle più esotiche come arabo, russo, cinese, giapponese e chi più ne ha più ne metta.

Prima di tutto ciò però, vi consiglio di andare a rivedere l'italiano, adesso che io lo devo fare per preparare le lezioni della lingua di Dante qui in Giordania come parte del mio Servizio Civile. E quali incredibili segreti che si scoprono, regole grammaticali di cui ignoravo totalmente l'esistenza, e che infatti spesso violavo con la stessa sistematicità con cui i nostri governanti violano i codici della giustizia e del pudore.

Adesso senza fare un lungo elenco delle strabilianti regole della lingua italiana in cui mi sono imbattuto, invito ad alzare la mano chi di voi sa rispondere a questa domanda, ovviamente senza leggere la soluzione al quesito che riporto sotto:

In che occasione si usa l'articolo indeterminativo maschile "Un" e in quale l'altro indeterminativo maschile "Uno"????

..............................

.......................................

....................................

Non ne avete alcuna idea, vero???

Ecco la Risposta:

Si usa "Uno" in quattro occasioni:

A) Quando il sostantivo specificato dall'articolo comincia con s+consonante. (Es. Uno studente).

B) Quando il sostantivo specificato comincia con z. (Es. Uno zaino).

C) Quando il sostantivo specificato comincia con p+s. (Es. Uno psicologo).

D) Quando il sostantivo specificato comincia con y. (Es. Uno yoghurt, o anche uno Yuri, se volete degradarmi al ruolo di oggetto).

Nelle restanti situazioni, si usa "Un"

E adesso provate a dirmi che lossapevate.

sabato 24 settembre 2011

Questione di … classe

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Sulla trece (il “nostro” autobus).

Frenata. Davanti a noi c’è un autobus fermo. Non riesce a girare perché c’è una macchina che impedisce il passaggio. È una situazione assurda, perché basterebbe che uno dei due mezzi faccia un minimo di retro e già si sarebbe risolto l’ ingorgo. Ma nessuno si muove.
La signora di fianco a me spiega: “Questione di principio”.

Passano venti minuti. Nessuno scende dal mezzo. Si gridano l’ un l’ altro a vicenda, aspettando l’ arrivo della polizia. Il rumore dei clacson delle auto, che nel frattempo hanno formato una lunga coda, è assordante. C’è ancora tutto lo spazio necessario alla manovra, per entrambi i mezzi.

Arriva la polizia. Un agente si avvicina al bus, poi all’ auto. L’ autista dell’ autobus, senza dire nulla, fa retromarcia e lascia passare l’ auto. Il poliziotto si avvicina al finestrino della trece e spiega al nostro autista che il signore dell’ auto è uno “de alto grado”.

L’ auto mi passa a fianco. Il signore ha un volto serio e deciso. Al suo fianco una bambina spiaccicata al finestrino guarda gli autobus e le macchine ormai in silenzio.
La signora di fianco a me sospira: “Questione di classe”.

mercoledì 21 settembre 2011

VUOTO

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30 agosto 2011

Un mese fa, a quest'ora mi chiedevo chi me l'aveva fatto fare di partire. Sola. Con 8 estranei, dall'altra parte di un mondo sconosciuto.

Un mese dopo, il mio orologio segna le 7:09 am, ora thai.

E mi immagino che fra poco la sveglia suona. Che ci ritroviamo a quel tavolo lungo a mangiare marmellata. Che mi giro e c'è cotoletta. Che mi sorridete e mi date il buon giorno più dolce della mia esistenza.

Mi immagino che tra poche ore padre father ci da un foglio bianco e ci dice: scrivete o disegnate quello che avete provato finora. E mi vedo rientrare a testa bassa in quella stanza con un foglio vuoto, trattenuta nellE mie prigioni.

Mi vedo timida piangere e mi dico che non posso sopportare tutto questo. Non posso vedere quei bambini ai quali un'onda maledetta ha rubato un futuro. Non posso credere che qualcuno non potrà camminare per tutta la vita, senza poter far niente. Non ho il diritto, io, di entrare in quelle baracche costruite con tanta fatica e umiltà.

Ma poi, quegli 8 sconosciuti, ti asciugano le lacrime. Allora capisci che sono angeli, che ti insegnano che non è giusto solo soffrire. Che non aiuti qualcuno piangendo ma tirando fuori il sorriso, la forza, la fantasia e la voglia di amore.

Allora li vedi lì, con le facce colorate che si divertono a far ridere i bambini. Sono meravigliosi pagliacci buffi che hanno saputo dare speranza e allegria a vite meravigliose. Ce l'hanno fatta..


E allora, mentre tutti di notte dormono, ti trovi lì. sotto un cielo immenso e rumoroso. A imparare a creare la felicità, a imparare a sentirti libero di essere felice anche tu, senza sentirti in colpa perchè non sei nato lì.

E allora, quando lanci una stella in cielo, scrivi su un bigliettino che per la prima volta ti senti di amare la vita.

Che la vita è bella e che esistono tante persone buone.

Quando poi torni, in una città che senti straniera, ti senti vuota. Stai per ore a fissare il vuoto e sei solo felice di avere un ricordo splendido a cui continuare a pensare.

E quando al lavoro, ti chiudono in ufficio dicendoti che ti fanno un contratto di quattro anni, non fai una piega e ti immagini ancora lì. Pensi solo che puoi permetterti, senza chiedere niente a nessuno, di mandare ogni mese qualcosina di faticato per sostenere un progetto che crea futuro.

Alice, un mese fa avresti fatto i salti di gioia. Hai detto bene, un mese fa. Allora non credevo in nulla ed ero soltanto una stupida farang che pensava di poter immaginare la povertà. L'ho capito quando tornavo a casa che puzzavo di piscia e mi dispiaceva lavarmi. Allora non avrei mai scritto sotto il disegno di un tramonto a pastelli. Allora non pensavo che avrebbero cullato il mio cuore tra piccole e fragili manine. E di certo non pensavo che quegli 8 iniziali sconosciuti mi sarebbero mancati come una famiglia.

Alice

martedì 20 settembre 2011

CERCANDO NUOVI OCCHI. GRAZIE.

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22 agosto 2011

Ciao mamma!
Sapessi cosa ho visto in questi giorni!!

Ho visto un gruppo di farang [occidentali] a piedi scalzi (mi sembravano un pò goffi a volte), agitavano mani, facevano facce buffe, avevano il nostro borotalco sulla faccia.

Ammetto di essermi divertito guardandoli. Era una cosa del tutto nuova, del tutto inaspettata. Ma, forse l'ho imparato da te e sicuramente dalla vita, le cose inaspettate sono sempre le più belle (o le più brutte -come è successo con lo tsunami... ma siamo ancora qui e qualcosa vorrà pur dire!-).

Un pomeriggio questi ragazzi si son travestiti da quelli che fanno ridere, ci han fatto giocare a dei giochi nuovi. Mi hanno raccontato che una mattina sono andati "a caccia" di vongole e conchiglie e poi han cucinato per tutti una pasta strana, piantato i nostri manghi sprofondando nella nostra terra.

Leggevo nei loro occhi lo stupore di trovarsi di fronte all'oceano, di portercisi fare il bagno, giocare sotto le cascate, di guardare il nostro cielo. Chissà cosa avranno pensato alzando gli occhi alle stelle e alle nuvole! A me il mio cielo piace... mi fa andare lontano.

Io al tempio ci vado spesso ma i farang un monaco vero non lo avevano mai visto... saranno stati delle schiappe seduti cercando di non mostrare i piedi agli altri.

I farang sono stati anche a Ranong e da lì mezza giornata in Birmania: la traversata deve averli emozionati? Non lo so, a me i birmani non è che mi stiano tanto simpatici. Però cercherò di migliorare, ok?

Ciao mamma,
Se i farang mi fanno sorridere e star bene possono anche farlo i birmani che sono molto più vicini.

Ho visto come si impegna Father John anche per questo, è un farang davvero in gamba. Anche i farang mi sembra proprio si siano voluti impegnare nei nostri Learning Centres... anche se c'erano delle parole inglesi che sapevamo già -ma per cortesia è stato meglio non dirlo, magari si sarebbero offesi- è stato bello imparare con gente e modalità differenti.

E come mi ha fatto strano vederli con gli occhi luccicanti mentre cantavo per la tua festa, mamma. Forse si sono ricordati della loro casa e delle loro mamme, forse la nostra musica è davvero bella, forse pensavano alle nostre abitazioni che avevano visitato assieme agli infermieri del Camillian Centre, o non so. Può essere che li abbia guardati anche un pò strano.

Ciao mamma,sai che i farang si sono anche cimentati nel fare le nostre saponette e le nostre stelle di carta? Noi siamo più bravi però 5555 [corrisponde ad una risata stile ahahah]! Che gioia quando mi hanno preso in braccio, quando mi facevano le foto, quando hanno giocato con me e mi hanno permesso di saltargli addosso, Impari anche tu mamma?

Ho visto così tante cose mamma che penso di essere cresciuto un pò e di vedere la mia terra con occhi diversi.

Nonostante le mille difficoltà, lo stipendio che non basta, la sporcizia, l'immigrazione e tante altre cose –che penso si ritrovino un po’ ovunque- la Thailandia mi piace moltissimo: è verde, è accogliente, è piena di contrasti con piccoli tesori da scoprire giorno dopo giorno. Avere occhi nuovi, diversi dai tuoi, serve anche a questo: fa avere uno sguardo diverso sulla tua realtà.


Mamma, ho chiesto ad ognuno dei farang il proprio nome. Come suonavano diversi, tutti complicati, però vorrei provare a scriverli qui

FRANCESCA una delle persone più coinvolgenti che io abbia mai conosciuto..deve avere una visione delle cose davvero profonda, speciale. Traspare da ogni cosa che fa e che dice, non se ne vedono tutti i giorni persone e tanto meno farang così!

ALICE questa ragazza ha la faccia più comunicativa che io abbia visto... non parliamo la stessa lingua ma sentivo comunque il suo cuore vicino al mio. Ti pare poco?

PAOLO tanti braccialetti per le tante sfaccettature della sua persona: gioioso, divertente ed ironico ma anche sensibile e tenero, quello che (assieme a Lorenzo) si è messo più in gioco con noi.

FEDERICA la fragilità e la forza assieme. Deve avere davvero un cuore grande grande grande.

LORENZO quello con la macchina fotografica da paura… un buon fotografo deve avere un buon occhio. Per un buon occhio occorre una grande sensibilità. Detto questo, detto tutto!

GINESTRA mi è sembrata in perenne ricerca di qualcosa. Che l'abbia trovata proprio qui?

DANIELA una bomba di affetto esplosa nel nostro cielo in tanti piccoli fuochi d'artificio colorati!

VALENTINA una ragazza tanto tanto buona e disponibile, credo di aver imparato molto da lei. D’inglese e non.

MATTEO dai farang ho sentito una canzone che più o meno faceva così: lo chiamavano leader, metteva l’amore in ogni cosa (ha trovato così la chiave di volta).

Cara mamma,
i farang sono ormai partiti e sai che ti dico? Mi mancheranno da morire ed ho un po’ paura che si scordino di me o io di loro. Ma io resto, mamma, resto qui nella mia terra. Un giorno andrò io da loro e sarà come vivere di nuovo. Tutto.

-Jin

lunedì 19 settembre 2011

100% Nueva Bale

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La domanda più strana che mi è stata posta al mio ritorno in Italia è opera del mio capo: "Qual è stata la cosa più brutta di questa esperienza?". La mia risposta senza alcuna esitazione: "Il fatto di sapere che prima o poi sarei dovuta tornare qui!".

Il senso del mio cantiere è racchiuso tutto lì in quella secca risposta: un mese in cui dire che sono stata bene è poco... SONO STATA DIVINAMENTE!!! Il mio stato di grazia non è difficile da spiegare perchè si traduce in gesti semplici di una quotidianità che mi ha saputo donare una voglia di vivere tutto al 100% dedicando al sonno e al riposo solo le poche ore necessarie!!!

In Italia la sveglia inizia a suonare alle 7.15 e continuo a rimandarla fino alle 8 quando alzarsi dal letto è un obbligo altrimenti arrivo tardi in ufficio.

In Nicaragua suonava alle 6 e 10 secondi dopo ero in piedi!!! Solo chi mi conosce bene può capire che questo è un piccolo grande miracolo Nica!!!

A Milano: colazione fugace in solitudine.

A Nueva Vida: accensione Bale’s iPod per svegliare “dolcemente” la mia famiglia Nica, preparazione della colazione, 1…2…3 ENRICAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA… ok ci siamo tutti, colazione tranquilla e ricca di chiacchiere!

A Milano: acqua gelata per cercare di svegliarmi veramente.

A Nueva Vida: acqua fredda ma solo perché fa caldo e perché quella calda non esiste.

A Milano: piastra per dare un senso ai miei capelli, un po’ di trucco per apparire un minimo femminile e scelta di un abbigliamento che possa trasmettere un po’ di professionalità.

A Nueva Vida: sistemazione casuale dei capelli, gli stessi pantaloncini del giorno prima (tanto tempo 2 minuti saranno già sporchi) e maglietta scelta a caso tra le poche ancora pulite.

A Milano: chiusura della casa 1, apertura della casa 1 perché ho dimenticato il cellulare (come posso vivere senza?!), chiusura della casa 2, apertura della casa 2 perché ho dimenticato di prendere il sacchetto della pattumiera, chiusura della casa 3 (sicuramente ho dimenticato altro, ma ormai sono in ascensore e quindi pazienza!!!).

A Nueva Vida: ricerca chiavi di casa (perché io ero quella responsabile!!! Miracolo Nica anche questo!!!) chiusura porta (tanto non posso aver dimenticato niente visto che non mi serve nulla).

A Milano: 2 km, naturalmente in macchina, per arrivare in ufficio (una volta ci ho messo 30 minuti per arrivare e mia sorella mi ha superato a piedi :)) con educato scambio di opinione con chiunque osi non darmi la precedenza o tenti di rubarmi il parcheggio.

A Nueva Vida: 30 secondi, rigorosamente in infradito, per arrivare in ufficio con scambio di saluti e sorrisi con chiunque incontrassi.

A Milano: ricerca del badge nella borsa (che si nasconde sempre sto maledetto), sforzo incredibile per fare sorriso e un saluto che manifesti gioia ai miei poveri colleghi con cui ogni giorno condivido questa croce.

A Nueva Vida: Bueeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeenassssssssssssssssssssssss :)!!!

A Milano: accensione posto di “comando”, non si risponde al telefono prima della pausa caffè e poi si inizia a lavorare sperando che le 8 ore volino!!!

A Nueva Vida:si inizia a fare qualunque cosa sia necessaria in quel momento consapevole che la giornata passerà velocissimamente e mi ritroverò in un battibaleno sotto la doccia a lavar via dalla mia pelle la polvere, il sudore e la stanchezza accumulata durante la giornata. Tutto il resto invece è rimasto dentro di me senza che io me ne accorgessi!!!


A tutti coloro a cui sta balenando l’idea di fare una simile esperienza la prossima estate io dico: buttatevi!!! Come? Esattamente così.

Valentina

giovedì 15 settembre 2011

Il passato davanti a sé

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Ognuno dei libri che ho letto in questo ultimo periodo mi ha aiutata nella comprensione dell’universo che mi circonda e come per magia le loro parole hanno acquistato un senso particolare nella tela di esperienze che sto tessendo.
Uno dei primi libri che ho letto una volta arrivata Kindu è stato “Il passato davanti a sé” di Gilbert Gatore, regalo di un’amica prima della tanto sperata partenza. Il primo paese africano in cui ho messo piede non è stato infatti la Repubblica Democratica del Congo, bensì il Ruanda anche se per un veloce passaggio. Ho avuto l’occasione di attraversarlo in auto e di poter osservare fugacemente questo piccolo paese ornato da mille colline. E così questo libro, che racconta un pezzo di storia del Ruanda, mi ha accompagnata in questo primo assaggio di Africa.
Il passato davanti a sé” è un libro in cui il confine tra spazio onirico e spazio reale è incerto. Ma il contesto di riferimento del libro che ne è causa, ragione e fine in se stessa è un evento reale. Un evento umano, tragicamente e desolatamente umano: il genocidio della popolazione di etnia tutsi che ha avuto luogo in Ruanda nel 1994. È il racconto del tentativo di convivere con una tragedia di enormi proporzioni. Metaforicamente è il tentativo di convivere con la tragedia dell’essere creatura umana. Della convivenza di male e bene, dello sbiadito e confuso limite che talvolta impedisce all’uomo di oltrepassare ciò che è moralmente accettabile. Di momenti in cui il confine scompare e la follia diviene collettiva ce ne sono stati, ce ne sono e, malgrado tutto, sempre ce ne saranno nella storia dell’uomo. Nel 1994 in Ruanda la follia ha contagiato la stragrande maggioranza della popolazione e l’istinto di uccidere, di eliminare il diverso, l’altro, ha preso il sopravvento sulla capacità di giudizio. Di passaggio a Kigali mi è capitato di visitare il museo del genocidio. In una stanza esagonale sei nicchie accolgono, appese in file ordinate, le foto di alcune delle persone che sono state vittime di questa follia. La cifra esatta è incalcolabile, ma secondo stime ufficiali si aggirerebbe attorno agli 800.000 – 1.000.000. Ad un prete, testimone del massacro che ha avuto come teatro il Ruanda, è stato chiesto se la sua fede in Dio fosse stata minata dall’aver assistito ad un genocidio. “No, la mia fede in Dio è intatta. È la mia fede negli esseri umani che è andata distrutta per sempre”. Ed è forse la stessa impossibilità di recuperare la fiducia nell’essere umano che spinge Gatore a costruire questo romanzo a due voci: la voce del genocidario e la voce della sopravvissuta. Che spinge Gatore ad indagare i più reconditi recessi dell’animo umano, mostrandoci la tragedia di chi è assassino, di chi sa che non può cercare perdono e la tragedia di chi, sopravvissuto, non trova in sé la forza di perdonare e di andare avanti. Tanto più che il mondo che lo circonda è abitato da individui che hanno scelto di ignorare le tragedie dell’umanità, di quella più vicina a loro come di quella più distante.

L’oscenità del mondo non è nella sfilata dell’orrore e dell’ingiustizia, bensì nell’atteggiamento di chi non sa dire altro che “è tremendo, certo, ma…”, di chi non sa fare altro che allusioni tra un caffè e una battuta, altro che compiere il rito dell’indignazione per poi passare ad altro: alla vita normale.

Il lettore si ritrova così a partecipare in prima persona a questa indagine e, spinto a prendere parte per una delle due voci che si rincorrono nel libro, si ritrae impaurito quando ai sentimenti che prova per l’una e l’altra viene dato un volto. Quando all’improvviso ne viene svelato l’orrore. Gatore conduce con grande maestria la sua riflessione sulla tragedia ruandese su due piani paralleli, il soggettivo e l’oggettivo, spingendo il lettore a riflettere in entrambe le direzioni.


Olivia

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(.. Ma è proprio attraverso la negazione presente in questa massima , che ai sensi appare come l'esplicazione di una realtà assoluta, che rifletto.)














In media in repubblica Moldava vengono abbandonati in istituti residenziali più di 400 bambini all'anno, la cui età oscilla fra 0 e 6 anni.












Solamente per il 22,2 % viene offerta una soluzione definitiva, mentre il 75,6 % rimane negli istituti residenziali, gli internat.




Nel 2009 , dei 40803 nati, 14634 sono stati abbandonati e quasi tutti da ragazze adolescenti.



L'Indennità mensile offerta dallo stato per le madri non assicurate è di circa 250


lei ( 16 euro circa).




Una confezione di pannoloni sufficiente per due settimane costa 245 lei.




Missione sociale Diaconia, in collaborazione con Caritas Ambrosia


na e Caritas Vienna ha dato vita ad un centro di accoglienza


per madri sole . “In braccio alla mamma” accoglie 10 coppie madre-bambino, garantisce loro assistenza di varia origine e soprattutto da una nuova alternativa alle donne che altra scelta non avrebbero se non quella di abbandonare il pr


oprio piccolo.






Le difficili condizioni di vita, sommate ad un'ancora presente cultura omerica "della vergogna" , costringono ( fra i vari casi) ragazze poco più che bambine e violate a dover abbandonare il tetto familliare, perché sono gli stessi consanguinei a lavarsene le mani.







I casi estremi, di illimitata ingiustizia, si intrecciano a fatti di ordinaria normalità: Donne sedotte ed abbandonate, gravidanze non previste ( o previste e poi ignorate).



Altro da dire non mi resta, se non augurare in bocca al lupo alla nuova squadra!





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martedì 13 settembre 2011

Per amare bisogna conoscere

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Partenza 4 agosto. Ore 5 ritrovo in aeroporto. Il gruppo mi aspettava. Ero terribilmente in ritardo. Ma grazie a questo ritardo ho preso coscienza di cosa stavo per fare e mi sono detta “Je, stai andando in Perù”. Fino ad allora non mi sembrava vero, non mi sembrava diverso da una vacanza normalissima a cui sono abituata. Il viaggio fortunatamente è lungo, e mi incomincio ad abituare sempre più all’idea. Arriviamo a Lima, Giovanni ci aspetta all’aeroporto. A guidare, eh si, ahimè, è il direttore del collegio di Sayan che, per arrotondare, fa l’autista di combi. Si entra, così, piano piano in un mondo e in una cultura piena e intrisa di contraddizioni. Non saprei nemmeno da dove cominciare a parlare del Perù. Le problematiche sono tante, dalla violenza famigliare, soprattutto sulle donne, ai maltrattamenti e abusi su bambini e bambine, alla famiglia che non esiste, donne sole con figli, donne che vivono con il compagno che, molto probabilmente, non è il padre dei figli della donna, il quale quasi certamente ha altri figli con un’altra donna, uomini soli con figli, ragazze madri (13, 14, 15 anni) che spesso lasciano i figli ai nonni, se non riescono ad abortire prima, illegalmente. Per non parlare della corruzione statale, della polizia, dei soldi che a Lima ci sono e a Lima restano, spariti tra i governanti. Eh si, il Perù sembra un paese in crescita, il PIL è in aumento… fandonie! Il PIL in aumento è il PIL di Lima, tutto quello che non è Lima, non è niente, non viene censito, non viene considerato. Il Perù è una realtà strana, una realtà contraddittoria, una realtà mascherata.


Noi abbiamo toccato con mano i problemi dei bambini che vedevamo tutti giorni alla scuola primaria (le elementari nostre) e al pronai (alla scuola materna) all’oratorio e dai racconti che Giovanni e Chiara ci facevamo. Abbiamo incontrato una ragazza tredicenne incinta di 5 mesi, abbiamo conosciuto famiglie devastate, madri e padri soli.

Ma per noi il Perù non è stato solo “problematico”. Siamo stati accolti da una comunità che ci ha voluto bene, siamo stati abitanti di Sayan quasi a tutti gli effetti. Tra mercato, oratorio, scuola primaria e scuola materna, eravamo ormai accettati e davvero ben voluti, nonostante le diffidenze inziali. Abbiamo giocato al Sapo, ballato, bevuto birra e festeggiato con la comunità la nostra partenza… sono stati degli amici, dei carissimi amici.

La nostra presenza lì… beh, c’è chi ci ha ringraziato del bel “lavoro” fatto per coinvolgere quella ragazza tredicenne che, dopo la scoperta della gravidanza, si era allontanata, e rintanata, un po’ da tutto; Giovanni ci ha ringraziato del lavoro fatto con i ragazzi del doposcuola; che ci ha visto cambiati, le maestre del pronai ci hanno chiesto se saremmo tornate. Beh, probabilmente non siamo stati del tutto inutili, anche se un senso di impotenza ci invadeva. Più parlavamo del Perù, più lo conoscevamo, più entravamo in storie di vita sconvolgenti, più ci sentivamo piccolini, delle gocce minuscole in un oceano immenso, quello pacifico, insomma INUTILI. Ma forse era proprio questo il senso del nostro stare lì, non potevamo cambiare la loro condizione, potevamo solo stare, sostare, conoscendo e condividendo le loro angosce, a volte strazianti, che Chiara ci riferiva con occhi lucidi. Noi assorbivamo. Assorbivamo tutto, come spugne, interrogavamo assetati di sapere, cercavamo di conoscere questa realtà da sanare. Ingoiavamo a denti stretti quanto ci veniva detto e sperimentato. Abbiamo AMATO questa realtà. L’abbiamo conosciuta e amata. Noi siamo stati lì per amare sorridendo, con un naso rosso da pagliaccio e un palloncino in testa a mo’ di cappello.
"Ci impegnamo, non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo; per amare anche quello che non possiamo accettare, anche quello che non è amabile, anche quello che pare rifiutarsi all’amore, poiché dietro ogni volto e sotto ogni cuore, c’è, insieme ad una grande sete d’amore, il volto e il cuore dell’amore"
(Primo Mazzolari)

Jessica

domenica 11 settembre 2011

Smiley, smiley, smiley!

1 commento:
Sono una persona strana. Lo so, perché quest’anno ti costringe a guardarti dentro. Lo so perché a volte chi incontro me lo dice proprio.
Nella mia stranezza, quando sono in possesso delle mie facoltà mentali, vivo esperienze toccanti mantenendo un distacco innaturale (perché abitualmente sono molto emotiva). E poi magari dopo poche ore, o a volte giorni, tutto ciò che mi è successo comincia a sopraffarmi, e allora mi fermo a pensare.

Venerdì sono Andata in un ospedale a Nairobi con quel gruppo di artisti di cui ho parlato in altri post, Sarakasi trust hospital project.
Al mattino siamo stati nel reparto di pediatria generale, siamo andati a chiamare i bambini nelle varie stanze.
Ecco, le stanze: lettini piccoli e conciati male, tenuti puliti solo per la tenerezza delle mamme, alcuni dormivano in due sullo stesso materasso. I bimbi avevano patologie generali, chi più gravi come tremore continuo, chi meno. Tanti con la pancia talmente gonfia da faticare a muoversi ed alzarsi.
Sarakazi ha allestito un teatrino per i pupazzi e messo un tappeto per i bimbi in mezzo al corridoio. Hanno giocato, narrato storie, fatto uno spettacolo con pupazzi…
Al pomeriggio abbiamo cambiato piano e il gruppo di artisti si è diviso. Da una parte si trovava il reparto delle lunghe degenze, alcuni con malattie psichiatriche. I bambini sono arrivati di corsa, urlanti e festosi, ballavano, parlavano, non stavano zitti un secondo. Anche qui pupazzi, disegni, animazione. Però io sono rimasta per poco e poi sono andata nell’altro reparto: ustioni.
Gente che dormiva per terra su un materasso, lenzuola sporche sparse in giro, e un odore che mi è rimasto nel naso per un giorno: un misto di farmaci, pelle bruciata… e non continuo nella descrizione.
I bimbi erano ustionati gravi, la loro pelle è ormai bianca dopo le ustioni; alcuni non riuscivano a camminare per le cicatrici, in giro nudi o con bende. Un bimbo piccolissimo era talmente ustionato da non avere più le dita, solo un moncherino. Voleva colorare e riusciva ad incastrare il pastello nell’incavo tra il pollice e l’indice. Ma anche loro erano desiderosi di un attimo di divertimento, e quindi sono ricominciate le storie, le danze, le canzoni.
Ad un certo punto ho sentito che qualcuno diceva muzungu ma non capivo chi. Poi mi sono girata e ho visto un bambino che mi ha detto “kuja(vieni)”.
Era ustionato dalla testa al bacino, completamente bendato, braccia e mani comprese, orecchie entrambe ustionate e parzialmente la faccia. Le braccia erano bendate in modo da restare aperte e uscire dal letto. Lui era immobile ma ha cominciato a farmi mille domande. Si chiama Dennis, 11 anni. Continuava a muovere l’unica cosa che riusciva a muovere: le gambe. E mi diceva che lui non vedeva niente da li, ma voleva che chiedessi al chitarrista di andare da lui successivamente.
Si sentiva solo, di sicuro, quindi continuava a chiamarmi “auntie” e chiedermi un favore. L’ho aiutato a bere il te con una cannuccia, mi ha chiesto persino di pulirgli le orecchie (mi sono rifiutata, non avrei voluto fargli male). Poi ha cominciato a sentire dolore al braccio, quindi gli spostavo il cuscinetto per non fargli sentire la sbarra di ferro che premeva contro la ferita. A volte mi giravo e lo vedevo piangere silenziosamente. Alla fine ho chiamato il chitarrista che, con uno dei volontari, gli hanno cantato le sue canzoni preferite. E Dennis intanto mi guardava e cantava con la sua vocina flebile.

La mattina non sono rimasta colpita dall’esperienza, sono uscita dall’ospedale pensierosa, e chiedendomi cosa avevo fatto veramente per quei bambini durante il giorno. Poi mi sono resa conto che durante la sera l’odore mi perseguitava. Ma soprattutto il ricordo di Dennis. Un ricordo di una tenerezza infinita, lui immobile a letto che mi chiama “auntie”… e poi i sorrisi divertiti dei bambini, anche mentre prendevano i medicinali, i pianti quando ce ne stavamo andando (“ti prego, resta qui con me!”). E’ bastato davvero poco per renderli felici per qualche ora, in un ambiente in cui si trovano spaventati e impauriti.

Questa è l’Africa, ti regala emozioni continue. E’ bene non farsi sopraffare, ma ogni tanto fermarsi e pensare a cosa stiamo vivendo aiuta a ricavare il meglio da ogni esperienza.

Nessuna foto, è un ricordo che terrò privatamente dentro di me.

giovedì 8 settembre 2011

La multi ani, Moldova!

2 commenti:

1 su tre sono le donne moldave che subiscono violenza tra le mura domestiche.

2 milioni circa le bottiglie conservate nella cantina di Mileştii Mici, la più grande del mondo.

3 su 10 sono le persone in età lavorativa che hanno abbandonato il paese.

4 volte mi sono versata yogurt nella tazza pensando fosse latte, che la confezione è la stessa

5 i parchi di Chisinau che offrono la connessione Wi-Fi.

+6% la crescita del PIL nel 2010.

7 i colli su cui sorge la capitale Chisinau.

8 i diversi tipi di placinta (una specie di torta salata) offerti nei ristoranti locali.

9 gli album già pubblicati dagli zdob si zdub; il decimo uscirà nel gennaio 2012.

10 le coppie mamma-bambino che saranno accolte nel centro “In braccio alla mamma”, in apertura sabato

11 % della superficie italiana corrisponde a quella moldava

12 mila almeno, i bambini moldavi residenti negli internat

13 le copie di quotidiani vendute ogni 1000 abitanti

14a armata russa, ancora presente in Transnistria (regione moldava autoproclamatasi indipendente)

15 la mortalità infantile, su 1000 nati vivi

16
le squadre che partecipano al campionato di calcio moldavo

17 lei moldavi (circa) equivalgono ad un euro. Lo stipendio medio qui è di 3000 lei (circa 180 euro). Un litro di latte costa 9 lei (mezzo euro) …

18 litri di alcool puro procapite all’anno fanno della Moldova lo stato in cui si beve più alcool al mondo.

19 scarpe nere a punta ogni 20 uomini moldavi (nella foto, la versione estiva)

20 anni dall’Indipendenza … Auguri, Moldova!

Billy Elliot parlava russo...

4 commenti:




Mi sono ritrovata indecisa sul titolo da dare a questo post, ho utilizzato il cursore canc. svariate volte.
Ho giudicato che " L'elefante e la farfalla" potesse risultare offensivo. ( per me stessa più che altro).



Step 1

Quando ero poco più bassa di adesso e di anni ne avevo 5 , io ballavo.
Ricordo una cascata di boccoli ed un tutù rosa.

Step 2

Oggi di anni ne ho 24, porto capelli taglio corto e i boccoli sono indisciplinati ( mi piace definirli in auto gestione), ma c'è una cosa che mi accomuna a quella bambina (oltre l'altezza) , perché oggi io torno ad essere ballerina.

Step 3

Ha inizio la mia nuova vita da danzatrice, solo a dirlo mi sento già più ricercata, distinta. Quindi via i 12 tacchetti e avanti scarpette (che poi altro non sono che ciabatte informi, ma la legge dell'eleganza non ammette volgarità).

Step 4

Seguo le rigide regole del maestro e mi presento puntuale alla lezione indossando un vestito come da richiesta, ma presto mi accorgo di essere la sola a portarlo.

Step 5

Anche se i passi sembrano interpretati alla moviola, percepisco di non cavarmela poi così male.

Step 6

Qualche problema con la rotula, ma con "eleganza" mi rimetto in sesto.

Step 7

Se chiudo gli occhi sono baby di dirty dancing: forse anche a lei sarà capitato di vestirsi in modo inappropriato, con costanti dolori alla milza.

Step 7

Solitamente nel calcio "lo straniero" è motivo d'orgoglio, ma non riesco a fiutare se questa mia peculiarità sia stata colta o se, semplicemente, credono io sia una moldava poco dotata.

Step 8

M
i accorgo di non essere l'unica straniera.

Step 9

Sulla carta io sono l'unica straniera: unica a non essere nata in questo paese e unica a non essere in possesso del passaporto moldavo. Queste persone però parlano lingue diverse ed è qui che la lezione assume un tono singolare.

Step 10

Mi soffermo ad osservare il momento ( intanto mi riposo), che altro non è che normale routine qui in Moldova, un paese bilingue, nato da genitori stranieri. Il Romeno ed il russo che si intersecano con estrema semplicità, un automatismo che aimhè rende difficile la comprensione e che non mi permette di integrarmi del tutto.
Il maestro interrompe la danza e muta la lingua: è la stessa persona di due minuti prima, ma a me appare come un nuovo Vlad . E' buffo, le espressioni e la gestualità commutano così come il suo codice . Quasi stessi assistendo ad un teatrino, all'imitazione comica del “carattere” di un paese straniero e alle sue consuetudini, sorrido.

Step 11

L'argomento è spinoso; d'altronde la lingua ufficiale è il romeno, ma sembra che la popolazione di ceppo russo non abbia alcuna intenzione di convertirsi ad essa. In molti sentenziano sull'accadimento. Io credo semplicemente che questo sia frutto della storia di un paese, non capriccioso, ma costretto a subire continui cambiamenti. Il tempo sovietico non è un ricordo sfumato, ma ancora ben nitido, così come la romantica reminiscenza dei tempi passati che dura soprattutto nei villaggi. Molti giovani invece lamentano il pigro processo di sviluppo e per questo migrano, perché il loro tempo è molto più celere di un semplice ricordo.

Step 12

LAVORI IN CORSO:

Il processo metamorfico é ancora in via si svolgimento.
Se prima ero calciatrice con l'animo gentile della ballerina, oggi sono ballerina con il fisico grave della calciatrice (a fine carriera).. ma l'impazienza non si addice alle signore sofisticate , quindi attendo.

P.s: Prossimamente invierò l'invito per il saggio di Natale.

L'estate di Myrella

1 commento:

Per me che non ci sono (ancora) stato, il Sudamerica è fatto di istantanee prese tutte dal mio immaginario, nutrito da letture, film, racconti e magari qualche stereotipo. Mi viene in mente la lunga serie di intrepidi rivoluzionari di cui Guevara è solo il rappresentante più famoso, la stoica resistenza delle popolazioni indigene, l'esplosività di colori, suoni e danze, la fantasia nel calcio rappresentata al massimo dall'argentino Pibe de Oro che deliziò Napoli e il mondo con le sue giocate divine.

Ma da adesso, il continente reaparecido mi farà venire in mente anche qualcos'altro, ovvero il viso di una ragazza dolce che ho avuto la fortuna di conoscere qui ad Amman, precisamente nella prigione femminile della capitale giordana. La sua storia è stata già raccontata un paio di anni fa da Sara, una vecchia serviziocivilista qui in Giordania, ma vale la pena di ripeterla.

Myrella nel suo Perù assistette al fallimento della panetteria di famiglia, che stava costando la casa in odore di pegnoramento e allora con l'incoscenza tipica della sua età decise di accettare la proposta di un narcotrafficante di trasportare in Giordania ovuli di droga ingerendoli prima di salire sull'aereo. Purtroppo la cosa non andò bene, ed esplose un ovulo dentro il suo stomaco, portandola quasi alla morte. I dottori riuscirono a salvarla giusto in tempo, ma al risveglio trovò oltre cinque anni di galera da scontare a migliaia di chilometri di distanza da casa sua.

Myrella è uscita il 21 giugno, il giorno in cui entra l'estate, e allegoricamente è cominciata anche l'estate della sua esistenza, libera finalmente dal debito da pagare. Quando siamo andati a trovarla è stato molto emozionante, poterla vedere dal vivo e non attraverso un vetro, e anche il suo sorriso aveva preso una luce nuova, o forse era solo la luce del sole che finalmente le irradiava il viso dopo tanti anni di oscurità.

Come lei ce ne sono altre che visito settimanalmente, ma di nessuna avrò la fortuna di vederle dal vivo come lei, perchè tutte hanno una pena che terminerà quando il mio servizio civile sarà già finito da tempo, e vedrò questo anno come una cosa passata ma sicuro le sensazioni che loro e Myrella mi hanno dato saranno ancora vive dentro di me.

mercoledì 7 settembre 2011

Volontario Italiano Aggredito in Kenya...

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socia potevi aiutare invece di ridere!!!!!!!!!

MAJI!!!

2 commenti:
Siamo stati in un posto fuori dal tempo, fuori dal mondo, dove tutto pare essersi fermato, dove il progresso, la tecnologia, la televisione, la luce non sono arrivati.
Siamo stati in un posto che persino per i Kenyani e troppo lontano per andarci, di cui loro stessi non sanno niente: chi ci abita, come si vive...

Siamo stati nella terra dei Pokot, una tribù Kalenjin, ancora legata alle tradizioni. Al confine con l'Uganda e il Sud Sudan, in Kapenguria, in un villaggio chiamato Tamugh.
Abbiamo impiegato 14 ore, 4 mezzi di trasporto, tra cui un camion. Abbiamo attraversato fiumi in piena e strade scoscese.
Le case sono costruite con il fango, spesso solo capanne; il tetto a volte in paglia, a volte in lamiera. L'elettricità è un lusso di pochi, la televisione non esiste, il segnale non arriva. Siamo in mezzo alle colline e alle montagne, terre in cui ancora la gente combatte per difendere la propria mandria di mucche. Pokot, Maasai, Ugandesi armati e pronti a sparare. 
Al nostro arrivo la comunità si raduna per un saluto, la gente canta e soprattutto balla e salta come solo i Pokot e i Maasai sanno fare. 
Le donne portano sulla schiena i loro bimbi, attorcigliati nei Batik, le tipiche stoffe kenyane colorate e con un proverbio kiswahili stampato ai bordi. Indossano collane molto grandi e colorate, orecchini abbinati e bracciali in acciaio, color argento, bronzo o oro: ne indossano tanti, occupano anche metà braccio, e sono il simbolo che sono sposate.
Gli uomini non lavorano, si occupano solo del raccolto. Si radunano nel centro del villaggio a giocare a biliardo. La donna si occupa della casa, dei figli, delle mucche, delle capre, dei polli, dell'orto.

Il piatto tipico è il latte, contenuto nei Vibuyu, delle giare in legno allungato, se sei donna, o bombate, se sei uomo. Viene bevuto con il sangue,oppure fermentato o mischiato alla cenere di alberi tipici della zona. 
La gente si cura con le piante, sanno dove andare a cercarle, i loro effetti, alcune prevengono persino la malaria.

Sembra di tuffarsi nel passato, quello che di solito i nostri nonni ci raccontano (o almeno i miei, che hanno vissuto in fattorie..). Ma questa è realtà, che però porta con se molti problemi.

Il più evidente è la mancanza d'acqua, la gente deve percorrere chilometri, impiegano ore, per poter avere acqua potabile, o anche solo per lavarsi. 
Siamo stati ospiti di Martin, pokot nato e vissuto qui, dove tutt'ora vive con la sua famiglia, quando non è a Nairobi a lavorare. E' catechista nelle carceri, ma non si è dimenticato del suo villaggio. Da anni infatti si impegna a costruire pozzi, dighe e sistemi per trasportare l'acqua in tutta la valle. Un lavoro ammirevole e importante.  
Ha collegato un pozzo alla scuola, al dispensario, un'altro ad una chiesa lontana due ore a piedi. 
E ora, lontani da Nairobi, dall’acqua che arriva diretta alla nostra tanica e al nostro rubinetto, ci rendiamo conto di cosa davvero succede nel corno d’Africa. La siccità peggiore degli ultimi 60 anni minaccia la vita della popolazione del Nord del Kenya, esposta alla fame, alla sete, alle malattie.

E dopo quattro giorni siamo tornati alla nostra vita nella capitale più consapevoli, di cosa significa avere l’acqua, dei rischi che la sua mancanza comporta, del fatto che basta andare un po’ più al nord e la gente soffre e fatica, ma sempre combatte per poter ottenere un futuro migliore.

Mi suona il cellulare, mi arriva un sms della Safaricom :“dona dei soldi, Kenyans for Kenyans”.  E allora penso: “qualcosa si sta smuovendo”.
Accendo la tv e guardo il telegiornale. Si parla poco della siccità, dei turkana (tribù del nord) vittima principale della crisi. Il governo sostiene che nessuno sia morto, che il problema non è così grave. Unica notizia importante: le elezioni del 2012.

martedì 6 settembre 2011

Giulia in Nicaragua

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Primo viaggio in bus

Conoscenza sulla posizione geografica incerta tra America latina e Africa, verde, fiori, i versi degli uccelli, il rumore dei giechi sui tetti, farfalle, scimmie, cascate, laghi immensi con tanto di squali, l’Oceano Pacifico, il sole, la pioggia improvvisa,i nubifragi, i mille colori del cielo, Managua, le strade sterrate, la fogna lungo le vie, case basse e colorate, le finestre e le porte delle case con le ringhiere di ferro, i lucchetti, la pupusa, le amache, gli autobus tamarri, i taxi sgangherati, i cani randagi, i bambini scalzi, la donna del pane, l’attesa di qualcosa di indefinito, la messa campesina, i bambini travestiti lungo le strade di Granada, lo spettacolo dei leoni al circo organizzato per i bambini, le isole del lago Nicaragua, le cena a lume di pila, gli alberi di Natale in pieno agosto, la tortilla, il rum, i balli latini, la sensualità, i viaggi in bus appiccicati gli uni con gli altri, El Guis, i bambini in gita al mare, il riso e fagioli, il platano fritto, le leggende del luogo, le improvvise interruzioni di elettricità e acqua, la passione e il sorriso delle insegnanti, le crisi di Daniela, il viso di Gabriela, gli abbracci in gruppo che ti fanno perdere l’equilibrio, giocare a pitturarsi a vicenda con i bimbi sordomuti, le prove del balletto alle sette di mattina…


Gabriela


..contatto profondo, quello che ti tocca le viscere e ti apre la mente!.. Grazie NICARAGUA!




Giulia

sabato 3 settembre 2011

SPANNOMETRICO BILANCIO DI UN’ESTATE LIBANESE COSE CHE CI MANCHERANNO DEL LIBANO:

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•Il Manouche delle 11.30 (a testimoniarlo il buco nero che si crea nel nostro stomaco da quando siamo tornati allo scoccare delle 10.30 ora italiana!)

•La tecnica del boccione: 10 litri di puro godimento rovesciati in testa a scroscio dopo una giornata appiccicaticcia

•L’antichissima arte del rotolino. Strumenti del mestiere: pane libanese del diametro di 12 metri e dalla consistenza gommosa, coltello a punta arrotondata (family friendly), formaggini Picon o Nutella (rigorosamente made in Canada!)

•La siesta pomeridiana con vendordicimila© gradi in casa

•Il nostro impegnativo scambio di battute quotidiano con le sciure del tè.
Andata: “Bonjooooooouuur!” “Bonjooooooour!” Ritorno: “Bonsoooooir!” “Bonsoooooir!” e sorrisi d’intesa a palate

•Le Z sempre rigorosamente sonore di Monica

•Gli inutili tentativi di Paolo di spacciarsi per un milanès (quando torni ci andiamo a mangiare polenta e BLUESHIT!) e l’immancabile commento di Monica: “A Pa’…sembri un immigrato!”

•Il sorriso radioso del nostro Babbo Natale personale nonché ristoratore di fiducia sotto casa

•La luce magica delle 18.30 (momento propizio per le foto artistiche)

•Gli aperitivi scrocchiarelli gentilmente offerti dalla ditta Al Kazzi (marchio di qualità!). Resta tuttora ignoto perché neanche le galline gradissero la prelibata vivanda…e forse meglio così!

•Il nostro autista, nonché falangista personale, Jean Reno, per gli amici Jean. Vogliamo ricordarlo nel suo momento di maggior tenerezza quando per farci arrivare le patatine che avevamo ordinato da un’ora ha chiamato il cameriere puntandogli il dito mentre con lo sguardo da duro (di default) lo minaccia silenziosamente: "o vieni qui entro mezzo secondo o ti porto a vedere il negozio di mio cugino con annesso campo gonfiabile da calcio saponato e non te ne puoi andare fino a che non hai visto il campo che si gonfia completamente!"

•Monica&Paolo

COSE CHE NON CI MANCHERANNO DEL LIBANO:

•Watfa (l’amorevole proprietaria di casa) che ci minaccia in arabo brandendo un ceppo di legno

•Watfa (l’amorevole proprietaria di casa) che ci invita a guardare con lei una fiction bellissima (“good, good, good!”) sul suo canale preferito Al-Manar: esercitazioni militari di Hezbollah…………..peccato fosse in arabo perché la trama sembrava avvincente!

•Fremiti e Brividi della guida libanese (segno della croce di rito prima di salire in macchina) e i tornanti delle strade di montagna…forse perché non esistono!

•Gli scarafaggi giganti, scattanti, volanti, irritanti contro cui solo un’arma può competere: il PIF PAF!

•Lavorare come dei cinesi a ripetizione, in spazi ristretti, sotto il sole, con utensili impropri e privandoci di preziose ore di sonno

•Condividere un bagno in 7…soprattutto quando si condividono anche tumulti intestinali!

•L’ultima rampa di scale per arrivare a casa

•L’icona cangiante e iridescente appesa sopra alla cassa di Bachir…brrrrrr, rabbrividiamo!

•I clacson sempre e comunque: per avere la precedenza, per dare la precedenza, per sorpassare, per accostare, per dirti che puoi attraversare tranquillo la strada senza essere investito, per avvisarti che stanno per investirti, per chiederti se vuoi un passaggio, per annunciare un’invasione aliena, per sbaglio, perBacco!

•Monica&Paolo

venerdì 2 settembre 2011

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Siamo stati in un posto fuori dal tempo, fuori dal mondo, dove tutto pare essersi fermato, dove il progresso, la tecnologia, la televisione, la luce non sono arrivati.
Siamo stati in un posto che persino per i Kenyani e troppo lontano per andarci, di cui loro stessi non sanno niente: chi ci abita, come si vive...

Siamo stati nella terra dei Pokot, una tribù Kalenjin, ancora legata alle tradizioni. Al confine con l'Uganda e il Sud Sudan, in Kapenguria, in un villaggio chiamato Tamugh.
Abbiamo impiegato 14 ore, 4 mezzi di trasporto, tra cui un camion. Abbiamo attraversato fiumi in piena e strade scoscese.
Le case sono costruite con il fango, spesso solo capanne, il tetto a volte in paglia, a volte in lamiera. L'elettricità è un lusso di pochi, la televisione non esiste, il segnale non arriva. Siamo in mezzo alle colline e alle montagne, terre in cui ancora la gente combatte per difendere la propria mandria di mucche. Pokot, Maasai, Ugandesi armati e pronti a sparare. 
Al nostro arrivo la comunità si raduna per un saluto, la gente canta e soprattutto balla e salta come solo i Pokot e i Maasai sanno fare. 
Le donne portano sulla schiena i loro bimbi, attorcigliati nei Batik, le tipiche stoffe kenyane colorate e con un proverbio kiswahili stampato ai bordi. Indossano collane molto grandi e colorate, orecchini abbinati e bracciali in acciaio, color argento, bronzo o oro: ne indossano tanti, occupano anche metà braccio, e sono il simbolo che sono sposate.
Gli uomini non lavorano, si occupano solo del raccolto. Si radunano nel centro del villaggio a giocare a biliardo. La donna si occupa della casa, dei figli, delle mucche, delle capre, dei polli, dell'orto.

Il piatto tipico è il latte, contenuto nei Vibuyu, delle giare in legno allungato, se sei donna, o bombate, se sei uomo. Viene bevuto con il sangue, fermentato o con la cenere di alberi tipici della zona. 
La gente si cura con le piante, sanno dove andare a cercarle, i loro effetti, alcune prevengono persino la malaria.

Sembra di tuffarsi nel passato, quello che di solito i nostri nonni ci raccontano (o almeno i miei, che hanno vissuto in fattorie..). Ma questa è realtà, che però porta con sè molti problemi.

Il più evidente è la mancanza d'acqua, la gente deve percorrere chilometri, impiegano ore, per poter avere acqua potabile, o anche solo per lavarsi. 
Siamo stati ospiti di Martin, il sostituto di Sister Raquel mentre lei era in Argentina, pokot nato e vissuto qui, dove tutt'ora vive con la sua famiglia, quando non è a Nairobi a lavorare. E' catechista nelle carceri, ma non si è dimenticato del suo villaggio. Da anni infatti si impegna a costruire pozzi, dighe e sistemi per trasportare l'acqua in tutta la valle. Un lavoro ammirevole e importante.  
Ha collegato un pozzo alla scuola, al dispensario, un'altro ad una chiesa lontana due ore a piedi.