sabato 31 agosto 2019

Kenya. Tra un CONDIVIDERE e un altro...

Nessun commento:

Come ci viene ripetuto dal primo giorno di formazione i Cantieri della Solidarietà sono anche e soprattutto CONDIVISIONE, ma cosa si intende con questa parola?
Forse dividersi l’ultimo pezzo di pane e Nutella o l’ultimo mandazi custodito gelosamente con il proprio compagno di viaggio?
Scrivere la parola del giorno e il proprio pensiero su un post-it per poi parlarne con il resto del gruppo?
Aiutare i ragazzi di Cafasso nei loro doveri giornalieri e non solo nel momento del gioco?
Beh sì, forse è tutto questo e molto altro… per me la parola CONDIVISIONE ha preso forma anche e soprattutto durante le varie testimonianze e voci che questo cantiere, in quel di Nairobi, ci ha permesso di ascoltare; testimonianze profonde, sincere, belle, parole di vite dedicate alla missione ma soprattutto a quell’Altro in difficoltà.
Siamo passati da tanti volti e voci diverse: dal mitico e unico Padre Maurizio in quel di Korogocho e Kibiko, che insieme ai suoi ragazzi ci ha fatto passare giornate indimenticabili e piene di vita, lì dove la vita era forse presa un po’ sottogamba, al grande Dominik, che all’interno dello Slum di Mathare, riesce ad occuparsi di un enorme e bellissimo campo da basket, che tiene ogni giorno almeno un centinaia tra bambini e ragazzini che hanno iniziato a credere nello sport come punto d’incontro e di svago, che riesce a tenerli lontani dalla strada almeno per qualche pomeriggio a settimana, fino ad arrivare a Simone, Angelo, Antonio che hanno deciso di dedicare gran parte della loro vita a ragazzi e persone abbandonate a se stesse, cercando di ridare loro un senso di “famiglia”.
Ma in mezzo a tutte queste voci c’è quella inconfondibile della nostra Sister Gertrudes, Suora Missionaria della Consolata, presenza insostituibile a Cafasso ormai da quasi 3 anni, e punto di riferimento per tutti i ragazzi e lo Staff.
Nata e cresciuta in Mozambico, ma la sua chiamata, i suoi studi e la sua Missione l’hanno portata in giro per il mondo, passando dall’Italia, da Londra, facendo una tappa nella “freddissima Mongolia”, come la definisce lei, fino al ritorno nella sua Africa; conosce molto bene almeno 6 lingue tra cui il francese, l’inglese, l’italiano, lo swahili e il mongolo.
Ha lavorato nelle scuole con i bambini, facendo loro catechesi; ha lavorato con le donne, insegnando loro a cucinare in modo tale da sfruttare al meglio le risorse a loro disposizione e ha portato il cibo ai villaggi più lontani; è riuscita a superare le rigide condizioni meteorologiche e di vita della Mongolia, che hanno come conseguenza un numero altissimo di uomini alcolizzati, che utilizza l’alcol come scudo contro il freddo; per questo motivo ha collaborato all’interno di case che ospitano queste persone almeno per la notte, in modo da evitargli la strada.
Alla domanda: e adesso? Cosa fai? Beh adesso si destreggia tra YCTC, il carcere minorile di Kamiti, e Cafasso; lei ripete sempre che si trova in mezzo a ragazzi che le fanno venire il mal di testa tutti i giorni e che prima o poi la faranno impazzire, ma ai quali vuole un bene infinito e per i quali si batte ogni giorno perché possano riacquistare fiducia e speranza, e decidano di prendere in mano la loro vita.
La sister è colei che porta rigore ma allo stesso tempo divertimento e solarità, ogni giorno ha qualcosa da dire e da insegnare ma allo stesso tempo è pronta ad ascoltare chiunque le si presenti davanti; ed è proprio vero che da una grande donna derivano grandi responsabilità.
Ci parla dei Cantieri della Solidarietà come di un appoggio, un appiglio a cui aggrapparsi, e come un qualche cosa di davvero importante per i ragazzi, che possono sperimentare così nuovi giochi, nuove attività, conoscere nuove persone e prendere tutto ciò che di positivo c’è in loro, e imparare a condividere la giornata.
Ed ecco che la parola Condivisione torna nuovamente: Condividere la giornata.
Non ho dunque altro da aggiungere se non un GRAZIE a tutti coloro che hanno CONDIVISO la loro giornata con me e un grazie speciale a Sister Gertrudes, che malgrado tutto non smette di credere nelle persone!

Sara P.


venerdì 30 agosto 2019

Serbia. Krnjaća

Nessun commento:
Grazie ad una  testimonianza ascoltata sulla situazione dei migranti della rotta balcanica e alla mia voglia di “mettermi in gioco” e non stare solo a guardare   ho deciso di partire con Caritas in un campo profughi in Serbia, sapevo che sarebbe stata un’esperienza di crescita, ricca di emozioni e “forte” ... ma non pensavo così tanto!

Lunedì 5 agosto siamo arrivati (io e altri due ragazzi) al campo di Krnjaća ...



Un cancellone, una ventina di “Barrak” tutte uguali, asfalto, un muro che circonda tutto, ragazzi, famiglie con bambini (anche piccoli).... e in questo momento vengo sommersa da pensieri e domande: perché queste PERSONE sono obbligate a vivere rinchiuse in un campo e nella monotonia solo per il fatto che la loro unica sfortuna sia quella di essere nati in un paese “sbagliato” che non gli permette di vivere una vita dignitosa? Perché invece io sono libera di vivere nel mio paese?

Non ho trovato una risposta alle mie domande, ma ho capito che potevo “rompere” la loro monotonia e farli sentire per un attimo “liberi” e accolti.
Allora ci siamo subito messi all'opera organizzando diverse attività per ogni fascia d’età (giochi, tornei, attività creative, di beauty saloon, pittura, clown)...ogni giorno qualcosa di diverso.



All'inizio non è stato molto facile riuscire a coinvolgere le persone, soprattutto i giovani, ma appena hanno capito che eravamo lì per loro, per farli divertire e per divertirci le attività sono andate a gonfie vele.

È stato davvero bello vedere come di giorno in giorno riuscivamo a far nascere sui loro volti (e sui nostri volti) dei bei sorrisi ed instaurare con loro dei legami...
I bambini iniziavano ad abbracciarci, a darci la manina, a seguirci, a correrci incontro, a giocare, a farci "scherzetti", i ragazzi e gli adulti iniziavano a raccontarci un po’ della loro vita e dei loro “sogni” e questi gesti ci riempivano il cuore di gioia perché nonostante loro stiano vivendo in un posto, in una situazione “triste” aprono il loro cuore e te ne donano un pezzettino.

                                       
Un grazie non basta!!
Good Luck e buon viaggio a tutti gli amici che ho incontrato.

Marta Leoni



giovedì 29 agosto 2019

Serbia. What is home?

Nessun commento:
“Quest’estate vado in Serbia a fare volontariato in un campo profughi”. Queste parole hanno suscitato varie reazioni, non sempre incoraggianti, nelle persone a cui ho raccontato i miei piani per il mese di luglio. Queste spaziavano dalla sorpresa allo sgomento, dall'interesse e curiosità per il tipo di esperienza che avrei vissuto all'incapacità di comprendere perché volessi passare parte della mia estate in questo modo. Mi è stato chiesto se fosse sicuro partire per la Serbia, se non rischiassi niente all'interno del campo, se mi fidassi dell’organizzazione con cui partivo. Mi è anche stato fatto notare che “anche da noi in Italia ci sono persone che hanno bisogno”. Domande e osservazioni che sorprendono poco se si pensa ai tempi in cui viviamo oggi.


Il campo di Bogovadja – dove, insieme ad altri quattro volontari, ho svolto l’esperienza di due settimane nell'ambito dei “Cantieri della Solidarietà 2019” organizzati da Caritas Ambrosiana – non somiglia a quelli sovraffollati e dalle scarse condizioni igienico-sanitarie che ci si immagina solitamente. Si tratta di un luogo circondato dal verde, dove ci sono giochi per i bambini, campi da calcio, basket e pallavolo e un “Social Café”, gestito da alcuni degli abitanti del campo, dove questi si ritrovano per stare insieme e chiacchierare. Tuttavia, non bisogna fermarsi all'apparenza: le persone che vivono a Bogovadja si ritrovano spesso senza acqua ed elettricità, non hanno piene libertà, le loro giornate si somigliano tutte e trascorrono lentamente. Nel campo di Bogovadja sono tutti in attesa. In attesa dell’approvazione della loro domanda d’asilo e del permesso di soggiorno. Oppure in attesa di trovare il momento adatto per andare al game, ovvero per provare ad attraversare il confine e continuare un viaggio verso i paesi dell’Unione Europea iniziato mesi o addirittura anni prima in paesi come Iran, Afghanistan, Pakistan, Siria, Burundi, Somalia o Eritrea. 

Le storie delle persone che ho incontrato a Bogovadja mi hanno toccata in una maniera tale che sarà difficile dimenticarle. E lo stesso vale per i sorrisi e gli abbracci che tutti ci hanno regalato quotidianamente, la gioia e la speranza che molti di loro hanno negli occhi, la spensieratezza dei bambini e degli adolescenti, la voglia che hanno tutti di imparare e di lottare per costruirsi un futuro migliore. In particolare, mi hanno colpito le ragazze di neanche vent'anni che hanno intrapreso questo percorso da sole, le famiglie che hanno affrontato viaggi lunghi e difficili con bambini a volte piccolissimi, gli uomini che con tenacia tentano e ritentano il game più e più volte nella speranza che, prima o poi, sia la volta buona.


Tutte queste persone mi sono entrate nel cuore. Da quest’esperienza, porto a casa tutti i momenti passati insieme a loro: le mattinate trascorse a giocare insieme a Uno, a Jeenga e a Shangai al “Social Café”, i workshop con le donne all'insegna della creatività, le lezioni di italiano e inglese, le parole scambiate sui rispettivi paesi – e su come si conta fino a dieci in farsi – tra un’attività e l’altra, la giornata in piscina con gli adolescenti, i pomeriggi passati a giocare e ballare con i bambini. Porto a casa gli abbracci di S., gli occhi di K., la dolcezza di A., il “Me, want to play! Me, want to fight!” del piccolo S., la voglia di imparare di R., l’intelligenza di N., la meraviglia dei gioielli creati da R., la gentilezza di S., i sorrisi di N., la simpatia di M. Porto a casa le emozioni provate nel veder partire per il game F. che, dopo averci salutati con un “ci rivediamo in Italia, Inshallah!”, si è allontanato da solo tra gli alberi.

Mi porto a casa tutto questo. E rifletto sul fatto che io posso tornare a casa, liberamente e comodamente, viaggiando in aereo, semplicemente mostrando la mia carta d’identità o il passaporto e spesso senza neanche aver bisogno di un visto. Loro invece no. Loro hanno dovuto lasciare la propria casa e probabilmente non ci torneranno più. Viaggiano via terra e via mare per mesi rischiando le proprie vite e senza sapere quando raggiungeranno la propria meta. E questo perché il loro passaporto, fondamentalmente, non vale niente. Tornando a casa, penso a quanto siamo stati fortunati noi – perché, in fin dei conti, si tratta solo di fortuna – ad essere nati nella parte “giusta” del mondo, quella in cui i diritti, almeno sulla carta, sono garantiti, e non si rischia di venire perseguitati o di vedere i propri familiari morire in conflitti armati.

E improvvisamente mi viene in mente la domanda di F. che, vedendo sulla mia maglietta il motto dei Cantieri della Solidarietà di quest’anno, mi ha chiesto: “What is home?”, “Che cosa è casa?”. 

Per me casa significa famiglia, affetti, persone care. 

Per me casa sono i luoghi in cui sono cresciuta, i piccoli momenti quotidiani a cui sono abituata. 

Per F., invece, “Home is a dream”, “Casa è un sogno”.

Angelica Notaristefano

mercoledì 28 agosto 2019

Libano. Incontro

Nessun commento:
Qualche giorno dopo il mio ritorno in Brianza osservo attentamente tutte le foto che ho scattato e rivivo volti, sguardi, gesti, paesaggi e istanti delle tre settimane trascorse a Beirut. Tre settimane piene, vere, caotiche e ricche di incontri. Incontri a cui ogni giorno, lentamente, ho dato l’opportunità di cambiare la costellazione della mia personalità. Ho imparato cosa significa mettersi al servizio di qualcuno senza la pretesa di aiutare, di essere indispensabile o di cambiargli la vita.


“Ma per servire dobbiamo mettere in gioco qualcosa di più della nostra forza. Dobbiamo mettere in gioco la totalità di noi stessi, attingere all'intera gamma delle nostre esperienze. Servono anche le nostre ferite, i nostri limiti, perfino i nostri lati oscuri. La nostra interezza serve l’interezza dell’altro e l’interezza della vita. Aiutare crea un debito. L’altro sente di doverci qualcosa. Il servizio, al contrario, è reciproco. Quando aiuto provo soddisfazione; quando servo provo gratitudine. Servire è inoltre diverso dal provvedere. Quando cerco di provvedere a qualcuno, vedo nell'altro qualcosa che non va. È un giudizio implicito, che mi separa dall'altro e crea una distanza. Direi quindi che, fondamentalmente, aiutare, provvedere e servire sono modi di vedere la vita. Quando aiutiamo, la vita ci appare debole. Quando cerchiamo di provvedere, ci sembra che abbia qualcosa che non va. Ma quando serviamo, la vita ci appare completa, e siamo consapevoli di fare da canale a qualcosa di più grande di noi.”

Mettersi al servizio, per me, ha voluto dire stare davanti alle persone che ho incontrato senza bisogno di sapere la loro storia, senza anteporre un’etichetta alla loro umanità. Ha voluto dire riscoprirmi strumento. Perché a dire il vero la maggior parte delle attività che abbiamo proposto nei centri erano cose che io “non sono capace”. Ma in quel momento mi era chiesto proprio quello e quasi senza rendermene conto mi sono ritrovata a mettere in gioco tutti i miei limiti. Per provare a mostrare qualcosa di bello. Esempi pratici: parlare con un’adolescente che mi racconta cose più grandi di lei, giocare coi bambini senza capire una parola di quello che mi dicono, mettere lo smalto, tatuare con l’hennè, fare yoga, cucinare la pizza o impastare gli gnocchi.
Mettersi al servizio significa anche sentirsi rispondere no e rispettare il silenzio. Significa anche accettare che qualcuno non voglia farsi conoscere o conoscerti, o che non voglia partecipare all'attività che hai proposto. Significa non mettere la propria pretesa davanti alla persona.


Più riguardo le foto più mi chiedo cosa sarà del futuro delle persone che ho incontrato. Se riusciranno a uscire dai centri e riprendere in mano la loro vita. Se finalmente (ri)troveranno casa e qualcuno che vuole loro bene. Se potranno finalmente scegliere e non subire. Per me prendere coscienza e toccare con mano che la possibilità di scegliere non è scontata per tutti è stato come uno schiaffo. Io posso prendere un aereo e partire. Io posso entrare e uscire dal cancello di uno shelter. Io posso scegliere se studiare, cosa studiare, dove studiare. Perché spesso scelgo di farmi scegliere? Continuerò a farmi scegliere o finalmente sceglierò? Avendone la possibilità ora ne sento il dovere, perché non sia tutto indifferenza.

Io sono convinta che tutte le persone che ho incontrato e che incontrerò contribuiscano a costruire ciò che io sono e sarò. Dalla ragazza che in uno shelter mi porta a vedere il tramonto più bello della mia vita al profugo siriano che nella sua tenda mi offre un thè e una sigaretta, o ai volti che ho fotografato nel quartiere armeno di Beirut.

Ancora non so bene come questi incontri mi abbiano cambiata e se e come continueranno a farlo, ma forse il bello è proprio scoprirlo giorno dopo giorno.

Mi auguro di non smettere mai di crescere e cambiare ogni giorno grazie all'incontro con chi è Altro da me. Mi auguro di non smettere mai di aver voglia di cercare e scoprire.

Grazie Libano, sei stato casa per tre settimane.

Marta Sanvito

lunedì 26 agosto 2019

Indonesia. Tante note, una sola melodia.

Nessun commento:

Emozioni e Sensazioni di un Cantiere della Solidarietà in Indonesia

Attesa, entusiasmo, gioia, stupore… incoscienza o coraggio? Cinque persone praticamente sconosciute, una casa da lasciare, la propria, seppure per poche settimane. Ci siamo! Ci vediamo, ci parliamo, ci scambiamo le prime impressioni e ansie “Quali vaccini hai fatto?” e ancora “La mia valigia pesa troppo: sono 23 kg, lasciamo qualcosa”. Lasciare per partire o ripartire, lasciare indietro qualcosa e fare posto ad altro. Ci fidiamo, ci affidiamo uno all'altro.
Si parte! Ricordi indelebili… Sguardi tra passeggeri, domande: “Dove andate?” “Bali. Svago, relax, vita mondana, turismo. E voi?” “Nias!” “Dove??!” Posto dimenticato, sperduto (o quasi), per il primo Cantiere della solidarietà in Indonesia. Il tempo in aereo porta con sé il nostro carico di pensieri: una sconosciuta terra tutta da scoprire.

Al nostro arrivo ecco Andrea, la “boss”, la nostra coordinatrice: pantaloni corti e felpa (farà mica freddo? Dove staremo? Dai, forse e’ solo un suo modo di vestire…). Carichiamo i bagagli nel nostro pulmino e via.
Nias ci accoglie con l’odore di salsedine e di smog, con le folate acri dei rifiuti bruciati e l’olezzo nauseante del durian che si vende a bordo strada (e che qui, per qualche strana ragione, trovano gustoso). Il paesaggio verde della foresta, il sole sul mare agitato, Gunung Sitoli con il suo caotico ritmo. Distese di palme, banani, alberi di cacao, papaya e molte altre varietà, cemento, asfalto e sterrato che si districa nella giungla, qua e la’ squarci nel terreno, sali e scendi, buchi, crateri, qualche rattoppo provvisorio con pietre e tronchi, poche decine di km comportano diverse ore di strada.



Eccoci a Wisma Alma, la casa delle suore Alma. Titubanze, incertezze, e timidezza frenano: entriamo in punta di piedi! Ma siamo pronti a cambiare, adattarci, gustare cio’ che e’ nuovo, diverso, vivere questa esperienza con tutti noi stessi. Affrontare ogni esperienza, attività’, incontro, con totale intensità, sperimentare attraverso il nostro corpo, i sensi, il cuore e la mente.Sguardi, saluti, sorrisi… Mani che ti sfiorano e portano la tua alla fronte e poi al cuore, in un gesto di rispetto, mani che, nei giorni successivi, sciolti i timori, diventano strumenti per giocare e comunicare, mani per prendersi per mano, per ballare insieme o unirsi in preghiera.
“What is home?”
In queste settimane spesso risuonava in noi questa domanda. Ce lo siamo chiesti qui, in una realtà totalmente diversa dalla nostra, in Indonesia, su un`isoletta di cui, fino a pochi mesi fa, ignoravamo l'esistenza e che ora, in qualche modo, ha cambiato per sempre la nostra.Casa e’ quando hai qualcuno che ti aspetta. Per noi, casa sono i bambini che ci aspettano e ci dimostrano, nonostante le loro problematiche, quanto sono contenti di vederci.


Casa e’ quando hai qualcuno con cui crescere. E noi siamo cresciuti come amici e come fratelli, in queste settimane.

Casa sono i suoni, le voci e i rumori: le risate di Lestari che ci saltella intorno in maniera sconclusionata, il clacson dei motorini della becak, la sveglia della mattina con un`improbabile canzone indonesiana, il suono delle onde del mare (e l’incessante miagolio di Big Red Boy).
Casa e’  qualcuno che ti vuole bene, ti protegge, ti aiuta. E’ dove puoi essere te stesso, migliorando ogni giorno di più. Difficile sperimentarla qui, nella comunità in cui ci siamo inseriti per poche settimane (qualcuno potrebbe pensare…) eppure una sensazione così naturale, percepita sin dai primi giorni.
Casa sono i profumi e gli odori che accompagnano chi ci vive. Il profumo di caffè (il nasi goreng alle 8 del mattino e lo abbiamo azzardato solo un giorno), l'odore dei vestiti da lavare, il profumo di borotalco dei bambini dopo il mandi, gli insetticidi spruzzati generosamente per proteggersi dalla malaria. Il nostro quotidiano profuma di pioggia e terra bagnata, di aglio e di fritto (e quando assaggi qualsiasi cosa, come dimenticare il peperoncino che ti esplode in bocca a poco a poco?).
In ogni casa si incrociano sguardi e a volte bastano solo questi per intendersi. Come quelli di Endy che guarda con meraviglia le nostre mani colorate di tempera e quelli di Mawar che parlano da soli. Casa, qui, e’ una porta aperta, pronta ad accogliere ma anche a lasciar andare via, perché prendersi cura significa anche questo.



Le case che abbiamo visto sono semplicissime, non rispecchiano proprio la nostra idea di stabilità e comfort: spesso sono strutture di legno e lamiera (o foglie di palma), dove a volte mancano luce e acqua corrente, che si affacciano sulle pochissime strade che collegano l'Isola, la bandiera bianca e rossa che sventola vicina, le tombe dei propri cari e un sorriso gentile e curioso sulla soglia sempre pronto a salutarti. Eppure per queste persone e’ casa. E’ tutto ciò che hanno, e’ il loro mondo.

E allora che cosa si può chiamare casa? Sicuramente casa e’ un tetto sopra la testa, un letto in cui riposare, un tavolo attorno a cui riunirsi per condividere il cibo, una porta da lasciare aperta per accogliere chi sta fuori, una finestra da cui affacciarsi per cominciare a guardare il mondo. Ma casa e` soprattutto il luogo degli affetti e dei ricordi, dove si impara a conoscere e crescere.Casa e’ famiglia: se ci siamo sentiti subito a casa o se siamo stati capaci di fare questo posto casa nostra in così` breve tempo, e’ stato grazie alle dolci premure delle suore, ai bambini che ci cercavano per giocare in ogni momento incuranti della nostra stanchezza chiamandoci con Abang e Kakak, fratello e sorella. E' stato grazie a Tule che passeggiava, quasi ballando, sempre davanti alla veranda, a Iggo e a tutti gli altri che, curiosi, ci chiedevano “Ke mana?”, a Erman che e’ un tuttofare sempre pronto a risolvere ogni problema, a Riski che per una settimana intera ogni giorno ha tentato di mangiare a tavola con noi a colazione, pranzo e cena. Gli occhi scuri dei bimbi, che sembrano scrutarti nell’anima e non potremo mai dimenticare. Sguardi profondi, intensi, di chi sembra aver già vissuto una vita intera anche se ha solo pochi anni. I più forti che si prendono cura dei più deboli, sempre, senza che questi debbano chiedere aiuto. Si aiutano anche tra sconosciuti, senza chiedere nulla in cambio. Dove abbiamo sbagliato noi occidentali per diventare indifferenti come siamo?
I bambini non fanno altro che chiedere qual è  il giorno del rientro e l'espressione che utilizzano più spesso e’ “tidak usah pulag”, non e` necessario tornare in Italia, e’  inutile, “Di sini saja”, state qui. Sara’  durissima salutare tutti, al termine della nostra esperienza.
Abbiamo imparato a parlare attraverso gli ultrasuoni, con le mani, con la mente. Gli odori e le abitudini insolite sono diventate la norma e ci si chiede come potremo farne a meno. Abbiamo fatto tante cose e diverse (il tempo e’ volato inesorabilmente) senza dimenticarci di farle con calma e cura, ascoltando, osservando, mettendoci in gioco. Il nostro metterci a servizio lo abbiamo tradotto soprattutto con la presenza con cui siamo stati insieme, prima di tutto.
Abbiamo dormito poco, il sole ha bruciato la nostra pelle, la pioggia ci ha colti spesso di sorpresa e abbiamo ricevuto tanti abbracci inaspettati. In poco tempo noi, i bambini, le educatrici, le Suster, siamo stati in grado di raggiungere un`affiatamento e una vicinanza che mai ci saremmo neppure immaginati. Questo amore è stato un dono per ciascuno di noi. Abbiamo provato a donare qualcosa in più e abbiamo ricevuto molto di più di quello che abbiamo dato. Siamo stati nutriti, aiutati nel momento del bisogno, coccolati, accolti e tra noi abbiamo fatto altrettanto.
Ci siamo scoperti diversi e insieme così simili. Come tante note colorate di un pentagramma che crea una musica bellissima: Banyak not-not, satu lagu. Tutti con lo stesso inesauribile bisogno di amore. E se ti senti a casa, sei capace di esprimerlo, nella cura, nei sorrisi, nei piccoli gesti. Riesci così a sentire tutto l’amore, pienamente, nella gratitudine profonda per tutto quanto hai ricevuto in dono, e a regalare agli altri tutto quello che sei.


Sei teste, sei cuori, questi sono i nostri pensieri, una sola melodia.





Serbia. Frammenti di vita

Nessun commento:
"Ciao sono A. ho 4 anni e vengo dall'Iran. Sono venuta qui con il mio papà, la mamma non c'è.
Io e il mio papà stiamo molto bene insieme, lui si prende cura di me e mi fa i codini ogni mattina.
Insieme a lui stiamo cercando di trovare una nuova casa.
Non è facile, ci abbiamo già provato più volte, ma sembra sempre così lontana.
L'ultima volta che ci abbiamo provato, tu eri appena arrivata al campo, ed è per questo che il primo giorno non mi hai visto in mezzo a tutti quei bambini.
Mi piace molto giocare, colorare, mettere la musica e ballare. Non parlo molto, sono molto tranquilla e affettuosa".

Lei è A., una bambina di soli 4 anni che ho incontrato nel campo di Bogovadja, non so bene la sua storia, non so perché la mamma non sia con lei, non so se abbia paura o sia fiduciosa. Non so se capisca cosa stia vivendo e cosa sia il game.
So solo una cosa, che è una bambina, dolce, solare, che parla con gli occhi, il cui padre vuole portarla verso un futuro migliore.


"Ciao sono F. vengo dalla regione del Kashmir in Pakistan. Ho 32 anni e cerco un posto migliore dove poter lavorare e ricostruirmi una vita. Parlo molte lingue, più di 6. Al mio paese facevo lo speaker radiofonico. È così che ho imparato tante lingue. 
Mi piace giocare a pallavolo, stare in mezzo ai giovani, mi piace parlare e fare qualche partita a Jenga.
Ho fatto un viaggio molto lungo e ora sono fermo qui, in Serbia. Voglio cercare di arrivare in Bosnia, sai... lì ho un amico, per poi venire in Italia.
Sono già partito tante volte per il game, l'ultima volta mi hai visto andar via, per poi vedermi ritornare. Ho passato la notte nel bosco, senza bere né mangiare. Senza mangiare ancora ancora, ma senza bere... È dura sai! Quando ero lì solo pensavo a voi ragazzi, siete voi che mi avete dato la forza.
Ce l'avevo quasi fatta ma mi hanno preso e rispedito qui. Appena tornato ero molto stanco, ci sono voluti un po' di giorni prima che mi riprendessi.
Sono contento di essere in questo campo perché ci siete voi, voi siete miei amici e lavorate molto, con i bambini e con le donne, ma anche con noi, per rendere le cose meno brutte, Grazie.
Ah dimenticavo, ieri ti ho chiesto "what is home? Ci ho pensato: "Home is a Dream".
Lui è F. un single man (è così che si dice) ancora giovane, con la voglia di andare, non arrendersi e provarci fino alla fine. Un uomo coraggioso, che ha sfidato il game da solo. Un uomo segnato dalla vita ma che ancora la Vita la ama.

"Ciao sono S. Ho 29 anni e vengo dall'Iran. Sono qui da sola, o meglio con la mia bambina a 4 zampe. Mi piacciono molto gli animali, in Iran ho anche un gattino; mi manca molto. Mi piacciono gli animali perché sono migliori degli uomini. Loro se ti amano, ti amano e basta, senza riserva.
Condivido la mia stanza con ragazze Somale, con loro mi trovo bene, sono diventate mie amiche.
Le giornate qui sono molto noiose, sempre uguali. Non c'è mai niente da fare.
Posso portare queste cose in camera? Così finisco il lavoretto e non mi annoio."
Lei è S. una ragazza Iraniana molto bella, sempre in giro con il suo cagnolino. Parla inglese abbastanza bene. Il suo sguardo spesso sembra assente, sconnesso dal mondo, vuoto. Chissà cosa pensa, chissà cos'ha vissuto, chissà cos'ha visto.


Queste sono solo pezzi di storia di vita di alcune delle persone che ho incontrato nel campo. Ce ne sono a migliaia, a Bogovadja in Serbia, in Bosnia, in Grecia, in Italia, in giro per il mondo.
Sono tutte persone accomunate dalla volontà e dal diritto di desiderare per loro e per i loro figli una vita e un futuro migliore.
Noi abbiamo la possibilità e la libertà di andare in Inghilterra o in Germania per cercare un lavoro più gratificante, perché loro no?!

Federica

lunedì 19 agosto 2019

Kenya. L'Araba fenice

Nessun commento:

to become a good person and to change; I want to go to school, to search a job and I want to help my parents to get-out of the poverty”.

Queste poche parole sono la risposta di Camcuria o meglio Ismael, il suo vero nome, alla mia domanda “cosa fai qui?”.
Possono essere parole che estrapolate da un discorso possono sembrare banali, ripetitive. Quante volte sentiamo dire di voler diventare una persona migliore o meglio ancora, di voler cambiare dall’oggi al domani il proprio modo di essere.
Ecco invece questa volta hanno fatto breccia nella mia mente e soprattutto nel mio cuore. Mi rimbombano quotidianamente nel cervello come un assolo di tamburi, bum bum bum, sì perché questa volta lo posso dire forte, è diverso.
In queste prime due settimane a Nairobi ho visto tanta speranza negli occhi di questi ragazzi che mi ha fatto capire veramente che si può ritornare ad essere se stessi e non continuare a vivere (o meglio sopravvivere) con l’etichetta di bad-person che le condizioni di vita ci impongono di essere.
Ismael è uno dei tanti ragazzi che vivono a Kibiko, una scuola di vita incantevole immersa nelle colline della capitale. Perché, come dice padre Maurizio, ognuno di noi ha diritto al bello, soprattutto coloro che di bello nella loro esile vita hanno avuto poco o niente.
Ismael, è bello dirlo, è uno dei tanti. É uno dei tanti che ha voluto e scelto questo percorso, perché al posto suo potrei scrivere Crispine, Njuguna, Nathan, Waylong, Wesley, Francis e tanti altri ancora. Un insieme di nomi, di storie, di vite che fanno credere in questa rinascita. Fanno credere in questa nuova generazione di giovani che vogliono un futuro pieno, ricco di vita e di sogni.
Un ingegnere, un architetto, un musicista, un maestro ballerino, un meccanico, un dottore e persino il papa: questi sono i nostri ragazzi ed è quello che sognano e che io auguro loro davvero con tutto il cuore di raggiungere.
Mi rivedo molto in loro, quella voglia di riscatto, di lasciarsi alle spalle la parte peggiore di se stessi e di cercare il bello, di voler raggiungere il bello.
Perché non importa se W. è dovuto diventare spacciatore per potersi comperare i libri per andare a scuola, l’importante è che guardando quei libri si ricordi della fatica del proprio passato e della forza che sta mettendo in gioco per la sua felicità e per poter finalmente dire ai propri genitori, che ormai non credono più in lui, “ce l’ho fatta anche io!”.


Roberto



Kenya Nairobi. Due di tre

Nessun commento:

Secondo Njuguna, uno dei ragazzi di Cafasso, la cena della domenica deve essere leggera, così da poter attaccare con maggiore energia il lunedì imminente. 
Per noi è stata cena di pasta al pesto, un intervallo all'amato cibo africano, e ci fa mettere sulla tastiera dopo avere trascorso due settimane a Kahawa West, quartiere periferico di Nairobi, Kenya.

Cafasso è il nostro campo base, dove trascorriamo la maggior parte del tempo con i ragazzi che, usciti dalla YCTC, centro di detenzione minorile, hanno deciso di aderire a questo progetto. 

Qui la mattina si lavora nei campi e nel pomeriggio si gioca, a calcio e a pallavolo principalmente. 
Dopo solo tre giorni ha tutto già il sapore della famigliarità, soprattutto perché dopo il primo mercoledì lasciamo Cafasso per tornarci solo domenica sera. 
Visitiamo diversi progetti: Kibiko, Napenda Kuishi, Boma Rescue e altri due centri a Korogocho. 
Queste righe non sono lo spazio adeguato per scendere nel dettaglio, qualcuno di noi magari lo farà: ci vorrà del tempo per poter scrivere riguardo la baraccopoli
Il weekend inizia in capitale, la ricchezza di alcuni quartieri stride con la povertà vista nei giorni precedenti. Domenica è prima esperienza di messa africana per molti, in swahili, non particolarmente breve. Finalmente domenica nel tardo pomeriggio si torna a Cafasso, ci accolgono con i chapati, cena memorabile, sicuramente non in linea con quanto predicato da Njuguna.

La seconda settimana si apre con la visita alla YCTC: qui ragazzi in attesa di condanna e ragazzi condannati si uniscono per giocare con noi a calcio e a pallavolo, e per le chiacchiere. Per i secondi la pena è di 4 mesi, per i primi incombe l’incertezza e la preoccupazione di giudizi che si fanno attendere anche per anni. 
Con i nostri di Cafasso si continua come se fossimo qui da sempre, mentre alcune delle nostre mani accusano la durezza del manico della zappa, arnese poco impugnato a casa. 
Si torna anche in baraccopoli, altri progetti, altre sensazioni, forse ci sarà spazio anche per queste. Per ora basta dire che la seconda volta non è come la prima: ci si può davvero abituare anche a questo?
Si incontrano italiani di altre organizzazioni che condividono con noi il Kenya per un periodo più o meno lungo della loro vita.

Questo weekend abbiamo fatto un po’ i turisti tra zebre, facoceri e ippopotami. Oggi, domenica, durante la messa si celebra un matrimonio e alcuni battesimi; non particolarmente breve neanche questa celebrazione. 

Poi, nel pomeriggio siamo stati a Karura Forest con in ragazzi di Cafasso.

Domani inizia il nostro ultimo lunedì, siamo pronti ad attaccarlo come fa Njuguna, al di là del fatto che la pasta al pesto di stasera sia stata pasto abbondante.

mercoledì 14 agosto 2019

Serbia. Estate ai Caraibi? No, a Bogovadja!

Nessun commento:
Quest’estate ho deciso di trascorrere due settimane in Serbia presso un campo di accoglienza per migranti, come volontario.

Un periodo breve effettivamente, forse troppo perché ne valesse realmente la pena. “Forse con quattordici giorni di ferie sarebbe stato meglio rilassarsi in qualche spiaggia tropicale e non pensare a niente..” riflettevo tra me e me nel viaggio in macchina prima di raggiungere l’aeroporto di Linate.

Il primo impatto con il campo poi non è stato neanche tra i più positivi. 
Disperso tra verdi colline, non molto distante da una piccola cittadina di nome Valjevo, mi è parso una sorta di oratorio frequentato da individui che per ovvi motivi sembravano per lo più schivi e poco socievoli.
E l’idea di dovermi improvvisare animatore in un contesto del genere risultava quanto meno forzata.


Tra una mattinata trascorsa a dipingere un cartellone con dei ragazzini provenienti da diverse parti dell’Asia, un pomeriggio passato a giocare a calcio con solo qualche adulto interessato tra le decine presenti nel campo e ore intere spese a tenere a bada bambini alquanto vivaci;

il tempo è volato piuttosto in fretta.

Ma sono stati i momenti non programmati, le chiacchierate spontanee e  disinteressate che mi hanno fatto conoscere più da vicino alcune di queste persone.

Ho conosciuto Amir, uomo iraniano dall’animo spiritoso e amante dei selfie. Nel primo incontro si è soffermato più volte a raccontare e descrivere  le bellezze naturali e architettoniche della sua città; lasciando però trapelare un senso profondo di malinconia. Abbandonare tutto, perché contrario alle imposizioni del regime islamico, non deve essere stata una scelta facile da prendere.

Ho conosciuto Reza, artista eclettico capace di tenerti incollato sulla sedia usando un semplice filo di alluminio e uno di rame. Non pensavo che potessero bastare per riuscire a fabbricare stupendi braccialetti.!

Ho conosciuto Daniel, bambino ormai quasi adolescente, apparentemente allergico all’acqua della piscina che dopo aver indossato i miei occhialini , seppure al contrario, è riuscito a nuotare per qualche bracciata.
Per sua felicità ho deciso di regalarglieli.. per mia felicità ha promesso che da ora in avanti li userà nel verso corretto.

Ho conosciuto Zahid, ragazzo pakistano volenteroso e determinato che per arrivare fino in Serbia ha percorso lunghi tratti a piedi, giorno e notte senza sosta,  seguendo quella rotta balcanica tanto battuta dai migranti.
A dir la verità Il suo viaggio è tutt’altro che finito.
“Ci rivediamo in Italia!” sono infatti state le sue ultime parole mentre ci salutavamo.

E con un po’ di emozione ho salutato  anche tutti gli altri migranti del campo. 

Persone tra loro molto diverse, temporaneamente  parcheggiate a Bogavadja, e in attesa di ottenere dalle autorità locali un permesso di tre giorni; così da poter sfidare nuovamente la sorte e superare i confini serbi.

“In bocca al lupo per tutto!” .. non mi resta che augurarvi!

Andrea

venerdì 2 agosto 2019

Rane bollite

Nessun commento:

Domani parto, vado in Libano e ci starò per un po'. La valigia è pronta, ma l’ho già aperta e disfatta almeno quattro volte per controllare che tutto sia al proprio posto (che poi… “tutto” cosa?). Non ho mai imparato a fare le valigie, ho sempre riempito tutto lo spazio vuoto con vestiti per ogni evenienza e cose che –posso dirlo tranquillamente- avrei fatto meglio a lasciare a casa. È come se, in qualche modo, riempire la valigia prima di partire fino a far saltare la cerniera mi tranquillizzasse. Una sorta di horror vacui della valigia, potrei definirlo.
L’ultimo viaggio che ho fatto mi ha costretta a partire con l’essenziale e questo ha evitato la classica scena di me, seduta sulla valigia in aeroporto, mentre cerco disperatamente di far congiungere i due lembi della cerniera. Ma lasciare casa con lo stretto indispensabile mi ha insegnato che si può tornare con mezzo chilo di sabbia rossa del deserto del Sahara, per esempio, e che la valigia piena dell’andata è sempre stata solo una rassicurazione della quale avevo bisogno per me stessa.
Mentre ripiego le magliette il mio pensiero va a Silvia, Silvia Romano. Non credo di essermi sentita tanto vicina ad una persona che mai ho conosciuto. Guardo mia mamma che passa dal corridoio e penso alla mamma di Silvia, a quanto sia difficile per lei arrivare a fine giornata. Se fosse qui le direi una sola cosa: che di sua figlia deve essere solamente orgogliosa. Chi ha fatto almeno un viaggio di volontariato lo sa, per decidere di partire ci vuole coraggio. Non si parte con l’intento di cambiare il mondo e non si parte tanto per partire; voler intraprendere un’esperienza di volontariato è una delle cose più serie che si possa decidere di fare.
E oggi decidere di non star fermi significa non accettare passivamente tutto il degrado, le vessazioni, la scomparsa dei valori e dell’etica che derivano da questo continuo subire, in silenzio, senza mai reagire. Oggi decidere di decidere è l’unico modo per non diventare rane bollite *

* “Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell'acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.” Tratto dal libro “Media e Potere” di Noam Chomsky

Cosa fare quindi? Avere la determinazione di saltare fuori dall'acqua che si riscalda finché se ne hanno ancora le forze, prima che sia troppo tardi. Farsi condizionare il meno possibile dall'odio e dall'indifferenza.
Eppure ci sono giorni più difficili in cui mi sembra di vivere solo tra rane bollite, rane che gracidano un odio assordante e sputano rabbia. Giorni in cui mi sembra di vivere in un mondo al contrario e maledettamente ingiusto, nel quale non si riflette più neanche prima di pensare, nel quale tutto diventa un caso politico, prima ancora che umano, nel quale solo una foto sulla prima pagina dei giornali ci fa aprire per un attimo gli occhi dal nostro sonno indifferente. Ma possibile che abbiamo bisogno di fotografie che ci sbattano davanti agli occhi l’orrore umano per smuoverci anche solo per qualche attimo? Forse è perché ci stiamo abituando al ribrezzo o, meglio ancora, ci stiamo facendo seppellire da sentimenti di becero individualismo e dispersivo collettivismo.
Ma forse è proprio questo il tempo giusto per vivere nel rischio. Ray Bradbury scrisse: “Vivere nel rischio significa saltare da uno strapiombo e costruirsi le ali mentre si precipita”. Così noi dobbiamo essere rane che hanno il coraggio si saltare fuori, anche senza certezze e senza essere sicure di farcela. Tutto questo però ad un’unica condizione: impegnandosi a “volare”.
Io domani parto e parto perché non voglio diventare una rana bollita o perlomeno voglio essere una rana consapevole. Io domani parto perché posso farlo, perché ho la libertà di spostarmi, di oltrepassare i confini sapendo che nessun abisso inghiottirà il mio corpo.
Quante volte diamo tutto per scontato?

Anna Gritti