domenica 28 ottobre 2012

Trei gusti is megl che one

8 commenti:
Una produzione M&M&M.
Intervista-documentario sull'eterogeneità degli esemplari di servizio civilisti in Moldova. 

I riferimenti a fatti e persone non sono puramente casuali.
Dubbi e perplessità sono più che leciti e siamo disponibili a chiarirli.
Buona visione!


mercoledì 24 ottobre 2012

La fuga dei disperati

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Intervista dell'agenzia SIR a Dario, poco noto (sigh;)) ai lettori di questo blog, volontario del servizio civile Caritas in Giordania.
 
 
In Siria la situazione umanitaria si fa di ora in ora sempre più grave e da alcuni giorni, informa Caritas italiana, si sono persi i contatti con la Caritas locale, non raggiungibile né con il telefono né per e-mail. Mons. Antoine Audo, presidente di Caritas Siria, nell’ultimo messaggio inviato scrive: “Il mio posto è ora vicino ai miei fedeli, che non posso e non voglio assolutamente abbandonare”. La Giordania è il Paese con il più alto numero di profughi dalla Siria, in drammatico aumento nelle ultime settimane: dall’inizio della crisi, lo scorso anno, sono oltre 160 mila. Prima ne arrivavano 500 al giorno, ora 3-4 mila. La scorsa settimana circa 30 mila persone hanno abbandonato la Siria verso i Paesi limitrofi. Per rispondere all’emergenza il governo giordano ha allestito due settimane fa il campo profughi di Zata’ari, a 60 chilometri da Amman, che ospita attualmente 20 mila siriani. Il campo, gestito dall’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), ma presidiato dalle forze dell’ordine giordane, è sovraffollato, manca l’energia elettrica e di recente vi sono stati anche dei tafferugli. Conoscono bene la situazione due giovani di Caritas Ambrosiana – Dario Zanardi e Cristina Pianca – che da sei mesi svolgono il servizio civile a supporto di Caritas Giordania. Vivono ad Amman e tre giorni a settimana lavorano in centro, in una parrocchia di Mafraq, al confine con la Siria. Qui Caritas Giordania ha censito 25 mila rifugiati. Caritas italiana auspica oggi “una crescente solidarietà” e chiede alla comunità internazionale di “compiere con responsabilità tutti gli sforzi per porre fine alle violenze”. Dall’inizio dell’emergenza profughi è stato messo a disposizione un primo contributo destinato alle famiglie, ma solo in Siria occorrono già altri 170 mila euro per estendere l’intervento in atto. Patrizia Caiffa, per il Sir, ha intervistato in Giordania Dario Zanardi.

Come arrivano i profughi siriani in Giordania?

“Fuggono da Homs, da Damasco, da Aleppo. Arrivano in auto ma passano il confine di notte, a piedi, camminando tre/quattro ore nel deserto. Il flusso maggiore è in Giordania perché la Turchia ha chiuso le frontiere, mentre la situazione libanese è complessa. Il governo giordano ha la volontà di aiutare i profughi, ma al confine ogni notte si verificano ‘scaramucce’ di frontiera, perché l’esercito siriano spara sui profughi in fuga mentre i militari giordani rispondono con fuoco di copertura”.

A Mafraq in che condizioni vivono?

“Vivono in box, garage, negozi, uffici, pagano un affitto di 100-150 dinari al mese. Alcuni sono ospitati, a pagamento, dai parenti. Sono abitazioni di fortuna di una, massimo due stanze. Arrivano senza nulla e le condizioni abitative sono pessime. Dormono su coperte stese in terra per cercare d’isolarsi dal freddo. Alcuni hanno ricevuto un aiuto economico dalle agenzie delle Nazioni Unite per alcuni mesi”.
 

Quali agenzie umanitarie sono presenti? Che tipo di assistenza forniscono?

“Oltre all’Unhcr operano Caritas Giordania e due organizzazioni islamiche. Vi sono due registrazioni parallele: quella dell’Unhcr, che garantisce ai profughi di entrare nella procedura per la richiesta di asilo politico, ma molti non si registrano perché hanno paura di essere identificati per timore di ritorsioni. E quella di Caritas Giordania, che ha conquistato molta fiducia sul campo. Tra le due realtà c’è collaborazione. In questo modo Caritas Giordania sa dove si trovano i profughi, come sono composte le famiglie, se ci sono persone malate o bambini e neonati. Vengono avvertiti telefonicamente in occasione delle distribuzioni di generi alimentari, beni per l’igiene personale, coperte e piccoli elettrodomestici come fornelli e ventilatori. Le famiglie sono quasi tutte musulmane, con bambini in età scolare e neonati che hanno bisogno di latte in polvere e pannolini”.
 
Cosa fate per i bambini?
 
“I bambini dovrebbero essere inseriti nelle scuole statali, ma è ancora in discussione, al Parlamento giordano, un progetto di legge in materia. Perciò, nel frattempo, tra alcuni giorni avvieremo un progetto educativo, in collaborazione con Caritas Polonia, rivolto a 150 bambini dai 5 ai 13 anni, con insegnanti locali. Una sorta di doposcuola con l’insegnamento delle principali materie, per non perdere l’anno scolastico. Per fortuna il dialetto giordano e quello siriano sono affini e non ci sono grossi problemi di comprensione reciproca”.

Com’è la situazione sanitaria?

“È grave. Arrivano molte persone ferite da armi da fuoco, tutti soffrono di malattie post traumatiche legate allo stress, come asma, ansia, pressione alta. Hanno problemi alla vista, diabete, alcuni hanno bisogno di dialisi. Ho visto la radiografia del cranio di un bambino con un proiettile in testa. Fortunatamente si è salvato. Nel campo di Zata’ari ci sono già tre ospedali gestiti da Francia, Marocco ed Emirati Arabi. Anche l’Italia ha allestito da poco, nei dintorni di Mafraq, un ospedale, con personale sanitario e della Protezione civile. Caritas Ambrosiana ha invece avviato una campagna di raccolta fondi per l’acquisto di un’ambulanza per l’assistenza dei profughi al confine”.
 

Pare che il campo di Zata’ari sia sovraffollato e a rischio collasso…
 
“Sono stato una volta, c’erano 6 mila persone. Ora si parla di 16-20 mila persone. All’inizio ci sono stati molti episodi negativi, le condizioni non erano buone, mancava l’acqua, il cibo. Il governo giordano si è trovato a dover reagire all’emergenza dovuta dall’aumento enorme dei flussi. È ovvio che tutte le risorse sono ancora destinate alla prima assistenza, ma pian piano la situazione sta migliorando. Ci preoccupano maggiormente le condizioni dei bambini, che sono le prime vittime dei cicloni di sabbia del deserto, con problemi respiratori e alla vista”.

Quali storie raccontano i profughi?
 
“Quando si parla con i profughi non si entra nelle questioni politiche, anche perché la situazione da qui non è ben chiara, non si capisce cosa stia realmente accadendo in Siria. In Occidente, invece, la lettura della situazione è univoca. I profughi fuggono da città deserte, devastate da bombardamenti e combattimenti, nelle quali non è più possibile vivere. Alcuni si rifugiano nei villaggi interni, altri passano il confine giordano per disperazione. È difficile capire da chi sia composto l’esercito ribelle – si parla anche di terroristi legati ad Al Qaeda – e che ruolo abbia veramente Assad. Non è chiaro chi provochi le stragi e cosa ci sia dietro. I profughi sono tutti contro Assad, ma i siriani che vivono ad Amman, e hanno ancora le famiglie in Siria, appoggiano il regime”.

giovedì 18 ottobre 2012

Tragica scomparsa

1 commento:
Daniele Ghillani, 22 anni,  volontario in servizio civile all'estero in Brasile, inserito in un progetto promosso dalla Caritas Diocesana di Parma, è morto vittima di un tragico incidente.

Caritas Ambrosiana esprime vicinanza alla famiglia e assicura un ricordo nella preghiera.

lunedì 15 ottobre 2012

Scatta il cantiere: "Primi piani"

4 commenti:
Ed ecco, infine, l'ultima categoria: per alcuni si tratta della categoria regina, per altri è una categoria pedone; nessuno la crede la categoria automobilista.

I primi piani. Le foto migliori dei volti delle persone incontrate durante i campi, con le quali il concorso "Scatta il cantiere" ringrazia calorosamente, saluta cordialmente e va.

Senza pagare.

Lo rivedremo l'anno prossimo, per la settima edizione, e gli chiederemo gli interessi.

Conosciamo già la sua risposta: "Fotografia, viaggi e volontariato".


1° classificata
 
Eppure non ci siamo mai visti, di Francesco Minoia (Gibuti)
2° classificata
 
Il valore di un sorriso, di Simona Limoli (Etiopia)
3° classificata ex aequo
 
Sguardo d'oriente, di Elisa Cremonesi (Giordania)
3° classificata ex aequo
 
Sorridimi, di Francesca Mercurio (Etiopia)
3° classificata ex aequo
 
Si?, di Marco Povero (Moldova)

domenica 14 ottobre 2012

In ospetie a Tiraspol

2 commenti:

Che se diciamo ad Ana Maria che andiamo a Tiraspol, poi ci andiamo davvero! (cit. Alè)

Il microbus per Tiraspol è scritto in cirillico e il film che danno sullo schermo è in russo. Alla frontiera c’è coda, ma bastano 5 lei nel passaporto per fare in fretta. Il passaporto perché ufficialmente Tiraspol è in Moldova, ma di fatto c’è una dogana e bisogna compilare un modulo: abbiamo a disposizione 24 ore per ritornare. Al di là della frontiera le strade mi sembrano migliori, ma in generale tutto è molto curato, ordinato e bello. Compaiono le utilitarie pressochè assenti in Moldova, già in Moldova, perché qui non mi sembra Moldova: se parliamo rumeno sembriamo stranieri, c’è un’altra moneta e i soldi che arrivano dalla Russia si vedono.

Alla fermata del microbus ci aspetta Ana Maria in tacchi e vestito elegante perché qui si distinguono i giorni normali da quelli speciali e oggi è speciale: arrivano gli “italieni”. D’ora in poi noi siamo in ospetie, siamo ospiti e perciò: a tavola! Sono le 5 e andiamo a mangiare: piatto di stagione, peperoni ripieni. È lo stesso ripieno del cibo tipico delle feste, le sarmale. Il bicchiere di vino è piccolino, ma sempre pieno.

Nistru, fiume che divide la Moldova, da cui Trans-nistria

Facciamo un salto a vedere Tiraspol by night: ponte illuminato e barche con musica. Facciamo un trenut in onore dei Cantieri passati insieme. Tornati a casa si mangia – e si beve - ancora un po’ e dopo Tom e Jerry in russo: spaconi noci, buona notte!

Il 9 settembre è la giornata dei tankisti: nella piazza principale, sotto un carro armato, ci saranno una settantina di persone, noi comprese, tra cui un anziano con più medaglie che anni. Durante l’arringa di un soldato, i veterani ridono, è una bella giornata, tutto mi appare normale e bello, come i fiori freschi sulle tombe degli eroi: “i vostri nomi potranno essere sconosciuti, ma le vostre gesta sono immortali”. Penso che si ricorda una guerra europea combattuta quando io ero nata. Avevo 6 anni e tutti i giorni passavano alla tele notizie sulla Bosnia: non capivo molto, ma mi ricordo bene. Della guerra in Transnistria, invece, non ricordo nulla, non si sa nulla.



Davanti al parlamento sta Lenin di guardia. Dopo tre anni i genitori di Ana hanno la cittadinanza transnistriana e possono votare; Ana invece aspetta per il suo primo voto le prossime elezioni in Moldova, cioè nella Moldova al di là del Nistru, quella dove la falce e il martello dal primo ottobre sono illegali, non quella con l’unica bandiera al mondo che ancora mantiene i simboli comunisti.

Proseguiamo la visita della capitale di questo stato-fantasma non riconosciuto da nessuno. L’eroe nazionale, come l’eroe moldavo Stefan cel mare, ha combattuto contro i Turchi. La storia racconta che erano pochi contro molti, ma l’astuzia li fece sembrare molti, così i Turchi se ne andarono senza combattere e la Transnistria fu salva. A scuola qui si impara la storia universale sempre in parallelo con quanto è accaduto in questo piccolo fazzoletto di terra di 3500 metri quadrati, ma il libro è scritto da un professore molto parziale, così ci spiega Ana Maria che studia all’unico liceo rumeno della Transnistria.



Per pranzo pesce in salamoia e melanzane ripiene di aglio (spicchi interi grattugiati da me medesima come si grattuggia il formaggio), si beve vino. Si guardano video, si leggono articoli e ci si prepara: alle 5 dobbiamo essere alla frontiera. Non possiamo andarcene senza portare con noi un barattolone di verdure in salamoia e una bottiglia di vino fatto a casa: siamo in ospetie.

Ps Concluse le valutazioni cantieristiche siamo proiettati ai CdS 2013: lo studio di fattibilità assicura che se sai come si traduce “Copii facem cercul, bambini facciamo un cerchio”, tutto filerà liscio: per il prossimo cantiere basta sapere “dijei cruc” e poi tutti a Tiraspol, da Ana Maria!

giovedì 11 ottobre 2012

Scatta il cantiere: "Foto libere"

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Con sconfinato piacere, nella categoria in cui concorrono tutte le foto che non stanno nelle altre 4 categorie, annunciamo che per la prima volta nella storia delle 6 edizioni ha vinto una cantierista locale, Ana Maria Pruss!

Applausi.

Spengiamo le luci.

Vai colle foto.

1° classificata
 
Ombrello, di Alice Cognetto (Etiopia)
 
 
2° classificata
 
Il pensiero è la manifestazione dell'infinito senza spazio e tempo, di Ana Maria Pruss (Moldova)
 
 
3° classificata ex aequo
 
Rafiki, di Camilla Pienzi (Gibuti)
 
 
3° classificata ex aequo
 
Senza titolo, di Anna Curreli (Etiopia)
 

lunedì 8 ottobre 2012

C’è chi …pole pole

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C’è chi sul blog posta a tutto spiano
E chi torna dopo mesi, dicendo piano piano.
C’è chi, mentre progetta da artista,
ha oggi già fama da primo turista,
decise: “Vado a Kindu, a trovare la morosa”,
del muzungu barbusi parla senza posa.
C’è chi va alle colonies a Lokando
in piroga per tre ore andando,
ma dopo cinque giorni di grandi giochi,
canti, balli e pure fuochi,
il nostro ritorno si prospetta
di sei ore buone senza fretta.
C’è chi cerca altrove un po’ di riposo
ma già lasciare Kindu è un lavoro faticoso.
C’è chi finalmente va in vacanza,
questo è un viaggio o forse una pietanza?
Bea, Chiara, Giacomo e Magda, i viaggiatori,
Un gruppo assortito con pochi precursori
-10 i giorni, 5 i mezzi di trasporto, 7 le città, 3 i paesi-
Questi alcuni ingredienti, più molti incontri inattesi:
-vedrete gli ippopotami a un palmo dal vostro naso!
“Ma no, a quest’ora non si trovano, vi pare il caso?”
C’è chi adora la capitale e fare festa,
chi ama invece i pigmei nella foresta,
con gli elefanti che in giardino gustano beati uno spuntino.
C’è chi chiama “Isola degli Uccelli”
un pezzo di terra abitato da enormi pipistrelli.
C’è chi “eravamo in 4 a ballare l’hulli gulli” (!??!!?)
e in 2 torniamo a Kindu tutte sole senza sballi.
C’è chi deve inviare mail con le foto allegate
ma i problemi dell’atmosfera lasciano fregate.
C’è chi pole pole si rimette a lavorare
E forse un giorno dalla radio vi potrà salutare.

Scatta il cantiere: "Attività"

1 commento:
Sì, dunque, queste le tre foto che han vinto la categoria "Attività".

Che altro aggiungere?

1° classificata
Un, due, tre, stella!, di Erica Favero (Moldova)

2° classificata
Colors, di Cesare Bianchi (Teggiano)

3° classificata
Bandiera, di Luca Ravasi (Etiopia)

venerdì 5 ottobre 2012

Scatta il cantiere: "Contesto"

3 commenti:
Altra categoria del concorso è stata quella di fotografie rappresentative dei contesti in cui i cantieri si sono svolti: un ex aequo (primo di una serie).

1° classificata

Uno sguardo sulla città, di Maria Sofia Bonfanti (Giordania)


2° classificata

Burma mothers day, di Matteo Bodini (Thailandia)


3° classificata ex aequo

Nueva Vida, di Giulia Ballabio (Nicaragua)


3° classificata ex aequo

Moneda Moneda!, di Cristina Pozzi (Bolivia)

giovedì 4 ottobre 2012

Terra di Giordania

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"Tutto ciò che hai visto ricordalo, perché tutto ciò che dimentichi ritorna a volare nel vento”


Polvere. E terra. Tanta terra. Se chiudo gli occhi la posso vedere ancora davanti a me, con i suoi riflessi dorati e le sue sfumature incerte, che variano inseguendo il corso del sole.
La mia Giordania, in fondo, è proprio questo.
Dico mia perché in tre settimane ho amato e odiato questo spicchio di mondo, questo stralcio di terra che stranamente custodisce la pace, in un Medio Oriente a cui non è dato di trovare pace.
E quando ami e odi qualcosa, quando questi sentimenti si mescolano, inebriandoti, allora puoi star certo che stai vivendo. E non importa quale sentimento alla fine prevarrà, l’importante è che quel “qualcosa” ti abbia toccato nel profondo, così che possa appartenerti per sempre.
La mia Giordania, dunque, non in assoluto, ma per quello che io l’ho vissuta e per quello che, nel bene e nel male, essa mi ha lasciato.
La mia Giordania, dicevo, è terra e polvere.
Strano che, con tutto quello che i miei occhi hanno visto, io mi soffermi proprio su questo dettaglio. Eppure.
Eppure è ciò che più di tutto il resto mi ha colpito, perché ne ho come intravisto un filo conduttore. Un nodo capace di legare a sé tutto quello che ho vissuto e che, per ora, rappresenta un groviglio incerto di emozioni, immagini e suoni.
La terra di cui parlo la vedi anche dall’alto, dall’aereo. E’ un manto che pare stendersi all’infinito, costellato di città e paesi, o meglio: di ammassi informi di edifici. La Giordania è terra di rifugiati e i suoi paesi sono spesso un’evoluzione disorganizzata di antichi campi profughi, che si estendono senza alcuna grazia, fino a lasciare spazio al deserto.
La descrizione delle città meriterebbe un paragrafo a parte. Ci vorrebbero ore per poter descrivere nel dettaglio il caos, i suoni e gli odori delle città arabe. Bisognerebbe soffermarsi sui negozi di frutta e verdura, sui macellai, sull’uomo al crocicchio della strada che non smette di ripeterti “welcome”, sul bambino che cerca di venderti i chewing-gum, sulla donna velata che allontana lo sguardo. Ma soprattutto, bisognerebbe soffermarsi a descrivere la melodia del muezzin: poesia e preghiera che ammalia e affascina.
Ma non è questo di cui voglio parlare. Io voglio parlare della terra. Di quella terra che avvolge le città, e che ti scorre davanti quando viaggi sui pulmini, spostandoti da un luogo all’altro. In queste occasioni l’idea che ti fai è che in Giordania non esistono piante. La Giordania è un Paese senza ombra. Pensarci ti fa sorridere, perché in realtà di ombre, simboliche ed interiori, ce ne sono molte. Sono le ombre dei conflitti che hanno insanguinato il Medio Oriente, e che si fanno vive e concrete nei volti di chi qui ha trovato rifugio. In fondo, la Giordania ha questo pegno da pagare per aver salvaguardato la pace: tutti accorrono ad essa. Prima i Palestinesi, chiamati a scontare la loro “nakba”, la loro “catastrofe”; poi gli Irakeni, in fuga dalle guerre che hanno insanguinato il Golfo; ed ora i Siriani. La Storia, d’altronde, non smette di ripetersi.  E nel suo ripetersi porta con sé storie diverse, ma con costanti comuni. Penso a quella donna anziana a cui abbiamo portato visita. Palestinese, “dello stesso paese della regina Ranja”, fuggita nel 1948. I suoi figli sono figli della Giordania, perché qui sono nati, frutto dell’amore con un ragazzo giordano. Perlomeno loro non hanno visto le bombe, come invece hanno fatto i figli di un’altra donna, fuggita da Homs, fuggita da un Paese nel quale i suoi bambini non potevano più giocare per strada.
Ecco, queste sono le ombre che nasconde la terra giordana. Terra che, in fondo, dietro alla sua pace nasconde le sue belle contraddizioni.
Una di queste la posso rivedere in dei divani. Non ci avevo pensato prima d’ora, ma in Giordania mi sono seduta su un’ infinità di divani. Quando vai a fare visita a qualcuno, infatti, stai pur certo che questi troverà un divano su cui farti sedere. E ti capiterà, in quanto occidentale, di far visita a famiglie ricche, con divani bianchi, giardini perfetti, piastrelle luccicanti e piscina annessa. O almeno, a me è capitato. Ti capiterà poi, in quanto volontario, di sederti su divani scuciti, in stanze senza finestre, con i muri scrostati. In questi casi, è probabile che tu debba ascoltare storie per le quali ti sentirai un perfetto imbecille, seduto su quel divano, senza la possibilità concreta di fare qualcosa.
Contraddizioni. O semplicemente differenze. Differenze che convivono e si ignorano, come d’altronde accade qui da noi, nel nostro occidente, che tanto decantiamo come modello di civiltà.
A proposito di Occidente: li vedi gli occidentali in Giordania. D’altronde è inevitabile: si fanno riconoscere. Li vedi passeggiare per Amman e prendere il sole ad Aqaba. Li vedi con i loro pantaloncini, le canottiere e la macchina fotografica al collo: sfiorano la cultura araba, ma non si interrogano su di essa. La loro Giordania coincide con le meraviglie di Petra e con la straordinaria bellezza del Wadi Rum. La terra dei turisti è quella del deserto, che strega, affascina, rapisce. La gran parte di loro se ne tornerà a casa con queste immagini negli occhi, e bon, è stato un bel viaggio.
Eppure in Giordania, come dicevo, esiste altra terra. Esiste la polvere dei marciapiedi e dei cortili di Zarqa, per esempio. Ma è ovvio che da qui non passa nessuno, anche la guida turistica lo sconsiglia vivamente.
Eppure a me è toccato di passarci una settimana.
Alla sera dal balcone si vedevano i bambini giocare fra la polvere e i calcinacci. Per i bimbi musulmani, infatti, la strada coincide con il parco giochi. I bambini cristiani sono più fortunati, hanno l’oratorio, la parrocchia: una lastra di cemento con due canestri, meglio di niente. Peccato poi che quel cortile diventi l’unica dimensione della loro vita sociale: la comunità d’altronde è piccola, bisogna preservarla. E così i cristiani d’oriente si ripiegano su se stessi, si chiudono per paura di vedere cancellata la loro identità.
Devo dire che il loro attaccamento alla fede, talmente forte nella ritualità da divenire soffocante, mi ha sconcertata. Ma d’altronde il mio è uno sguardo occidentale, e per capire è necessario contestualizzare. Provarci almeno.
In ogni caso, non è su questo che volevo soffermarmi, bensì sulla terra di Zarqa. Città enorme, un groviglio di case addossate le une alle altre, vie e vicoli con nomi di re e principi, ma nemmeno una piazza: questa è la seconda città della Giordania. A guardarla, mentre ti scorre davanti al finestrino, sembra che tutto sia stato fatto a caso, ed in fondo è verosimile. Come è verosimile che lo stesso sia accaduto per Mafraq.
La polvere delle loro strade non è dissimile: i taxi e le macchine la sollevano allo stesso modo, i bambini vi corrono sopra con lo stesso entusiasmo. Eppure basta spostarsi di poco da questa città per respirare il sapore di una terra diversa, più amara. Una terra che molti turisti non vedranno mai, e che, nonostante tutto, appartiene comunque a quella stessa Giordania di cui porteranno a casa le foto.
Ci ho messo tanto, un giro enorme di parole, per arrivare a parlare di questa polvere, di questa terra.
Il suo nome è Zaatari, ed è un campo: un campo profughi. Ogni giorno vi arrivano circa 600 siriani tra uomini, donne, bambini e anziani.
Il campo è immenso, lo sguardo non riesce a coglierne la fine. Si dice che possa accogliere fino a 150.000 rifugiati, un numero enorme se consideri che dietro ad ogni cifra si nasconde un volto, una storia.
Ma la cosa impressionante è che non c’è nulla. Per l’appunto solo terra e polvere, per chilometri. E, ovvio, anche tende e persone. Dannazione, se ci penso mi vengono ancora i brividi.
Rivedo quel maledetto furgoncino della Caritas,
rivedo i nostri giubbottini blu con la scritta bianca in lettere latine,
rivedo i cartoni pieni di cibo e giochi per la distribuzione. Una distribuzione fatta alla cazzo, che più cazzo non si può.
Ma soprattutto rivedo quei bambini. Sono i figli della Siria, di una Nazione ferita, ma che mantiene la sua dignità. Sono bambini che non sorridono, e questo mi sconcerta, perché non so come muovermi, cosa fare, cosa dire. Mi limito a guardarmi attorno: a qualcuno chiedo timidamente il nome, qualcuno mi risponde, qualcun altro si ritira. Accarezzo qualche testa, ma smetto subito, perché mi sembra troppo un gesto di pietà, e loro non hanno bisogno di questo.
Vedo anche qualche genitore.
Vedo una madre con i suoi sei figli avvinghiati addosso: mi sorride. Purtroppo non abbiamo parole per parlarci, il nostro dialogo è muto, ma dice molto. Quanto invidio la forza di quella donna che, nonostante tutto, ha ancora il coraggio di sorridere!
Vedo un padre che tiene per mano i suoi due bambini, uno di loro in lacrime perché vuole un pallone. Il suo sguardo è duro e rassegnato assieme, è lo sguardo di un padre che non può far nulla per dare un pallone a suo figlio. E’ uno sguardo che congela, e che io non posso sostenere.
E poi ci sono gli adolescenti: arrabbiati e belli come tutti gli adolescenti del mondo. Gridano “Allahu akbar”. “Allah è grande”. “Dio è grande”. Ma quanto è grande Dio? Sarà più grande di questo campo profughi che si estende all’infinito? Più grande del dolore, della rassegnazione e della rabbia di questa gente?
Io non ne ho idea, non ne ho proprio idea.
So solo che io, invece, mi sento piccola, impotente, e a disagio in quel giubbotto blu troppo largo per me. Un disagio che non se ne va via nemmeno quando lasciamo il campo, che non viene spazzato nemmeno dal vento che alla fine ricopre di sabbia anche noi.
Ormai ho quello spazio terroso dentro agli occhi, e difficilmente lo dimenticherò.
Il punto è che il giorno dopo essere stati a Zaatari abbiamo lasciato Mafraq per girare la Giordania, anche noi da buoni turisti, da buoni occidentali. Abbiamo fatto le nostre foto galleggianti sul Mar Morto, abbiamo camminato per le vie di Petra e preso il sole sul Mar Rosso. E poi siamo stati nel deserto.
Sabbia, sole, sabbia, jeep, sabbia, stelle e ancora sabbia.
E lì è inevitabile. Lì ripensi per forza a quella sabbia, a quella polvere, alle molteplici polveri della Giordania: a quelle che ti sono entrate dentro, a quelle che ti hanno turbato, a quelle che ti hanno affascinato.

Per questo ora dico che la mia Giordania è terra.
In quell’elemento ci sta tutto.
Ci sta ciò che ho visto, ciò che ho respirato, ciò su cui ho camminato.
Ci sta tutto quello che ho vissuto. 
E questo basta.

Elisa


martedì 2 ottobre 2012

Scatta il cantiere: "Prendi il largo"

8 commenti:
Inauguriamo una serie di 5 posts con i podi della sesta edizione del concorso fotografico aperto a cantieristi e affini. Anche per mostrare agli sce cotanta arte gemmata sorprendentemente nelle passate settimane estive.

La prima categoria che pubblichiamo è quella relativa al senso del cantiere della solidarietà, il cui motto è stato "Prendi il largo". E qua mi fermo e faccio parlare le foto.

1° classificata


È bella la strada che porta a casa, di Anna Curreli (Etiopia)

 
2° classificata
 
Non lo può certo sapere questa terra così rossa quante gocce della pioggia la faranno respirare, di Alessandra Bottini (Moldova)



3° classificata

Silenzio fragoroso, fiducia illuminata, di Francesco Minoia (Gibuti)
 

lunedì 1 ottobre 2012

Tabara mea

2 commenti:

Cos’è un Cantiere della Solidarietà?


Per me è una scuola piena di belle sorprese dopo molto lavoro. È una storia con un finale felice.

Con che scopo si fanno i Cantieri?


In ogni località del paese esistono dei bambini che non hanno la possibilità di andare in vacanza per mancanza di soldi. Questi campi estivi si fanno con lo scopo di portare il sorriso ai bambini e di coinvolgerli in diverse attività.

CANTIERE DELLA SOLIDARIETA’ 2012
Quest’anno abbiamo vissuto un Cantiere per due settimane in diverse località. Per me è stato un piacere partecipare a questo Cantiere perché ho imparato cose nuove e ho conosciuto persone alle quali mi sono legata. Nonostante il fatto che non siamo stati un gruppo del tutto unito, siamo stati bravi. Sento anche adesso la mancanza delle riunioni che davano a tutti un grande piacere! Se non avessi partecipato a questo Cantiere di certo non saprei cosa significa ,,torttelino’’.


Sono incredibilmente felice, sono felice di aver partecipato a questo meraviglioso Cantiere e orgogliosa di aver potuto partecipare e inserirmi nel gruppo! Ringrazio tutti quelli che sono stati insieme a me per i momenti passati insieme, vi ringrazio per quello che fate e per il sorriso portato a ogni bambino. Sono sicura che nel cuore di ognuno di noi rimarranno per sempre i momenti che ci hanno fatto sorridere! Questi momenti non verranno mai dimenticati, grazie alle attività che abbiamo fatto e alle foto che abbiamo.

Ana-Maria (volontaria moldava ai CdS2012)



Ce este tabara solidaritatii?
Pentru mine este o scoala plina de surprize frumoase dupa multa munca! Este o poveste cu un final fericit!

Cu ce scop se face aceasta tabara?
In fiecare localiate din tara,exista copii care nu au posibilitatea de a pleca la odihna din cauza insuficientei a banilor! Aceasta tabara, se face cu scopul de a aduce zimbete copiilor si ai implica in diverse activitati!

TABARA SOLIDARITATII 2012
In acest an am petrecut o tabara timp de 2 saptamini, in diferite localitati. Pentru mine a fost o placere sa particip la aceasta tabara deoarece am invatat lucruri noi si am cunoscut personae care m-am atasat de ele! In pofida faptuli ca nu am fost un grup total unit,am fost bravi! Sedintele la care primeam cu toti o mare placere,le simt si acum lipsa! Daca nu as fi participat la aceasta tabara cu siguranta nu as fi stiut ce  inseamna ,,torttelino’’!

Sunt nespus de bucuroasa,sunt fericita ca am participat la aceasta minunata tabara! Chiar mindra ca am putus sa particip si sa ma incadrez in grup! Multumesc tuturor care au fost alaturi,si pentru clipele petrecute impreuna,multumesc pentru ceea ce faceti si pentru zimbetl adus fiecarui copil!   Sunt sigura ca in sufletul fiecarui dintre noi va ramine pe veci momentele care au as zimbet pe buzele noastre! Aceste clipe nu se vor uita nicind, datorita activitatii care am facut si datorita pozelor care le avem!

Ana-Maria