lunedì 20 febbraio 2017

Nicaragua tanto violentemente dolce

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"Muy pocos meses después de su liberación, Nicaragua se lanza a una campaña general de alfabetización que durante un plazo todavía imprevisible convertirá la totalidad del país en una gigantesca escuela en la que de alguna manera la mitad de la población enseñerá a leer y a ecribir a la otra mitad." 
Julio Cortazar, "Nicaragua tan violentamente dulce"
 L’educazione popolare é un concetto che si definisce nella pratica, che per sua natura sfugge a qualsiasi tipo di sistematizzazione e teorizzazione che possano limitarne l’azione e la diffusione.
Freire, pedagogo brasiliano, considerato il padre di questa disciplina, la definisce come: “ una proposta teorico-pratica, in continua costruzione in centinaia di pratiche, in molti diversi scenari della nostra America (e anche piú in lá). la sua visione é impegnata, compromessa socialmente e politicamente.”
Ci sono alcuni elementi che sono alla base di questo metodo educativo e che ne costituiscono l’essenza, primo fra tutti la prospettiva di trasformazione, l’idea cioé che educare sia sinonimo di trasformare,  che sia una strada fondamentale verso il cambiamento sociale.
Per questa stessa ragione l’educazione popolare non puó e non vuole essere neutrale, intendendo neutralitá come forma di sostenere e perpetrare lo staus quo, ma al contrario, con le parole di Freire, "prende sempre il punto di vista dei dannati della terra".
Altro elemento cardine consiste nel fatto di vedere educatore ed educando come conpartecipi di questa opera di trasformazione e di ricollocarli, dunque, in un asse orizzontale e non piú verticale.
L’educazione diventa così strumento di creazione e immaginazione, lo studente non è piú un vaso vuoto da riempire di contenuti, ma una mente fantasiosa capace di scrivere la sua storia.
Il Nicaragua ha una lunga tradizione di educazione popolare, le esperienze del piccolo Paese centroamericano, hanno contribuito moltissimo, infatti, alla sua nascita e alla sua diffusione in america e nel mondo.
Augusto Sandino, rivoluzionario nicaraguense, che spinse il popolo alla resitenza fino alla liberazione del Paese dalle forze militari statunitensi nel 1933, viene considerato un precursore dell’educazione popolare. Nelle montagne della Segovia dove si costituí il primo accampamento della resistenza, Sandino promosse un “dipartimento docente” con l’obiettivo di insegnare a leggere e a scrivere e per stimolare il pensiero critico di tutti i componenti dell’esercito.
I metodi innovativi sperimentati da Sandino, non ebbero lunga vita dopo la liberazione, a partire dalla sua morte si instauró il regime dei Somoza che sarebbe durato per i successivi 40 anni e che avrebbe annientato qualsiasi forma di pensiero libero.
Sará con la fine della dittatura Somoza e con la vittoria della Rivoluzione sandinista nel 1979 che si tornerá a parlare di educazione popolare e si svilupperá una delle iniziative educative piú interessanti di tutti i tempi.
Quando la dittatura Somoza fu sconfitta il 50% della popolazione nicaraguense si dichiarava analfabeta, il tasso cresceva spostandosi dalla cittá alle zone rurali.
L’idea dei sandinisti era che dopo aver vinto contro la dittatura era ora necessario cominciare una nuova battaglia per sconfiggere l’ignoranza.
L’obiettivo era promuovere non solo un educazione per tutti, ma soprattutto una “nuova” educazione per tutti.
Fu così che si diede l’impulso alla “Cruzada de alfabetización” che nel 1980 portó 180 mila giovani alfabetizatori a lasciare le proprie case per dirigersi nelle zone piú remote del Paese ad insegnare a leggere e a scrivere.
Con la “Cruzada de alfabetización” 406.056 persone impararono a leggere e a scrivere e la popolazione studentesca raddoppió.
Si racconta che fra educatori ed educandi si creó un rapporto molto speciale, gli alfabetizatori vennero accolti come parte della famiglia, impararono a coltivare la terra e allevare il bestiame e sopratutto vennero difesi quando cominciarono gli attacchi dei “contras” con l’avanzare della controrivoluzione.
Quando la crociata prese vita, il paese viveva un momento di estrema difficoltá, fra la guerra dei controrivoluzionari supportati dalla Cia, la morte e la distruzione. Quello che si tentava di fare era “educare nella povertá”, dove il materiale fondamentale era il potenziale umano, la coscienza popolare, i suoi strumenti e la sua creativitá. Mancando i libri, le scuole, le aule, l’educazione non poteva che essere un processo collettivo e partecipativo e non poteva che avere come obiettivo la fine della guerra. Questo significava educazione popolare in Nicaragua.
Pensando al Nicaragua di oggi, girando per le scuole di Nueva Vida e Ciudad Sandino, a tratti sembra che di questa bella storia non resti che un paragrafo sul libro di testo, che è bene imparare a memoria, ma, per caritá, certo non mettere in pratica.
Il Nicaragua sta lentamente scivolando verso la supremazia assoluta di una “dinastia familiare”, dove poco spazio é lasciato alla critica, all’opposizione e al pensiero libero (ma solo al pensiero, perché il mercato é liberissimo). Recuperare la vera essenza di quella “educazione nella povertá” o educazione popolare della crociata di alfabetizzazione significherebbe mettere in discussione lo status quo e aspirare ad una trasformazione del presente. 
La logica secondo la quale vengono utilizzate le parole d'ordine del socialismo e del sandinismo per promuovere un sistema improntato al neoliberalismo, impregnato di fondamentalismo religioso e in odor di dittatura é a dir poco perverso, ma quanto potrá ancora durare?

Sconfìnati: venti di partecipazione

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Giovedi 23 febbraio raggiungiamo quota 20.


Oltre 1600 persone incontrate in giro per la Diocesi. 

E al termine di ogni incontro tante persone si avvicinano, ringraziano, chiedono di poter far qualcosa.

Capita a volte di ricevere uno scritto che questa volta l'autore ha deciso di spedire alle redazioni di un po' di testate (grazie!). Anche questo è un modo per attivarsi, non rimanere indifferenti e noi lo pubblichiamo con grande piacere nel blog.

Sconfìnati, con l'accento sulla "i", prosegue il cammino: abbiamo ancora un po' di km da fare e almeno altri 10 incontri in programma. 

Intanto grazie di cuore a tutti quelli che hanno deciso di Sconfinare con noi!

Sergio e Alessandro

martedì 7 febbraio 2017

Pensieri

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Dopo il ritorno a Cochabamba dalle vacanze natalizie e dopo essermi ambientata di nuovo ho deciso che è arrivato il momento di pensare, di riflettere e di scrivere due parole sulla mia percezione di Cochabamba o di quello che ho potuto vedere e sentire. Mi sono resa conto che questa città ha qualcosa di magico, come se ci fosse qualcosa di magnetico che ti attrae e ti spinge a tornare o almeno a me. 
Il primo impatto in ogni nuova cittá è sempre un po’ traumatico. Peró delle volte rifletterci aiuta. 
Oggi il mio impatto riguarda il carcere. Per la prima volta sono entrata in un carcere di soli uomini in Bolivia. É difficile descrivere ció che ho visto e le sensazioni che ho provato sono state discordanti. Per esempio alcune dinamiche interne al carcere non le ho capite, ed altre ho delle difficoltá ad accettarle. Ma di una cosa sono sicura, il carcere ha per me una calamita che mi spinge a tornare per saperne di piú. Come se il desiderio di scoprire, insito nell’essere umano, si trasformasse anche in concreto aiuto per il prossimo. Quando sono uscita dal carcere ho pensato: voglio saperne di più, voglio tornarci e non smettevo di fare domande a chi mi ha accompagnato. Volevo sapere come vivevano, come passavano il loro tempo, cosa facevano. Ma soprattutto cosa potevo o posso fare io per loro, tenendo presente come lo fanno loro.
Quando qualcuno arriva qui per la prima volta e si scontra con questo mondo, il primo pensiero è com’è diverso, come sono distanti da noi, come sono arretrati. Poi, con il tempo, vivendo un po’ ti rendi conto che forse non sono così distanti da un mondo che alcuni di noi hanno sentito solamente nei racconti dei nostri nonni. Io mi sento fortunata perché è vero che non ho dovuto vivere dei tempi in cui c’erano ristrettezze economiche o grosse difficoltà, però sono anche fortunata perché vedendole qui, posso apprezzare di più quello che ho e quello che qualcun altro ha fatto per me affinché io potessi vivere in un modo migliore.  

domenica 5 febbraio 2017

Kenya: non è giustizia

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Più passo il tempo con i ragazzi e le ragazze del compound carcerario di Kamiti, più sento le notizie di tutto il male che c'è nel mondo,  più mi rendo conto di quanto ci sia bisogno di divulgare un pensiero diverso sui carnefici.

Le parole di Carlo Maria Martini che ho trovato nel libro "NON E' GIUSTIZIA"  sono più attuali e necessarie che mai:

La preoccupazione per la tutela della società non è per nulla in contrasto con il rispetto e la promozione della dignità del condannato. Né va dimenticato che, in termini di prevenzione generale, risulta più produttiva una politica criminale tesa a investire sulle capacità dell'uomo di tornare a scegliere il bene, che non una politica fondata sul solo fattore della forza e della deterrenza. Va ripensato e verificato il desiderio di giustizia che trabocca dentro ciascuno di noi quando siamo offesi e feriti o quando vediamo il nostro prossimo aggredito e ucciso.

E' necessario infatti vigilare perchè il desiderio di giustizia non si trasformi in vendetta. Una pena lunga inflitta ai colpevoli o un'esecuzione capitale può soddisfare l'odio che si scatena nel cuore, ma non genera riconciliazione, amore e vita. Se noi fossimo tuttavia davvero convinti di questi principi ci comporteremmo come ci regoliamo con il nostro corpo: un braccio che si rompe non lo amputiamo subito, un occhio ammalato non ce lo caviamo, un cuore infartuato non ce lo strappiamo, un fegato ingrossato non lo tiriamo fuori. Al contrario ci preoccupiamo di salvare qualsiasi organo. Credo quindi che nella comunità sia necessario riscoprire ogni giorno le motivazioni dinamiche che ci convincono che l'uomo vale, che l'uomo è educabile, che l'uomo può essere salvato e, quando fosse colpevole, resta pur sempre soggetto primario, come uomo, di ogni società. L'uomo non è bestia da domare, bersaglio da colpire, delinquente da condannare, nemico da sconfiggere, mostro da abbattere, parassita da uccidere; è persona da stimare anche quando non ci stima, da comprendere anche se ha la testa dura, da valorizzare anche se ci disprezza, da responsabilizzare anche se appare incapace, da amare anche se ci odia. Tutto questo comporta un cammino verso la crescita di umanizzazione, un cammino lento e difficile.


Un caro abbraccio
Giulia

venerdì 3 febbraio 2017

Ai confini della realtà

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Lo dico subito: il direttore del Centro di Subotica e il personale che abbiamo incontrato oggi sono stati molto disponibili e hanno risposto alle nostre domande per oltre un'ora e mezza.

Ci forniscono dati aggiornati degli ospiti, ci spiegano come funziona il protocollo delle liste di attesa per attraversare il confine serbo-ungherese e non nascondono fatiche e preoccupazioni.

E la violazione dei diritti umani della polizia ungherese.

Raccolgono storie e ferite, non metaforiche, da uomini,  donne e bambini respinti dopo essere entrati in Unione europea.

Ce lo dicono senza ipocrisia: "uno schiaffo ci può anche stare. Ma non è tollerabile che, avvistato un migrante,  vengano lasciati liberi i cani oppure che si bagnino completamente con l'acqua."
Non è raro che il piccolo ambulatorio del Centro curi casi di congelamento.

No, non è tollerabile.

Così come è incomprensibile che le famiglie vengano deliberatamente spezzate.
Sì, perché oggi la regola ungherese consente il passaggio di 10 richiedenti asilo al giorno (pochi mesi fa ne passavano 60, poi 30) ma da due confini diversi (5+5).


In questi giorni abbiamo incontrato nuclei famigliari numerosi: come faranno?
Chi sceglieranno di lasciare indietro? 
Questo è un campo piccolo ma su 103 ospiti 34 sono minori e 16 sono non accompagnati.

L'IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) è autorizzata ad accompagnare a Subotica i migranti che sono accolti in altri Centri ma non possono accompagnare al confine chi finalmente ha acquisito il diritto di sconfinare.
I due punti di uscita si trovano rispettivamente a 10 e a 30 km di distanza.
O ci vai a piedi oppure paghi un taxista.

Inoltre i migranti possono iniziare le pratiche per l'ingresso in Ungheria la mattina presto ma sono obbligati a presentarsi la sera prima, pena il respingimento.  Significa rimanere una notte intera all'aperto.

Il direttore conclude l'incontro dicendo:
"Se l'UE decide di chiudere definitivamente i confini si passerà da una crisi migratoria a una catastrofe migratoria".

Torniamo a casa ottimisti?


Sergio Malacrida

giovedì 2 febbraio 2017

Un unico bisogno

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Un altro turno della mensa mobile è finito. Stanche ma soddisfatte del servizio ci accingiamo a fare un po’ di ordine sul camioncino. Ad un tratto si avvicina una donna anziana. Ancora cariche della frenesia dell’attività, ci affrettiamo senza indugio a preparare una porzione per la signora, ma lei stupita e visibilmente un po’ offesa ci ferma. Nella precipitosità non abbiamo prestato molta attenzione a chi avevamo di fronte. Osservandola mi accorgo che si tratta di una signora molto distinta e ben vestita, che ipotizzo si sia risentita del nostro scambiarla per una beneficiaria. Mentre faccio queste considerazioni tra me e me, la signora si rivolge a Victor, il responsabile della mensa nonché autista del camioncino. La flebile speranza di comprendere qualcosa del dialogo svanisce quando mi accorgo che stanno parlando in russo.

Terminato lo scambio con la signora, Victor ci invita a risalire a bordo per tornare a Diaconia. Appena salita sul furgoncino sto per domandare a Victor della conversazione quando lui mi anticipa “Sapete cosa mi ha chiesto la signora? Avendo letto sul furgoncino la scritta – Mitropolia Basarabiei-  indicante la nostra appartenenza alla Chiesa ortodossa romena, mi ha domandato perché distribuiamo pasti ad anziani che sono per la maggior parte russi. Io ho risposto che non scegliamo i beneficiari e lei mi ha replicato suggerendomi di lasciar perdere questi anziani russi, perché ci pensa Dodon a loro.” Igor Dodon è il nuovo presidente moldavo dichiaratamente filorusso.

Questo semplice episodio mi ha fatto riflettere molto perché è fortemente indicativo della situazione attuale della Moldova. La mia quotidianità è costellata da fatti come questo che fanno riemergere continuamente la profonda spaccatura di questo popolo, le cui le tormentate vicende storiche hanno privato di un’identità unicamente riconosciuta. Mi scoraggia constatare che nemmeno la condivisione della medesima situazione problematica come la povertà materiale, che non risparmia nessuno (russo o romeno che sia), sembra sanare questa frattura così radicata. La mia speranza è che questa avversione sia pian piano scardinata dall'emergere e dal riconoscere ciò che in fondo ci unisce, lo stesso bisogno, la cui urgenza sproni a una collaborazione nel tentare di darne risposta.






Mi sono sentito molto felice

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Adasevci, Sid, Principovac.

Silvia mi sgrida quando sbaglio a pronunciare dignitosamente nomi, parole, città in una lingua che non mi appartiene. 

Figurati quante volte B., giovane iraniano, ha provato a dirmi come si chiama.
A un certo punto mi chiede di aspettarlo un attimo: vuole farmi vedere un quaderno che conserva nel suo posto letto a Principovac  (ex ospedale psichiatrico pediatrico abbandonato per mancanza di fondi, ora centro di accoglienza al confine con la Croazia).


È un déjà vu: lo scorso anno avevo conosciuto Said, di Kabul.
Anche B. sta imparando l'italiano da autodidatta perché c'è qualcuno che lo aspetta a Pisa. 


Ma a differenza di Said, B. non è un transitante.  Lui è in lista di attesa per poter varcare legalmente il confine con l'Ungheria. 
Faccio finta di non sapere quanto tempo dovrà attendere. 

Se tutto va bene, se l'Europa nel frattempo non si dissolve, se riuscirà a non farsi prendere dallo sconforto,  se uscirà il numero giusto sulla ruota di Principovac, forse, fra un paio d'anni riuscirà a vedere la torre pendente.
Prima passano le donne con i bimbi ammalati,  poi gli ammalati, poi i nuclei famigliari, alla fine gli uomini soli.

Massimo 10 al giorno.

Ad Adasevci,  altro centro ufficiale, ex autogrill abbandonato,  vivono oltre 1000 persone (1/3 minori). Un papà afgano, che attende il suo turno da 7 mesi insieme al suo nucleo famigliare composto da 9 persone, mi dice: "Hallo. Cold."
Nel frattempo,  nel nuovo autogrill alle spalle del centro, da un finestrino di un auto ripartita dopo il pit stop, un gentile signore regala una merendina a un bimbo che cammina nella neve.



Ma di che numeri stiamo parlando?

I dati ufficiali dell'UNHCR dicono 6346. Ma nei centri c'è posto solo per 6000. Fuori dal conto ufficiale, ce ne sono almeno altri 1000.

Chi è rimasto incastrato in Serbia, da transitante si è trasformato in (potenziale) richiedente asilo. E ora vive nei centri che lo scorso anno erano pensati per accogliere persone una giornata o poco più.


Ma non tutti fruiscono degli stessi servizi. Qualcuno mangia, qualcuno no.
Qualcuno, se vuole, può andare a scuola, altri (tutti) no.
I vestiti, forniti dalle organizzazioni, si sa, dopo un tot (misura di tempo variabile) si sporcano. E se non li puoi lavare, soprattutto d'inverno, è un problema.

Ah, le organizzazioni! Lo scorso anno, negli hotspot, era un fiorire di pettorine, cappellini, tende brandizzate.
Ora, finita l'emergenza (?), chiusa la rotta (?), sono rimasti solo adesivi e vetrofanie.

Caritas ha continuato a distribuire pasti caldi a Sid, Adesevci e Principovac: colazione, pranzo e cena per 2000 persone.
In totale oltre 220.000 pasti.



E poi abiti invernali, kit igienico-sanitari. Ha installato anche lavatrici e asciugatrici.

Un anno dopo mi sembra tutto uguale, se non peggio.

Le condizioni di vita nei centri sono pessime. Tutti vivono stipati in pochi centimetri quadrati e, non essendoci spazi comunitari, passano giornate interminabili seduti sulla propria brandina.

Domani si va verso il confine con l'Ungheria.
Chissà se riusciremo a trovare qualcuno che potrà finalmente dire ad alta voce:
"Mi sono sentito molto felice"

Sergio