giovedì 2 febbraio 2017

Mi sono sentito molto felice

Adasevci, Sid, Principovac.

Silvia mi sgrida quando sbaglio a pronunciare dignitosamente nomi, parole, città in una lingua che non mi appartiene. 

Figurati quante volte B., giovane iraniano, ha provato a dirmi come si chiama.
A un certo punto mi chiede di aspettarlo un attimo: vuole farmi vedere un quaderno che conserva nel suo posto letto a Principovac  (ex ospedale psichiatrico pediatrico abbandonato per mancanza di fondi, ora centro di accoglienza al confine con la Croazia).


È un déjà vu: lo scorso anno avevo conosciuto Said, di Kabul.
Anche B. sta imparando l'italiano da autodidatta perché c'è qualcuno che lo aspetta a Pisa. 


Ma a differenza di Said, B. non è un transitante.  Lui è in lista di attesa per poter varcare legalmente il confine con l'Ungheria. 
Faccio finta di non sapere quanto tempo dovrà attendere. 

Se tutto va bene, se l'Europa nel frattempo non si dissolve, se riuscirà a non farsi prendere dallo sconforto,  se uscirà il numero giusto sulla ruota di Principovac, forse, fra un paio d'anni riuscirà a vedere la torre pendente.
Prima passano le donne con i bimbi ammalati,  poi gli ammalati, poi i nuclei famigliari, alla fine gli uomini soli.

Massimo 10 al giorno.

Ad Adasevci,  altro centro ufficiale, ex autogrill abbandonato,  vivono oltre 1000 persone (1/3 minori). Un papà afgano, che attende il suo turno da 7 mesi insieme al suo nucleo famigliare composto da 9 persone, mi dice: "Hallo. Cold."
Nel frattempo,  nel nuovo autogrill alle spalle del centro, da un finestrino di un auto ripartita dopo il pit stop, un gentile signore regala una merendina a un bimbo che cammina nella neve.



Ma di che numeri stiamo parlando?

I dati ufficiali dell'UNHCR dicono 6346. Ma nei centri c'è posto solo per 6000. Fuori dal conto ufficiale, ce ne sono almeno altri 1000.

Chi è rimasto incastrato in Serbia, da transitante si è trasformato in (potenziale) richiedente asilo. E ora vive nei centri che lo scorso anno erano pensati per accogliere persone una giornata o poco più.


Ma non tutti fruiscono degli stessi servizi. Qualcuno mangia, qualcuno no.
Qualcuno, se vuole, può andare a scuola, altri (tutti) no.
I vestiti, forniti dalle organizzazioni, si sa, dopo un tot (misura di tempo variabile) si sporcano. E se non li puoi lavare, soprattutto d'inverno, è un problema.

Ah, le organizzazioni! Lo scorso anno, negli hotspot, era un fiorire di pettorine, cappellini, tende brandizzate.
Ora, finita l'emergenza (?), chiusa la rotta (?), sono rimasti solo adesivi e vetrofanie.

Caritas ha continuato a distribuire pasti caldi a Sid, Adesevci e Principovac: colazione, pranzo e cena per 2000 persone.
In totale oltre 220.000 pasti.



E poi abiti invernali, kit igienico-sanitari. Ha installato anche lavatrici e asciugatrici.

Un anno dopo mi sembra tutto uguale, se non peggio.

Le condizioni di vita nei centri sono pessime. Tutti vivono stipati in pochi centimetri quadrati e, non essendoci spazi comunitari, passano giornate interminabili seduti sulla propria brandina.

Domani si va verso il confine con l'Ungheria.
Chissà se riusciremo a trovare qualcuno che potrà finalmente dire ad alta voce:
"Mi sono sentito molto felice"

Sergio

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