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domenica 8 settembre 2019

Haiti Tololo

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Come si può raccontare un’esperienza di un mese in poche righe? Come tradurre per iscritto emozioni, sensazioni, odori e gusti provati in questo mese?

“Ma vai ad Haiti quest’estate? Ma sei sicura? Guarda che è pericoloso!”. Ma io queste frasi le ho ignorate, non ci ho dato peso, quasi non le ho neanche ascoltate.
Sono partita per Haiti senza troppi pensieri, senza pregiudizi e senza aspettative per lasciarmi stupire ed emozionare da tutto ciò che mi sarebbe successo.
Ed ecco cosa è successo.

Si, Haiti è davvero uno dei paesi più poveri al mondo.

È un paese con tasso di disoccupazione e di analfabetismo elevati, con 768 km di strada asfaltata (su 4266 km). È il paese dove gli scarichi fognari sono a cielo aperto, i bambini corrono scalzi, dove la giornata è scandita dalla luce del sole perché la corrente, dove c’è, viene fornita solo poche ore al giorno e quando viene buio tutto si ferma perché di notte ci sono i lupi mannari; dove l’acqua potabile non è un bene disponibile così facilmente, dove i bambini camminano ore per recuperare un barile di acqua sotto il sole caraibico.
È un paese dove l’immondizia si brucia e l’odore in capitale è soffocante, dove le case (si possono chiamare case?) sono in cemento (tutte in cemento), una vicina all’altra e i vicoletti dei labirinti stretti stretti.


È un paese dove se sei straniero sei al centro dell’attenzione, dove per la strada ti urlano “blan, blan” con toni a volte aggressivi e a volte per te, i prezzi al mercato si alzano esageratamente, dove sei considerato “quello ricco”, dove bambini e ragazzi quando vedono che hai un paio di occhiali da sole, uno zaino, un bel cellulare ti dicono “Bamwen” (dammi!!) o ragazzi ti chiedono di pagargli le spese dell’università.



Si, Haiti è davvero così!!Ma è soltanto questo?
No! Haiti non è solo questo!Anzi..

Haiti è terra con paesaggi mozzafiato (dalle montagne alle colline, passando per gli altipiani e per il mare), con il mare azzurro caraibico e distese verdeggianti, albe e tramonti da cartolina, cieli e stellate che ti fanno sentire minuscolo.
È il paese dei frutti tropicali mai sentiti che mangi a qualunque ora, delle bibite zuccherate a tutti i gusti e della Mamba spalmata sul panino alla mattina. È il paese delle bananpesee e delle scatole di riso e pesce mangiate in spiaggia.
È il paese degli acquazzoni caraibici che ricorderai per tutta la vita: dei salti nel fango, delle risate e dei canti abbracciati sotto la pioggia.


È il paese dove quando piove i bambini, i ragazzi, gli adulti cominciano a danzare sotto la pioggia ringraziando il cielo.

È il paese della musica: a qualunque ora del giorno e (ahi noi) della notte c’è musica che “spacca orecchie” ma musica che ti rimane dentro e continui a canticchiarla anche se non conosci le parole, tanto da arrivare in Italia e continuare ad ascoltarla in loop.
È il paese della danza. Ballano a qualunque età, bambini e ragazzi, ma anche anziane signore nei villaggi. Ciascuno balla a modo suo, ha il suo movimento ma balla. Ballano perché la danza è vita e loro hanno voglia di vivere. 
È il paese delle presenze. Suor Luisa, suor Gabriella e suor Marie Stel, don Levi, don Ervè e don Claudio, Maddalena, padre Elder, Chiara, la comunità Papa Giovanni XXIII, i volontari. Ci sono. Semplicemente stanno tra la gente.

È il paese dove non serve l’orologio, dove non puoi stabilire l’orario di ritrovo perché tanto prima succederanno altri imprevisti. Dove non c’è fretta né frenesia.

E poi è il paese di Kay Chal. Kay Chal è casa.

Kay Chal sono Vaillant, Jameson, Stanley, Kenchy, Jacklin, Tito, Doumy, Mazlen, Jovenel, Julien, Boy – Guy e metFalou.
KayChal è casa per tutti i bambini del quartiere a CitéJeremie. È casa perché ci puoi trovare amicie trascorrere qualche ora giocando o imparando; è una macchia di colore tra il grigiore della capitale.
Kay Chal è amicizia nata nel giro di poche ore, amicizia che non ha bisogno della lingua per farsi capire, perché a volte bastano uno sguardo o dei gesti. Kay Chal sono animatori a cui dai un dito e si prendono tutto (anche le tue ciabatte), ti travolgono con la loro forza e le loro storie. Sono amici che una volta che hai conosciuto sembra conoscessi da una vita.

Kay Chal è voglia di mettersi in gioco, animatori che prendono in mano il microfono e diventano uno spettacolo da guardare, che non hanno nulla e a volte magari non mangiano per giorni, ma tirano fuori un’energia contagiosa. Animatori che costruiscono aquiloni spettacolari con legnetti e sacchetti di plastica e braccialetti a volontà e animatori che riescono a farti commuovere e ridere allo stesso tempo.
Ragazzi che non vedono l’ora di farti da guida per la Citè e ti portarti a casa loro e farti vedere dove abitano.KayChal sono ragazzi che ti riempiono il telefono di selfie brutti ma intrisi di una storia bella e vissuta.
Kay Chal sono ragazzi che ti dicono “tanto vi dimenticherete di Haiti” e che giustamente si arrabbiano con la vita e poi tornano a viverla.

Kay Chal è casa per i ragazzi di Haiti ma sarà sempre casa per noi.
Si Haiti è tutto questo e forse tante altre cose.

A voi, amici e animatori di KayChal posso dire questo: no, non ci dimenticheremo di Haiti, non è possibile dimenticarsi di voi, di ciascuno di voi, dei vostri sorrisi e delle vostre risate contagiose, dei vostri balli, delle vostre frasi (amwaiiiii, aaaanywayyyy, tissimooooo, ghenbagay, andiamo a mangiare qualcosina), delle vostre storie e della vostra energia.

Grazie a voi ho conosciuto Haiti, grazie a voi casa mia non è più solo in Italia e grazie a voi un pezzo del mio cuore rimarrà sempre ad Haiti.

Haiti tololo!!

Giada

giovedì 5 settembre 2019

Nairobi. “Africa è”

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Cos'è Africa? 
Trascorse tre settimane di cantiere a Nairobi possiamo dire che Africa è mille colori, sguardi e sorrisi.
È balli, canti e risate fragorose e spontanee.
È confusione in città, traffico sulle strade e soprattutto caos nella testa.
È stare ore e ore in coda senza lasciarsi mai prendere dallo sconforto.
È cucinare un risotto per 13, tagliare e pelare ogni sera chili di patate o di carote.
È bambini che ti corrono incontro per salutarti o semplicemente darti la mano.
È puzza di plastica che brucia ma anche profumo di un chaparro che cucina chapati.
È lezione di acrobatica che ti fa sudare ma di cui poi rimani soddisfatto.
È calma di Cafasso House e fatica nei campi la mattina.
È infinite partite di calcio e pallavolo sotto il sole cocente del pomeriggio con i nostri ragazzi.
È rimanere svegli a parlare per ore fino a tardi la sera.
È soffrire per farsi fare le tanto desiderate treccine e sciogliersele il giorno dopo.
È Sister Gertrude e Benedict.
È pulire e tagliare il cabbage dell’intero orto di Cafasso parlando di gossip tra ragazze.
È YCTC e chiacchiere con i ragazzi.
È scoperta di un mondo diverso, assurdo ma forse per quello così affascinante. 
È campanella che suona per scandire la giornata.
È ritrovarsi tutti per bere il chai bollente delle 10.30.
È ugali, sukuma wiki e ghitheri ogni giorno aspettando con ansia i chapati del venerdi sera.
È strade con matatu e piki-piki ad ogni angolo.
È compagni di viaggio da scoprire.
È forzata condivisione di ogni goccia d’acqua.
È nutella e mandazi prima di andare a dormire.
È svegliarsi il mercoledì mattina e saltare giù dal letto per controllare se è arrivata finalmente l'acqua.
È farsi prossimo.
È Korogocho, Mathare e Soweto ma anche Kibiko, Napenda kuishi e G9.
È pianto in silenzio ma anche sorriso nel capire che non solo tu provi quel senso di tristezza infinita.
È incomprensione e turbamento.
È condivisione e confronto.
È post-it colorati e parola del giorno. 
È "Dove e quando" come sottofondo fisso a casa e sul matatu privato.
È tazze rosa di Cafasso portate a casa e personalizzate con nastro adesivo.
È "fare serata" all'Africano.
È imprevisti come finire il gas e rimediare prendendo pollo, patatine, samoza, chapati, birra e coca d’asporto.
È "ragazzi dividiamoci tra mercato e tumaini" per fare la spesa.
È risparmiare ogni singolo scellino.
È “Pandana" e "African beauty" a tutte le ore.
È tempo che si dilata e di cui si perde ogni concezione.
È ballare tre ore a Kibiko senza rendersene conto.
È il primo emozionante viaggio in piki-piki e un fantastico matatu da 21.
È storie che ti entrano nel cuore e che lì rimangono.
È silenzio, imbarazzo, difficoltà.
È incontri e ascolto.
È imparare da persone che non hanno nulla, se non un'infinità di cose da insegnarti.
È passare davanti al banchetto di Juliet tornando a casa e fermarsi a chiacchierare.
È stoffe colorate cucite tutte dalla povera Bila.
È diventare abili professionisti nel contrattare al masai market.
È lavatrici eterne che poi, in fondo, non lavano.
È riuscire a lavare a otto mani un esercito di calzini bianchi, ormai diventati arancioni, senza arrendersi.
È terra rossa, terra rossa ovunque.
È safari in bici e fatica nel pedalare sotto il sole cocente dell’una.
È urlare “prendila!” quando vedi una giraffa che corre.
È avere paura che gli ippopotami ti attacchino da una barchetta traballante in mezzo al lago.
È essere un "muzungo" in mezzo alla folla e dimenticare di esserlo.
È scarpe sporche e magliette bianche che non torneranno più come prima.
È braccialetti colorati ed estenuanti lezioni per imparare a farli.
È aiutarsi a lavare i capelli con catino e bottiglia.
È vedere i tuoi compagni addormentarsi in ogni dove e svegliarli di soprassalto.
È tornare e sentire un senso di vuoto.
È semplicemente "home".
Forse (sicuramente) Africa è molto più di questo, ma questa è la nostra Africa.



Asante sana Africa!
 Vittoria e Laura

martedì 3 settembre 2019

Serbia. “Mi troverai nel parco, su quella panchina”

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Cara Halat,

avrei voluto salutarti con un abbraccio venerdì e invece ho in mente il tuo viso dolce che si affaccia dalla finestra della stanza nel campo profughi di Sid e mi saluta commossa, fisicamente distante ma emotivamente vicina.

Da quella finestra ringrazi tutti noi cantieristi per essere stati con voi in queste settimane, e io non so cosa replicare. Sono sprovvista di parole. Avevo preparato un biglietto che avrei voluto darti di persona. C’era semplicemente scritto “Thank you for the time spent together. I hope the best for you and your family”. Ma non c’è stato il tempo, né la possibilità.

Di fatto siamo state insieme due pomeriggi. Poca cosa, se si quantifica il tempo; un Dono immenso, se si qualifica il tempo. Ed è proprio con la seconda opzione che scelgo di guardare il tempo trascorso insieme.

Sei stata per me un Dono, un Dono grande, soprattutto per la fiducia che hai saputo darmi. La domanda “What is home?” ci ha accompagnato per tutto il Cantiere e una delle parole con cui mi sento di rispondere è: “intesa”, quell'intesa che c’è stata fin da subito tra me e te, un’intesa che va oltre la lingua che si parla, un’intesa fatta di sguardi e sorrisi che quando c’è ti riporta a “casa”. 

Ricordo con affetto uno dei primi giorni al campo di Sid quando sei uscita dal “beauty saloon” con la tua mamma e la tua sorellina per mano. Ti sei avvicinata a me con un sorriso limpido e raggiante e mi hai mostrato le unghie che ti eri appena fatta. Mi sono complimentata con te con un banalissimo e accentuato: “Wooooooow… Wonderful nails” che ti ha fatto ridere tanto e ha fatto scoppiare a ridere anche me.

I giorni seguenti comparivi e scomparivi dalla finestra della stanza tua e della tua numerosa famiglia. Ci guardavi mentre eravamo impegnati a giocare con i bambini nel campo profughi dove vivi da 45 giorni, dopo essere in viaggio da circa un anno, insieme a tua mamma, tuo papà e i tuoi sette fratelli. 

Hai osservato quanto bastava finché un pomeriggio ci siamo ritrovate come due amiche su una panchina al parco. Due amiche che hanno voglia di raccontarsi perché è da un po’ che non si vedono, due amiche che hanno voglia di isolarsi da quello che sta attorno perché la cosa a cui tengono di più è proprio quell'amica che hanno davanti e quello che lei ha nel cuore. 

Quel giorno non abbiamo parlato di profughi e di viaggio; abbiamo parlato di ragazzi, di cibo, di famiglia, di vestiti e di bellezza. Argomenti più o meno “futili”, eppure li sentivo così indispensabili quel pomeriggio a Sid perché ci hanno permesso di evadere, di andare davvero in un parco e di sentirci “a casa”. 

Non so se ci rincontreremo, non so se mangeremo mai quella pizza insieme, forse non saprò mai se tu e la tua famiglia avrete raggiunto la Germania, ma voglio farti una promessa. Ti prometto che custodirò i tuoi sogni e che ne avrò cura. Ti prometto che custodirò il tuo sogno di avere un ragazzo europeo, forse tedesco, alto, muscoloso e con gli occhi azzurri perché è così che adesso tu te lo immagini. Custodirò anche il tuo desiderio di farti qualche ciocca rossa ai capelli perché insieme eravamo d’accordo che sarebbe stata bene sui tuoi capelli neri e ricci. Ti brillavano gli occhi quando mi parlavi di tutto questo e io ero felice di ascoltarti.

I tuoi occhi espressivi si sono poi incupiti quando mi hai confidato: “I am not happy here”. È una frase che stride con la tua giovane età, che stride con tutto quello che ci eravamo dette il giorno prima. Ma è una frase che mi fa tornare alla realtà del campo profughi in cui vivi. Non sai quando partirai, non sai se partirai, non sai se mai arriverai a quella meta che tuo papà ha scelto per voi. È una realtà e una quotidianità faticosa per tutti, ma in particolare per te che scalpiti per avere una vita migliore e non ce la fai più a chiuderti in quella stanza e a guardare fuori da quella finestra.

Ma non voglio fermarmi qui e non voglio che tu ti fermi qui. Continua a sognare, Halat, e abbi cura di te come ragazza e come donna. Io ti prometto che ogni volta che avrai voglia di evadere mi troverai nel parco, su quella panchina. 

Ti abbraccio forte!

Martina



giovedì 29 agosto 2019

Serbia. What is home?

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“Quest’estate vado in Serbia a fare volontariato in un campo profughi”. Queste parole hanno suscitato varie reazioni, non sempre incoraggianti, nelle persone a cui ho raccontato i miei piani per il mese di luglio. Queste spaziavano dalla sorpresa allo sgomento, dall'interesse e curiosità per il tipo di esperienza che avrei vissuto all'incapacità di comprendere perché volessi passare parte della mia estate in questo modo. Mi è stato chiesto se fosse sicuro partire per la Serbia, se non rischiassi niente all'interno del campo, se mi fidassi dell’organizzazione con cui partivo. Mi è anche stato fatto notare che “anche da noi in Italia ci sono persone che hanno bisogno”. Domande e osservazioni che sorprendono poco se si pensa ai tempi in cui viviamo oggi.


Il campo di Bogovadja – dove, insieme ad altri quattro volontari, ho svolto l’esperienza di due settimane nell'ambito dei “Cantieri della Solidarietà 2019” organizzati da Caritas Ambrosiana – non somiglia a quelli sovraffollati e dalle scarse condizioni igienico-sanitarie che ci si immagina solitamente. Si tratta di un luogo circondato dal verde, dove ci sono giochi per i bambini, campi da calcio, basket e pallavolo e un “Social Café”, gestito da alcuni degli abitanti del campo, dove questi si ritrovano per stare insieme e chiacchierare. Tuttavia, non bisogna fermarsi all'apparenza: le persone che vivono a Bogovadja si ritrovano spesso senza acqua ed elettricità, non hanno piene libertà, le loro giornate si somigliano tutte e trascorrono lentamente. Nel campo di Bogovadja sono tutti in attesa. In attesa dell’approvazione della loro domanda d’asilo e del permesso di soggiorno. Oppure in attesa di trovare il momento adatto per andare al game, ovvero per provare ad attraversare il confine e continuare un viaggio verso i paesi dell’Unione Europea iniziato mesi o addirittura anni prima in paesi come Iran, Afghanistan, Pakistan, Siria, Burundi, Somalia o Eritrea. 

Le storie delle persone che ho incontrato a Bogovadja mi hanno toccata in una maniera tale che sarà difficile dimenticarle. E lo stesso vale per i sorrisi e gli abbracci che tutti ci hanno regalato quotidianamente, la gioia e la speranza che molti di loro hanno negli occhi, la spensieratezza dei bambini e degli adolescenti, la voglia che hanno tutti di imparare e di lottare per costruirsi un futuro migliore. In particolare, mi hanno colpito le ragazze di neanche vent'anni che hanno intrapreso questo percorso da sole, le famiglie che hanno affrontato viaggi lunghi e difficili con bambini a volte piccolissimi, gli uomini che con tenacia tentano e ritentano il game più e più volte nella speranza che, prima o poi, sia la volta buona.


Tutte queste persone mi sono entrate nel cuore. Da quest’esperienza, porto a casa tutti i momenti passati insieme a loro: le mattinate trascorse a giocare insieme a Uno, a Jeenga e a Shangai al “Social Café”, i workshop con le donne all'insegna della creatività, le lezioni di italiano e inglese, le parole scambiate sui rispettivi paesi – e su come si conta fino a dieci in farsi – tra un’attività e l’altra, la giornata in piscina con gli adolescenti, i pomeriggi passati a giocare e ballare con i bambini. Porto a casa gli abbracci di S., gli occhi di K., la dolcezza di A., il “Me, want to play! Me, want to fight!” del piccolo S., la voglia di imparare di R., l’intelligenza di N., la meraviglia dei gioielli creati da R., la gentilezza di S., i sorrisi di N., la simpatia di M. Porto a casa le emozioni provate nel veder partire per il game F. che, dopo averci salutati con un “ci rivediamo in Italia, Inshallah!”, si è allontanato da solo tra gli alberi.

Mi porto a casa tutto questo. E rifletto sul fatto che io posso tornare a casa, liberamente e comodamente, viaggiando in aereo, semplicemente mostrando la mia carta d’identità o il passaporto e spesso senza neanche aver bisogno di un visto. Loro invece no. Loro hanno dovuto lasciare la propria casa e probabilmente non ci torneranno più. Viaggiano via terra e via mare per mesi rischiando le proprie vite e senza sapere quando raggiungeranno la propria meta. E questo perché il loro passaporto, fondamentalmente, non vale niente. Tornando a casa, penso a quanto siamo stati fortunati noi – perché, in fin dei conti, si tratta solo di fortuna – ad essere nati nella parte “giusta” del mondo, quella in cui i diritti, almeno sulla carta, sono garantiti, e non si rischia di venire perseguitati o di vedere i propri familiari morire in conflitti armati.

E improvvisamente mi viene in mente la domanda di F. che, vedendo sulla mia maglietta il motto dei Cantieri della Solidarietà di quest’anno, mi ha chiesto: “What is home?”, “Che cosa è casa?”. 

Per me casa significa famiglia, affetti, persone care. 

Per me casa sono i luoghi in cui sono cresciuta, i piccoli momenti quotidiani a cui sono abituata. 

Per F., invece, “Home is a dream”, “Casa è un sogno”.

Angelica Notaristefano

lunedì 19 agosto 2019

Kenya. L'Araba fenice

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to become a good person and to change; I want to go to school, to search a job and I want to help my parents to get-out of the poverty”.

Queste poche parole sono la risposta di Camcuria o meglio Ismael, il suo vero nome, alla mia domanda “cosa fai qui?”.
Possono essere parole che estrapolate da un discorso possono sembrare banali, ripetitive. Quante volte sentiamo dire di voler diventare una persona migliore o meglio ancora, di voler cambiare dall’oggi al domani il proprio modo di essere.
Ecco invece questa volta hanno fatto breccia nella mia mente e soprattutto nel mio cuore. Mi rimbombano quotidianamente nel cervello come un assolo di tamburi, bum bum bum, sì perché questa volta lo posso dire forte, è diverso.
In queste prime due settimane a Nairobi ho visto tanta speranza negli occhi di questi ragazzi che mi ha fatto capire veramente che si può ritornare ad essere se stessi e non continuare a vivere (o meglio sopravvivere) con l’etichetta di bad-person che le condizioni di vita ci impongono di essere.
Ismael è uno dei tanti ragazzi che vivono a Kibiko, una scuola di vita incantevole immersa nelle colline della capitale. Perché, come dice padre Maurizio, ognuno di noi ha diritto al bello, soprattutto coloro che di bello nella loro esile vita hanno avuto poco o niente.
Ismael, è bello dirlo, è uno dei tanti. É uno dei tanti che ha voluto e scelto questo percorso, perché al posto suo potrei scrivere Crispine, Njuguna, Nathan, Waylong, Wesley, Francis e tanti altri ancora. Un insieme di nomi, di storie, di vite che fanno credere in questa rinascita. Fanno credere in questa nuova generazione di giovani che vogliono un futuro pieno, ricco di vita e di sogni.
Un ingegnere, un architetto, un musicista, un maestro ballerino, un meccanico, un dottore e persino il papa: questi sono i nostri ragazzi ed è quello che sognano e che io auguro loro davvero con tutto il cuore di raggiungere.
Mi rivedo molto in loro, quella voglia di riscatto, di lasciarsi alle spalle la parte peggiore di se stessi e di cercare il bello, di voler raggiungere il bello.
Perché non importa se W. è dovuto diventare spacciatore per potersi comperare i libri per andare a scuola, l’importante è che guardando quei libri si ricordi della fatica del proprio passato e della forza che sta mettendo in gioco per la sua felicità e per poter finalmente dire ai propri genitori, che ormai non credono più in lui, “ce l’ho fatta anche io!”.


Roberto



Kenya Nairobi. Due di tre

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Secondo Njuguna, uno dei ragazzi di Cafasso, la cena della domenica deve essere leggera, così da poter attaccare con maggiore energia il lunedì imminente. 
Per noi è stata cena di pasta al pesto, un intervallo all'amato cibo africano, e ci fa mettere sulla tastiera dopo avere trascorso due settimane a Kahawa West, quartiere periferico di Nairobi, Kenya.

Cafasso è il nostro campo base, dove trascorriamo la maggior parte del tempo con i ragazzi che, usciti dalla YCTC, centro di detenzione minorile, hanno deciso di aderire a questo progetto. 

Qui la mattina si lavora nei campi e nel pomeriggio si gioca, a calcio e a pallavolo principalmente. 
Dopo solo tre giorni ha tutto già il sapore della famigliarità, soprattutto perché dopo il primo mercoledì lasciamo Cafasso per tornarci solo domenica sera. 
Visitiamo diversi progetti: Kibiko, Napenda Kuishi, Boma Rescue e altri due centri a Korogocho. 
Queste righe non sono lo spazio adeguato per scendere nel dettaglio, qualcuno di noi magari lo farà: ci vorrà del tempo per poter scrivere riguardo la baraccopoli
Il weekend inizia in capitale, la ricchezza di alcuni quartieri stride con la povertà vista nei giorni precedenti. Domenica è prima esperienza di messa africana per molti, in swahili, non particolarmente breve. Finalmente domenica nel tardo pomeriggio si torna a Cafasso, ci accolgono con i chapati, cena memorabile, sicuramente non in linea con quanto predicato da Njuguna.

La seconda settimana si apre con la visita alla YCTC: qui ragazzi in attesa di condanna e ragazzi condannati si uniscono per giocare con noi a calcio e a pallavolo, e per le chiacchiere. Per i secondi la pena è di 4 mesi, per i primi incombe l’incertezza e la preoccupazione di giudizi che si fanno attendere anche per anni. 
Con i nostri di Cafasso si continua come se fossimo qui da sempre, mentre alcune delle nostre mani accusano la durezza del manico della zappa, arnese poco impugnato a casa. 
Si torna anche in baraccopoli, altri progetti, altre sensazioni, forse ci sarà spazio anche per queste. Per ora basta dire che la seconda volta non è come la prima: ci si può davvero abituare anche a questo?
Si incontrano italiani di altre organizzazioni che condividono con noi il Kenya per un periodo più o meno lungo della loro vita.

Questo weekend abbiamo fatto un po’ i turisti tra zebre, facoceri e ippopotami. Oggi, domenica, durante la messa si celebra un matrimonio e alcuni battesimi; non particolarmente breve neanche questa celebrazione. 

Poi, nel pomeriggio siamo stati a Karura Forest con in ragazzi di Cafasso.

Domani inizia il nostro ultimo lunedì, siamo pronti ad attaccarlo come fa Njuguna, al di là del fatto che la pasta al pesto di stasera sia stata pasto abbondante.

venerdì 2 agosto 2019

Rane bollite

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Domani parto, vado in Libano e ci starò per un po'. La valigia è pronta, ma l’ho già aperta e disfatta almeno quattro volte per controllare che tutto sia al proprio posto (che poi… “tutto” cosa?). Non ho mai imparato a fare le valigie, ho sempre riempito tutto lo spazio vuoto con vestiti per ogni evenienza e cose che –posso dirlo tranquillamente- avrei fatto meglio a lasciare a casa. È come se, in qualche modo, riempire la valigia prima di partire fino a far saltare la cerniera mi tranquillizzasse. Una sorta di horror vacui della valigia, potrei definirlo.
L’ultimo viaggio che ho fatto mi ha costretta a partire con l’essenziale e questo ha evitato la classica scena di me, seduta sulla valigia in aeroporto, mentre cerco disperatamente di far congiungere i due lembi della cerniera. Ma lasciare casa con lo stretto indispensabile mi ha insegnato che si può tornare con mezzo chilo di sabbia rossa del deserto del Sahara, per esempio, e che la valigia piena dell’andata è sempre stata solo una rassicurazione della quale avevo bisogno per me stessa.
Mentre ripiego le magliette il mio pensiero va a Silvia, Silvia Romano. Non credo di essermi sentita tanto vicina ad una persona che mai ho conosciuto. Guardo mia mamma che passa dal corridoio e penso alla mamma di Silvia, a quanto sia difficile per lei arrivare a fine giornata. Se fosse qui le direi una sola cosa: che di sua figlia deve essere solamente orgogliosa. Chi ha fatto almeno un viaggio di volontariato lo sa, per decidere di partire ci vuole coraggio. Non si parte con l’intento di cambiare il mondo e non si parte tanto per partire; voler intraprendere un’esperienza di volontariato è una delle cose più serie che si possa decidere di fare.
E oggi decidere di non star fermi significa non accettare passivamente tutto il degrado, le vessazioni, la scomparsa dei valori e dell’etica che derivano da questo continuo subire, in silenzio, senza mai reagire. Oggi decidere di decidere è l’unico modo per non diventare rane bollite *

* “Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell'acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.” Tratto dal libro “Media e Potere” di Noam Chomsky

Cosa fare quindi? Avere la determinazione di saltare fuori dall'acqua che si riscalda finché se ne hanno ancora le forze, prima che sia troppo tardi. Farsi condizionare il meno possibile dall'odio e dall'indifferenza.
Eppure ci sono giorni più difficili in cui mi sembra di vivere solo tra rane bollite, rane che gracidano un odio assordante e sputano rabbia. Giorni in cui mi sembra di vivere in un mondo al contrario e maledettamente ingiusto, nel quale non si riflette più neanche prima di pensare, nel quale tutto diventa un caso politico, prima ancora che umano, nel quale solo una foto sulla prima pagina dei giornali ci fa aprire per un attimo gli occhi dal nostro sonno indifferente. Ma possibile che abbiamo bisogno di fotografie che ci sbattano davanti agli occhi l’orrore umano per smuoverci anche solo per qualche attimo? Forse è perché ci stiamo abituando al ribrezzo o, meglio ancora, ci stiamo facendo seppellire da sentimenti di becero individualismo e dispersivo collettivismo.
Ma forse è proprio questo il tempo giusto per vivere nel rischio. Ray Bradbury scrisse: “Vivere nel rischio significa saltare da uno strapiombo e costruirsi le ali mentre si precipita”. Così noi dobbiamo essere rane che hanno il coraggio si saltare fuori, anche senza certezze e senza essere sicure di farcela. Tutto questo però ad un’unica condizione: impegnandosi a “volare”.
Io domani parto e parto perché non voglio diventare una rana bollita o perlomeno voglio essere una rana consapevole. Io domani parto perché posso farlo, perché ho la libertà di spostarmi, di oltrepassare i confini sapendo che nessun abisso inghiottirà il mio corpo.
Quante volte diamo tutto per scontato?

Anna Gritti

sabato 3 novembre 2018

[Serbia] Questo, semplicemente, è ingiusto.

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“Li odio tutti, sono delle bestie, senza offese per gli animali che sono molto più civili e puliti”.

L’ultima settimana al campo si percepivano strappi strani fra la notte e il giorno. Di giorno capitava di sedersi vicino a un ragazzo qualunque e di sentirsi raccontare dei fratelli morti a scuola in un attentato, del papà minacciato dai talebani, della mamma con i fratellini piccoli di cui non si hanno più notizie, delle botte che avevano ricevuto il giorno prima, o la settimana prima, solo per aver tentato di oltrepassare un confine. Storie raccontate sempre con una voce calma, quasi leggera, in cui la sofferenza trapelava appena da qualche accenno. Non hanno mai chiesto il mio aiuto o la mia pietà. 
Poi alla sera noi volontari tornavamo a casa, si accendeva il cellulare, e si iniziavano a controllare le notizie provenienti dall’Italia. Nel nostro Paese erano i giorni del caso Diciotti. Una sera ho iniziato a scorrere i commenti sotto le notizie principali. Non avrei mai dovuto farlo. Non c’era solo l’affermazione che ho riportato in apertura: c’era una marea di offese, di insulti, di epiteti animaleschi con cui si aggredivano tutti i clandestini. Solo che non erano più dei semplici, generici migranti che sentivo attaccati: erano quei migranti. Quel ragazzo educato e triste, che non sapeva più nulla di sua mamma. Quello che mi offriva sempre la sedia quando entravo in una stanza. Quello con un sorriso smagliante, che era un asso della pallavolo. Quello che, una volta che mi ero fatta un leggero graffio alle ginocchia, è corso in camera a recuperare una salvietta per me. Quel ragazzo ventenne, rispettoso, dal cuore buono, che ogni volta che partiva chiedeva di pregare per lui il nostro Dio, perché avrebbe fatto lo stesso col suo. Quelli che, al di là dei gesti di cura, di bontà e di intelligenza che possono aver avuto per noi, al di là di tutti i loro meriti, erano comunque, con ogni evidenza, degli esseri umani, con tutto il bagaglio che questa affermazione comporta. Loro. Degli animali. Degli oggetti di puro disprezzo, buoni solo per buttarci addosso la polvere delle nostre scarpe. Delle cose che possono morire in silenzio, perché, per qualche motivo, valgono meno di noi.
Quando ho letto quelle notizie, così a bruciapelo, così poco tempo dopo aver parlato direttamente con loro, ho sentito salirmi in gola un magone furioso, una rabbia, un bisogno disperato di difenderli almeno dagli insulti e dagli sfottò che non avevano fatto nulla per meritare, di mostrare chi stavano coinvolgendo in quella bile indiscriminata. Se solo potessimo metterli insieme ad un tavolo, l’italiano e l’afghano, uno di fronte all’altro. Se facessero una sola partita di pallavolo insieme, forse si ricorderebbero che l’altro è un uomo, che sa sorridere, che sa persino voler bene a qualcuno.
Stando in Italia viene quasi spontaneo collocare, mese dopo mese, sempre più postille, eccezioni, limitazioni, “se” e “ma” alla questione accoglienza. Per quanto uno sia vaccinato contro il razzismo, aperto all’incontro con l’altro, culturalmente sensibile al mondo, è come se il fluire costante delle notizie rischiasse a volte di spingerci ad essere gradualmente sempre più cauti, più trattenuti dalla complessità insita nella questione. E la questione, senz’altro, è complessa. Ma se Krnjača mi è servito, con questa immersione tra figure umane, di contatto diretto fra occhi e linguaggi, è stato soprattutto a dare una sterzata improvvisa al discorso, un controbilanciamento nella direzione opposta: no, alla fine non è così complesso. Questi ragazzi partono da un Paese ancora in guerra, che solo per sfregio si può considerare pacificato, dalla morte, dagli attentati, dall’insicurezza, dalla chiusura delle loro scuole, dalla povertà; e per poterlo fare sono costretti ad attraversare dieci frontiere, mettendoci anni, spendendo i loro risparmi, consegnandosi nelle mani di criminali, rischiando di essere picchiati, truffati, respinti, e anche di morire. Non c’è davvero nulla di complesso in questo. Questo, semplicemente, è ingiusto. Complesso può essere organizzare l’accoglienza, immaginare un sistema che produca integrazione; più complesso ancora, sradicare le cause di un esodo di massa, come quello che sta avvenendo fra i giovani di Iran e Afghanistan. Ma difficile non è sentire che quel centinaio di ragazzi, che mentre scrivo sono ancora lì a consumare il loro tempo nel nulla, non dovrebbero essere lì, non dovrebbero essere percepiti come dei criminali a prescindere, e dovrebbero avere, molto più della mia compassione, il diritto ad un percorso diverso.

Ilaria De Regis

domenica 19 agosto 2018

Serbia. Nella bolla di sapone

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Come una bolla di sapone. Dopo una settimana di lavoro, adesso che abbiamo avuto del tempo per fermarci e mettere in ordine domande e pensieri, il campo di Bogovadja ci appare proprio così: come una bolla isolata dal resto del mondo, dove anche il tempo scorre in modo diverso. Infatti, a dominare lo scorrere del tempo è l’attesa
Qui tutti attendono qualcosa, chi un visto, chi l’esito di un processo, chi l’occasione giusta per passare una frontiera, e così via. Ma tutti attendono, con la vita che nel frattempo è come congelata, in “pausa”, con la speranza di poter premere “play” prima o poi, magari in Europa.
A Bogovadja si incrociano tanti sguardi e si ascoltano tante storie: c’è qualcuno che cerca di raggiungere il papà, qualcun altro che vuole andare da suo fratello e altri ancora che viaggiano con tutta la famiglia. Tutti fermi ad aspettare.

E’ questa miscela di desideri e storie immersa in un luogo disperso nei boschi della Serbia dove il tempo sembra bloccato a lasciare addosso una sensazione di inquietudine a chiunque passi da Bogovadja, anche soltanto per qualche ora. Perché il campo è bello, immerso nel verde, spazioso, dove i bambini possono giocare, ma… Ma qualcosa non torna. Ogni giornata è identica a quella precedente, scandita dall’attesa.

Tutti fermi ad aspettare.
Intanto c’è persino chi nasce, chi compie gli anni e tra un po’ andrà all’asilo, ma intorno… Tutti fermi ad aspettare.
E ogni volta che una frontiera si chiude, o un visto viene negato, a Bogovadja il tempo rallenta.
Ed è qui che poco a poco iniziamo a intuire il perché del piccolo servizio che ci è chiesto. Perchè le giornate di Dina non saranno tutte uguali se domani potrà fare un nuovo braccialetto con le perline, e quelle di Noman saranno un po’ diverse se settimana prossima potrà giocare il torneo di pallavolo con i suoi compagni… E’ così che, ogni tanto, a Bogovadja il tempo ricomincia a scorrere, anche se per poco.

Claudia, Fabio, Francesco, Giulia, Silvia

(Serbia3)

martedì 14 agosto 2018

Serbia. I Viaggi

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I viaggi non sono stati mai facili come oggi. Paesi prima lontani ed irragiungibili sono ora vicinissimi; culture sconosciute e tenebrose diventano limpide e celebri. In poche ore possiamo attraversare oceani e continenti interi rimanendo seduti sul sedile di un aereo, di un treno o di una automobile. La fatica e gli investimenti di denaro e di tempo che i nostri antenati impiegavano per compiere brevi tratti, vengono oggi drasticamente diminuiti. Possiamo andare dovunque: Australia, Sud Africa, Cile, Stati Uniti, Cuba, Iran, Afghanistan, India; basta semplicemente puntare il dito su un mappamondo roteante ed in breve tempo, con una spesa variabile, possiamo essere nel paese indicato. Non abbiamo ancora la capacità di teletrasportarci ma poco ci manca.


C’è chi viaggia per lavoro, chi per divertimento e chi per turismo; c’è chi sceglie l’aereo, chi la nave, chi il treno e chi, più tradizionalmente, sceglie un’automobile, magari quella degli altri, come due ragazzi conosciuti nella nostra breve visita a Belgrado, partiti da Verona con il sogno di raggiungere il Nepal in autostop. Un viaggio lunghissimo, pieno di insidie ma anche di incontri irresistibili e di posti magnifici da visitare e vivere. Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Bulgaria, Turchia, Georgia, Armenia, Azerbajgian, Iran, Afghanistan, Pakistan, India e, infine, il tanto agognato Nepal. Un itinerario affascinante da compiere in circa 4 o 5 mesi. Un sogno, il loro, decisamente a portata di mano: basta avere voglia, costanza e tenacia. Un sogno che potrebbe incontrare un intralcio nella burocrazia pakistana che, per rilasciare un visto d’ingresso nel paese, richiederebbe un invito da parte di una persona residente all’interno del paese. Una problematica non da poco, incomprensibile per chi come noi è abituato a viaggiare senza alcun tipo di ostacoli. Non temete, sembrerebbe che questa insidia possa essere aggirata per mezzo dell’intervento della nostra ambasciata, abbastanza influente nella zona.
Anche scegliendo l’autostop, quindi, possiamo visitare centinaia di culture e paesi diversi, potendo così viaggiare per conoscere il mondo nelle sue mille sfaccettature.

Eppure, la realtà del campo profughi di Bogovada ci ha insegnato che non è sempre così semplice. Meglio, è facile per noi, occidentali, viaggiare verso le terre del medio oriente mentre non è certamente semplice per le popolazioni medio – orientali viaggiare verso l’Europa. Nel campo ci sono circa 160 persone: la maggior parte di loro sono iraniani ed afghani; ci sono famiglie, single – men ed anche minori non accompagnati. Ognuno di loro ha deciso di viaggiare verso occidente. Gli iraniani, mediamente più ricchi, grazie ai favori del governo serbo nei loro confronti (non viene richiesto alcun visto d’ingresso), hanno optato per un biglietto aereo diretto verso Belgrado; gli afghani, più poveri, hanno invece attraversato gli stessi territori dei nostri amici autostoppisti, più o meno con le stesse modalità, con la differenza di essere fermati, trattenuti, in ogni singolo territorio da loro attraversato. Tempo del percorso fino in Serbia? Dai 7 ai 12 mesi.
Sono due viaggi difficili ed impervi che richiedono molta pazienza e un ingente investimento economico da parte delle famiglie che partono o che foraggiano il viaggio. Oggi, chi in aereo, chi a piedi, si sono ritrovati insieme nella tappa Serba, forse l’ultima fermata prima del sogno Europa. Il loro sogno, il sogno di garantire a sé stessi o ai loro figli un futuro più dignitoso e sereno, ora è stato bloccato, reso quasi impossibile da quelle frontiere, cioè da quelle linee immaginarie che dividono diversi territori ma che così come sono concepite, creano disparità e sofferenza.

Questo breve testo è il risultato di una riflessione, più lunga e dibattuta, sorta all’interno del nostro gruppo di volontari, l’ultimo giorno, appena prima di prendere il nostro aereo che facilmente ci avrebbe riportato in Italia. Riflessione che vi lasciamo in eredità: perché noi si e loro no?


Serbia 2
Filippo, Giovanna, Stefania, Margherita, Federico


lunedì 16 ottobre 2017

Kenya: un viaggio con me stessa

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È passato più di un mese dal nostro rientro in Italia. È trascorso lento, afoso, quasi irreale. Dopo che hai camminato in strade di spazzatura, visto bambini strafatti e cieli senza stelle, forse è normale che tutto ti sembri strano.

Il primo giorno che siamo arrivati a Nairobi, pensavo che quel luogo fosse marcio, che le persone fossero in fondo un po' marce. Di certo scapperesti da un posto del genere, cercheresti di crearti una nuova vita, lontana da tutta quella puzza, ma loro no. Sicuramente perché non possono, ma mi piace pensare che è anche perché non vogliono. Mi piace credere che forse qualche speranza ancora ce l'hanno; mi piace credere che un senso di rivalsa da tutta quella mxxxa gli darà la forza di uscirne a testa alta; mi piace credere che loro ancora credono.

È passato più di un mese dal mio rientro in Italia e alla domanda "come è stato" ancora non so rispondere se non con un segno di assenso. Vagli a spiegare poi che quel mezzo sorriso vuol dire tutto e niente. Non ci sono molte parole per spiegare una terra così, come spesso si dice, piena di contraddizioni. E si perché questo termine viene molto spesso utilizzato per descrivere diversi paesi dell'Africa: da una parte distese sconfinate e dall'altra le discariche a cielo aperto; da una parte le metropoli e dall'altra i villaggi; da una parte il tutto e dall'altra il niente. Sì, forse il primo che utilizzò questo termine, ci aveva visto bene.

È passato più di un mese dal mio rientro in Italia e tutti questi problemi che ci riempiono così spesso la bocca non mi vanno proprio più giù. Inizio a pensare che sia la nostra quotidianità quella irreale, non la loro. Sì, perché è irreale restare imbambolati su un divano guardando tragedie umane senza muovere un dito, se non quello sul telecomando. È irreale fingere che vada tutto bene solo perché sulla nostra casa il sole continua a splendere. È irreale la disparità che ci divide. Forse tutti dovremmo sentirci chiamare "muzungu" almeno una volta nella vita.

Un incontro mi ha segnato particolarmente in questo viaggio, ed è stato quello con me stessa
Ho capito meglio cosa voglio, ho rinsaldato i miei ideali, i miei credo. Ho dato spazio alle mie paure e sono riuscita a metterle da parte. 

E per tutti i "bob" al mondo, non sostituirei mai questa esperienza con nessun'altra. 


Francesca Di Mauro



Breve legenda:

- Muzungu: Nella lingua locale significa "uomo bianco", ma da quel poco che abbiamo potuto apprendere, intrinseco nel significato vi è l'aggettivo sporco, ricco, schifoso uomo bianco.

- Bob: Utilizzato dai Kenyoti per chiamare lo scellino. Deriva dal termine inglese che indicava la vecchia moneta britannica.

- Asante sana: Termine non utilizzato in questo testo, ma sospirato durante tutta la sua stesura. Grazie mille.