lunedì 18 dicembre 2006

I primi calci del piccolo Mark

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Sono ormai alcuni mesi che ho la possibilità di visitare ad Istanbul le famiglie degli iracheni richiedenti asilo.

Quel giorno siamo andati presso la casa di una ragazza che ben conoscevo poiché frequentava l'attività scolastica presso Caritas ed era impegnata come animatrice nell'oratorio.


La madre qualche giorno prima mi aveva chiesto perché andassimo sempre a visitare altre famiglie e non la loro. Certo che tra circa 400 famiglie non è facile arrivare da tutti, almeno in tempi brevi... ma finalmente ci siamo decisi ad andare da Ranya.


Siamo arrivati in un piccolo appartamento di due stanze, che non aveva tanto di diverso da molti altri. L'alloggio ospitava 8 persone, tra le quali vi era anche Mark: un piccolo torello di 2 anni che andava a nascondersi tra le braccia della madre non appena provavamo a chiamarlo. Nonostante la sua timidezza iniziale, è diventato presto il centro d'attenzione per tutti e, forse comprendendo che si parlava soprattutto di lui, piano piano passando dalle braccia della madre a quelle dello zio e delle zie ha iniziato ad alzare la testa e a mostrare il suo petto.

In una famiglia che sta attraversando un momento veramente difficile, che sta vivendo in un forte stato di depressione, la vitalità di un bambino riesce sempre a strappare qualche sorriso. Così Mark, abbandonandosi a qualche sguardo esploratore, aprendo lentamente gli occhi e allargando un riso provocatorio, ha finalmente dato il via alla conquista di nuovi amici e si è liberato nell'espressione di tutta la sua vivacità di bambino.
Nella stanza di 3 metri per 3 si è messo alla ricerca della "toba", il pallone, quel fantastico strumento per giocare a calcio ancora talmente grande per lui che praticamente gli arrivava fino al ginocchio. E' così cominciato in quel mini campo, l'allenamento di un piccolo calciatore in erba, e subito la casa si è riempita di altri colori, sensazioni, e... suoni!


Non più timidezza, non più coccole protettive, ma un contatto mediato dal gioco, tanti sorrisi e qualche grida di accompagnamento. E che esplosione ad ogni goal! Non importa se le dimensioni del campo erano ben al di sotto delle regolamentari, se i giocatori non fossero super allenati e pagati, se ci fosse un cerchio di letti al posto delle tribune... ad ogni tocco della "toba" un'emozione forte raggiungeva tutti mentre il piccolo maradona si lanciava da una parte all'altra, sotto i letti, dietro la porta per ricominciare ogni volta il gioco.

Siamo andati via che ci sembrava di aver vinto un grande derby, e sicuramente abbiamo ricevuto un gran premio.


di Pietro Boni
operatore Caritas Ambrosiana/CELIM ad Istanbul

domenica 19 novembre 2006

Da Milano al Mozambico

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Non saprei dire da dove è incominciata.

Probabilmente dalla stazione Centrale di Milano, un tardo pomeriggio del maggio dell'anno scorso.

Sapevo che dom Ernesto, vescovo da qualche mese della diocesi di Pemba, a nord del Mozambico, e amico da tempo, era di ritorno da Roma e arrivava con il treno a Milano, e così inforcai la bicicletta e mi fiondai in stazione almeno per salutarlo qualche minuto.
Sicuramente non immaginavo che in quei pochi minuti, e con qualche spiazzante parola delle sue, di quelle che vanno a centrare proprio il cuore dei tuoi pensieri, mi avrebbe proposto (e convinto, lo ammetto, con una rapidità sorprendente) ad andare a vedere il "suo" Mozambico.
E così è nato il nostro viaggio: fine dell'antefatto.

In tre settimane non si vede molto, e si conosce proprio poco di un paese e della sua gente: praticamente soltanto un assaggio.
Il nostro primo impatto è stato con Maputo, la capitale, al sud del paese.
Maputo è, come tutte le grandi città e soprattutto quelle africane, luogo di contraddizioni: si passa molto in fretta dai quartieri ricchi, quelli dove risiedono i ministri e i membri del governo, dove ci sono le ambasciate, dei bei villoni circondati da un praticello degno dei migliori film americani, (tutti rigorosamente sorvegliati dalle polizie private), i palazzi, nuovissimi, delle multinazionali, costruiti nel 2000 in occasione del summit dei paesi africani; alle sterminate distese di casupole, alcune in muratura, baracche di lamiera, capanne di argilla.
Non è una periferia, non è un quartiere, non è un campo come quelli in cui ghettizziamo i rom e che denunciamo come indecenti: è una città. Non me ne ero resa bene conto, da terra, di quanto fosse immensa, ma vederla alzandosi con l'aereo è qualcosa che toglie il fiato.

Maputo è al sud del paese, settanta kilometri più in là c'è il confine con il Sudafrica. Si raggiunge in fretta: qualche anno fa è stata costruita un'autostrada, l'unica del Mozambico, che collega Maputo a Pretoria e Johannesburg; autostrada si fa per dire: è una bella strada, su cui in settanta kilometri si paga il pedaggio quattro volte. La strada è stata costruita per collegare il Sudafrica alla grande industria di alluminio, dicono la più grande d'Africa, aperta poco dopo nella periferia di Maputo, un'industria che "per qualche ragione" i sudafricani non volevano sul loro territorio, e che porta ricchezza non certo ai mozambicani.

In capitale la gente non sta bene, ma rispetto al nord, in un certo modo, si sente che la vicinanza con il Sudafrica porta qualche beneficio. Il confine, però, è lo stesso impressionante: al di là della frontiera sorgono subito belle casette, negozi, ai lati della strada giardinetti curati e campi coltivati sistematicamente, con dei buoni sistemi di irrigazione. Al di qua, il villaggio a ridosso della dogana, lungo il pendio di una collina, è un'accozzaglia di baracche e casupole, e non tutti hanno l'acqua corrente.

Ma chi ci ha accompagnato nei primi giorni a Maputo ci ha ripetuto più volte "vedrete, vedrete, a Pemba si sta peggio".
È vero.
Pemba, duemilacinquecento kilometri più a nord, è capoluogo della regione di Cabo Delgado, la più povera del paese.
Noi l'abbiamo raggiunta in aereo; in auto oggi si potrebbe, anche se, dicono, ci vogliono due giorni di viaggio. Fino a qualche anno fa, nei trent'anni di guerra prima d'indipendenza e poi civile che hanno lasciato sfinito il paese, l'unico modo per andare da una città all'altra era muoversi in aereo: facile capire che spostarsi era un lusso di pochi.

In diocesi stanno avviando un progetto per lo sviluppo sociale delle comunità della regione: tre giorni pieni, a discutere al Tavolo di lavoro, per capire da dove partire... eppure Pemba è una città in una posizione splendida, si trova sull'Oceano Indiano, sulla terza baia più grande del mondo e il suo territorio avrebbe anche diverse potenzialità: agricola, i tre quarti della terra di Cabo Delgado permetterebbe investimenti in questo senso; faunistico, è una zona in cui vivono elefanti, coccodrilli, leopardi, leoni; culturale, nella sola regione nord sono tre i grandi gruppi etnici, ognuno con una diversità di cultura e di lingua.
Eppure non basta, eppure queste caratteristiche si traducono spesso in difficoltà.

Quello che è più visibile, che colpisce al primo impatto, sono proprio i villaggi e le case: puoi percorrere kilometri senza incontrare case in muratura, nelle aldeias - i villaggi - più piccole è praticamente impossibile trovarne. L'elettricità è lusso di pochissimi che hanno un generatore, e solo nei capoluoghi di distretto. Acqua corrente neanche a parlarne, la maggior parte non ha nemmeno pozzi, si serve di piccoli fiumi che resistono anche nella stagione secca, e in alcuni casi donne e bambine compiono percorsi di ore per andare a prendere l'acqua. Il terreno permette di coltivare facilmente alberi da frutta, in particolare di papaya, arance, mango, ma l'agricoltura di sussistenza è costituita principalmente da granoturco e mapira, un tipo di grano piccolo e bianco.

"Ma educare a coltivare e mangiare frutta, cosa che attenuerebbe di molto il problema della mancanza d'acqua nell'alimentazione, è un discorso lungo da portare avanti" sostiene dom Ernesto.
Un'altra ferita aperta è quella sanitaria: in tutta la regione nord esistono solo tre farmacie, i presidi medici sono a decine di kilometri di distanza, e i farmaci comunque costano troppo.
La dissenteria qui uccide.
La tubercolosi è diffusissima.
Il Mozambico è il secondo paese africano per numero di malati di lebbra.
La malaria è all'ordine del giorno.
E poi la grande, enorme, piaga dei paesi africani, e il Mozambico è tra i paesi più colpiti: l'Aids. Non è semplice fare informazione, nelle aldeias "ne hanno sentito parlare", ma sono pochi quelli che conoscono le modalità di contagio e sanno qualcosa di questa malattia. Parlarne incontra spesso resistenze, perché vuol dire toccare argomenti tabù come i rapporti sessuali e i riti di iniziazione.
E poi il grande problema della lingua: quella ufficiale è il portoghese, retaggio di secoli di dominazione coloniale, ma solo nelle città e chi ha studiato lo sa.
Per il resto sono le lingue dei gruppi etnici quelle utilizzate; nella sola regione nord, per fare un esempio, sono due diverse. Il problema è sociale, sicuramente.
Ma, dal lato umano, la capacità di comunicare al di là della lingua, di accogliere, di rispettare l'altro, di vivere con profonda serenità di questa gente la capisci anche se non parli macua.

Marta Zanella
novembre 2006

mercoledì 8 novembre 2006

Prime impressioni dal Nicaragua

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Sul bimotore che ci porta da San José a Managua abbiamo un sussulto quando pochi secondi dopo il decollo i due motori, rigorosamente ad elica, sembrano fermarsi per un attimo, e ancora di più ci preoccupiamo quando il comandante annuncia alla trentina di passeggeri accaldati che stiamo per passare una turbolenza, che effettivamente ci farà trascorrere momenti indimenticabili nei cieli tra Costa Rica e Nicaragua.

Pare che quasi a volerci far abituare al clima umido e soffocante che si respira nella capitale nicaraguense, ci abbiano dato l'unico aereo di linea al mondo in cui l'aria condizionata non funziona!

Mi addormento, sono troppo stanco dopo quasi venti ore di volo, e mi risveglio con il nostro prezioso autobus con le ali che rimbalza come una pallina da ping-pong sulla pista di atterraggio... meglio rimbalzare che schiantarsi al suolo, no?
Siamo finalmente arrivati; quello che ci aspetta è la caotica capitale, Managua, sonnecchiante appena il sole lascia i suoi cieli e piena di traffico nelle calde e umide giornate di quello che qui chiamano inverno.
Affacciata sul grande lago potrebbe essere un gioiello, ma come subito ti dicono e come subito ti accorgi, Managua non è una città concepita per camminare. I suoi vialoni con benzinai ad ogni angolo, grossi mezzi per il trasporto delle merci come nei film americani, autobus ricolmi in ogni lato, tutte le case ad un unico piano, niente che ricordi una storia che la potrebbe identificare, darle un'anima, darle la parvenza di una città vissuta da esseri umani invece che da macchine.

Managua è stata completamente distrutta nel terremoto del '72, e dopodichè, completamente ricostruita. Ironia della sorte uno dei pochi edifici che è rimasto in piedi, solido come una roccia mentre la città cadeva come un castello di carte, è quello su cui si trovava al momento del sisma il sanguinario dittatore Somoza insieme ai suoi galoppini. Adesso l'edificio ospita uno dei più lussuosi hotel capitolini: come prima il popolo nicaraguense era tenuto sotto scacco da una becera ed arrogante oligarchia con a capo il suo imperatore, adesso è tenuto in scacco dal dio Dollaro e dalle sue concubine, le politiche neo-liberiste.

Il tessuto sociale del Nicaragua vede un 80% della popolazione vivere in condizione di povertà, il restante 20%, quello che possiede quasi l'80% delle risorse del paese, vive nella ricchezza più assoluta.
Sembra di tornare indietro nel tempo, quando i nobili vivevano nei loro castelli e i servi della gleba coltivavano le loro terre.
Adesso i servi della gleba lavorano nelle fabbriche dei ricchi, quelle che qui chiamano "zonas francas", e in Messico "maquiladoras". Luoghi dove il diritto non esiste, dove se arrivi in ritardo di un minuto ti decurtano una intera giornata di lavoro.
Luoghi che sorgono ai lati dei quartieri più poveri per trovare facilmente mano d'opera a basso costo.
Luoghi dove non esistono controlli sanitari a favore dei lavoratori, dove se respiri dei gas velenosi non puoi fare causa al datore di lavoro.
Luoghi dove i proprietari non pagano le tasse perchè per legge i primi dieci anni dall'installazione dell'impianto sono gratuiti.
Luoghi dove se qualcuno osa lamentarsi viene licenziato.

Il mio amico Felix, che lavora nel centro di "Redes de Solidaridad" in cui presto servizio, un giorno mi ha detto che "é vero che sono posti in cui i lavoratori vengono sfruttati, ma tutta la gente che vive qui a Nueva Vida (quartiere periferico dove sorge il centro e dove sta nascendo una nuova "zona franca", ndr) e che passa le sue giornate a far niente e senza sapere come mantenere la propria famiglia, almeno potrà avere un salario".
Questo è vero, ho pensato... ma allora è questa l'idea di progresso che esportiamo in tutto il mondo con le nostre imprese e la nostra tecnologia?
Si, perchè le industrie che si installano qui non confezionano abiti che saranno vestiti dai bambini di Nueva Vida, sono abiti che saranno vestiti dai bambini, donne ed uomini europei, statunitensi, giapponesi. Abiti che ad unità saranno venduti ad un prezzo che potrà equivalere grosso modo al salario mensile di un operaio che lavora qui.
È così che queste persone diventano i servi della gleba che lavorano per noi.

Vedere la povertà è sconvolgente, ma mai quanto viverla.
O meglio...
... forse quando la vivi è paradossalmente meno dura di quando la vedi e sei abituato a vivere con un livello minimo che nel "non avere nulla" può corrispondere al massimo.

Nueva Vida è un insediamento che si è formato dopo l'uragano Mitch, che ha portato morte e distruzione in varie parti del paese.
Le popolazioni che vivevano sulla costa e che sono state tra le più colpite, hanno perso tutto e sono arrivate qui. Questo è un fenomeno tipico: la migrazione verso le città in caso di disastri o anche solo per cercare fortuna o sopravvivenza in condizione di povertà estrema, è una pratica ormai assodata e ovvia.
Le Nazioni Unite hanno annunciato all'inizio di quest'anno che la popolazione urbana per la prima volta nella storia dell'umanità, ha superato quella campestre.
La povertà qui a Nueva Vida non è solo materiale.
La povertà è anche fatta di madri che a 34 anni hanno nove figli da almeno cinque uomini differenti, da bambini abbandonati che per sopravvivere passano le loro giornate nella vicina discarica, da uomini che pur avendo un figlio malato invece di usare i soldi per curarlo, li usano per ubriacarsi.
La povertà è fatta di ignoranza e di mancanza di educazione.
È fatta di superstizione e di poca fiducia nella medicina e nelle istituzioni.
È fatta di mancanza di interesse verso le persone che la vivono, di indifferenza.

È facile per un ragazzo di Nueva Vida entrare in una pandilla (banda giovanile), cominciare a tirare la colla, rubare nelle case, tanto altro futuro non c'è.
Non esistono sogni, nessuno pensa ad un futuro migliore che lo possa portare fuori da questo inferno.
Una delle cose che più ti lascia attonito è proprio questo; tutti noi abbiamo progetti e cerchiamo chi più chi meno di costruire qualcosa che possa dare un senso alle nostre vite.
Qui è molto difficile e sopratutto i giovani non hanno speranze, progetti, non hanno mai visto e non si immaginano una vita fuori da qui e non si immaginano un Nueva Vida diverso.
Qui bisogna lottare anche per sognare.

In tutto questo il centro di Redes de Solidaridad appare come una piccola isola felice dove qualcosa si può e si vuole cambiare. Quando entri al mattino e vedi le persone che iniziano a lavorare e i bimbi che vanno a scuola e i ragazzi che lasciano il barrio per venire qui ad apprendere un mestiere e cercare finalmente di avere dei sogni e degli obiettivi, almeno un po' di speranza ti torna.
È un seme che si inoltra nei solchi della terra e che non si sa se darà vita ad un albero o se marcirà travolto dalle torrenziali piogge tropicali. Un lavoro lento e duro in cui qualche persona crede; non certo i politicanti locali occupati ad accaparrarsi qualche peso in più, ma delle persone che credono in questo popolo che storicamente ha dato prova di grande unità e potenza, ma che negli ultimi anni stanco della guerra e su cui si giocano interessi internazionali enormi, ha lasciato il suo destino in mano ad altri.

Glauco Sponza

sabato 30 settembre 2006

Da un seme un albero

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Per raggiungere il villaggio di Anna Nagar, nell’isola di South Andaman, bisogna arrampicarsi su una collina immersa nella vegetazione, in tutto il suo splendore nella stagione monsonica. La strada carrozzabile non ci arriva, quindi seguiamo il sentiero che sale tra case di bambù seminascoste dai cespugli e pendii dove alberi enormi sembrano sfidare le leggi fisiche e i terremoti frequenti. Raggiungiamo una radura, dove una lunga tettoia di lamiera e un minuscolo negozietto ci dicono che siamo arrivati.
Lentamente si fanno avanti le donne ad accoglierci. Dopo  averci offerto acqua da bere e per lavarci le mani, secondo il loro rituale di benvenuto, incontriamo il gruppo al completo.
Anna, la portavoce, è una signora sulla cinquantina, vedova da diversi anni, che però, dati i costumi più “morbidi” delle isole rispetto al continente, non porta il sari bianco né ha l’aria dimessa. Al contrario, è adorna dei consueti gioielli  e porta un sari dai colori vivaci.
Ci racconta di come, nel dicembre 2005, dieci donne del suo villaggio si siano unite in un gruppo di risparmio e abbiano iniziato a mettere da parte 100 rupie (circa due euro) al mese ciascuna, per aprire un piccolo negozio nella “piazza” del villaggio, accanto alla chiesa.
Tutto il villaggio, a cominciare dai loro mariti, è contento e orgoglioso di loro. Il negozietto, pochi pali di legno con il tetto di lamiera, gentilmente addossato ad una casa di bambù, vende tutti quei piccoli generi di consumo che non si troverebbero se non ad una buona mezz’ora di cammino da qui, o addirittura in città. Una bella comodità:  non è piu’ necessario fare tanta strada per comprare lo shampoo o anche solo una scatola di fiammiferi! La bottega  è diventata anche il fulcro della vita sociale del villaggio, specialmente la domenica mattina, dopo la messa, ci si ferma qui per un tè e un dolcetto in compagnia.
Anna e le altre donne sono contente, ma hanno anche i piedi per terra: dal ricavato di ogni giorno mettono rigorosamente da parte dieci rupie, per poter avere una piccola somma sempre disponibile. E sono anche molto caute: per conservare i loro risparmi, hanno scelto di non pagare nessuno per procurarsi i pali necessari a sostenere la struttura del negozio, ma sono andate loro stesse nella foresta a tagliarli. Allo stesso modo, quando scendono a valle per procurarsi gli articoli da vendere, li portano loro stesse sulle spalle, per risparmiare sul portatore. Per la gestione si sono organizzate in turni, e nelle riunioni settimanali del gruppo discutono eventuali nuovi acquisti, responsabilità, problemi. La segretaria annota tutto sul diario. Se gli affari andranno bene forse potranno costruire un negozio vero dalla struttura più solida e soprattutto che si possa chiudere con un lucchetto.
Quando chiediamo loro cos’è cambiato nella loro vita da quando c’è il gruppo, rispondono quasi in coro: «Abbiamo visto di saper fare cose che mai avremmo pensato. E ci sentiamo più forti, perché finalmente sentiamo di poter contribuire anche noi ad aiutare le nostre famiglie, invece di starcene sedute a casa!». Questa frase colpisce come uno schiaffo le mie orecchie. Ma come? Che significa? Da quando sono qui non ho mai visto, neppure una volta, una sola donna seduta a non far nulla. Le donne sono sempre all’opera: se non è per seguire i bambini è per pulire, cucinare, lavare, raccogliere la legna, prendere l’acqua e se stanno sedute a chiacchierare, nel frattempo, lavorano: intrecciano corde, fiori, frasche di cocco, di bambù.  Mai le ho viste “con le mani in mano”. Non è un contributo alla famiglia, questo? Non è importante?
Quando lo faccio notare, una ragazza mi risponde pacatamente: «Didi, sorella, queste cose sono scontate, sono i nostri doveri quotidiani, fanno parte dell’essere donna. Ma nessuno ci dice mai grazie per questo. Ora invece i nostri mariti sono orgogliosi di noi, i nostri bambini sono contenti, perchè con i soldi che guadagniamo possiamo comprare loro i quaderni, l’uniforme, la merenda per la scuola e sono soldi guadagnati da noi, non li abbiamo chiesti a nessuno. Questo fa sentire orgogliose anche noi».
Salutiamo le donne e scendiamo il pendio sulla via di casa. Guardandoci indietro, riusciamo ancora a scorgere quei quattro leggeri pali di legno e la tettoia di lamiera del negozietto che luccica al sole. E mi viene in mente che forse, davvero, il seme più piccolo, senza fare alcun rumore, senza che nessuno lo veda, con il tempo può far nascere un grande albero. Come questi, grandi e maestosi, che costeggiano il sentiero verso la città.
 
Elisa Rossignoli, coordinatrice Cantieri della Solidarietà 2006

Isole Andamane, India

Il mio primo campo

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L'estate scorsa ho partecipato ai Cantieri della solidarietà della Caritas, destinazione Bulgaria, nel paese di Malchika, vicino al confine con la Romania. Il gruppo era un po' particolare: 8 ragazze italiane e 7 ragazzi bulgari ospitati da Padre Remo, missionario passionista. Ogni mattina andavamo al villaggio vicino e ci suddividevamo in tre gruppi: chi andava a visitare gli anziani, chi faceva animazione con i bambini, chi si impegnava in lavori manuali per ristrutturare la chiesa.
 

La prima domanda che sorge spontanea è: perché? Perché decidere di partire per i Cantieri dopo il fatidico esame di maturità? Non è facile rispondere: è un sogno che coltivo da tantissimo tempo, un'attrazione irresistibile verso questo tipo di esperienze che spesso mi era capitato di sentire attraverso i racconti di giovani entusiasti. Forse sono stati complici la mia passione per i viaggi o la curiosità di conoscere altre culture, ma più di tutto penso che la "molla" decisiva sia stato il desiderio di voler portare fuori dalle mura della mia parrocchia, della mia città, della mia nazione quell'esperienza di servizio e in particolare di animazione con i bambini che ho via via consolidato in oratorio.
E così sono arrivati i fatidici 18 anni, il passaporto, il consenso più o meno convinto di mamma e papà, e il sogno è diventato realtà. Ricordo bene quel pomeriggio, mercoledì 5 aprile, quando Sergio mi ha detto: "Parti per la Bulgaria!". Sono passati in fretta i mesi prima della partenza, con tutti i dubbi che mi assalivano: come mi troverò?come ci capiremo? sarò capace? E ancora più velocemente sono passate le due settimane di Cantiere.
E' difficile raccontare le cose ho vissuto, perché è stato più che altro un sovrapporsi di emozioni intensissime; provo a farlo servendomi di tre parole chiave: accoglienza, incontro, reciprocità.

Accoglienza: è in assoluto la prima emozione che ho provato quando sono atterrata sul suolo bulgaro, accoglienza a braccia aperte da parte di Padre Remo, dei ragazzi che avrebbero vissuto con noi, degli abitanti di Tranciviska, il villaggio dove svolgevamo il nostro servizio, degli anziani che andavamo a trovare a casa. In Bulgaria posso dire di essermi davvero sentita a casa. Certo, mi capitava di pensare alla famiglia o agli amici, ma non ho mai avvertito quella sensazione di nostalgia tipica di quando non ti senti totalmente a tuo agio, di quando ti senti straniero.


Incontro: il Cantiere della solidarietà è un'esperienza che si vive proprio "sulla strada", non come turisti che visitano un luogo ma come operai che in quella realtà si sporcano le mani. Inevitabile, quindi, l'emozione dell'incontro con tante, tantissime persone che di fronte a noi aprivano la porta di casa e la porta del cuore, condizione indispensabile per riuscire a capirsi al di là della lingua. Ed è così che li incontravi: nella loro sconcertante semplicità e nel loro straordinario desiderio di stringere relazioni.

Reciprocità: sembra un'affermazione quasi assurda: se andiamo a lavorare in un Cantiere di solidarietà, non siamo forse noi a dare qualcosa? E invece no, ed è questo che è stato forse l'aspetto più sconcertante: non sono in grado di calcolare se abbiamo dato di più noi a loro o loro a noi. E' una bilancia in perfetto equilibrio: da una parte c'è il nostro tempo, la nostra energia, il nostro lavoro, ma dall'altra, in misura uguale, ci sono gratitudine, affetto e lezioni di semplicità e di essenzialità, perché i poveri e gli ammalati che abbiamo incontrato sono davvero i migliori maestri di queste virtù.
 
Tutto questo è stato per me anche una profonda esperienza sul piano della fede. Lo spirito di servizio che animava ogni nostra giornata, il tempo totalmente dedicato agli altri, l'incontro con tante persone, la vita di gruppo sono tutti elementi che avevano un forte "sapore" di Vangelo. Il Cantiere è un luogo privilegiato per vivere questa dimensione perché sei lontano dai doveri di tutti i giorni, dalla quotidianità spesso un po' alienante di casa, è una totale immersione nel servizio, è un continuo spendere tempo per gli altri. Ma non solo l'aspetto "concreto" della fede, e cioé il servizio, è stato valorizzato; anche la preghiera ha assunto una forma e un contenuto particolare. Ogni sera ci riunivamo insieme, italiani e bulgari, e due di noi proponevano una lettura e una preghiera su cui riflettere. Era il momento della condivisione delle gioie e delle difficoltà della giornata, delle esperienze fatte e di quelle mancate, quasi a voler offrire tutto questo al Signore.
 
Un brano in particolare mi ha aiutato a comprendere la dimensione di un Incontro con la "I", un brano che mi ha accompagnato fin dal momento della partenza: "…e' Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un'ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società rendendola più umana e fraterna…cari giovani del secolo che inizia, dicendo sì a Cristo, voi dite sì a ogni vostro più nobile ideale…non abbiate paura egli vi guiderà, vi darà la forza di seguirlo ogni giorno e in ogni situazione."(Giovanni Paolo II, Tor Vergata agosto 2000).

Concludo con un'ultima immagine: è quella dell'impronta. Per me l'esperienza del Cantiere ha significato questo: un'impronta indelebile che mi suscita ricordi bellissimi e che ogni volta mi dona quello slancio entusiasta tipico di quanto si torna da un'esperienza straordinaria. E' un'impronta che mi aiutato a orientare gli studi, è un impronta che mi ha convinto a voler ripetere questa meravigliosa avventura. Penso che tutto ciò che vi ho raccontato si possa in realtà racchiudere in questa frase che ho sentito un giorno durante la testimonianza di un missionario: "portare la gioia agli altri ti fa gustare il vero sapore della vita". L''esperienza dei cantieri ha reso reale proprio questo.

Miriam Ambrosini
volontaria nei Cantieri della Solidarietà 2006
Malchika - Bulgaria

lunedì 18 settembre 2006

Nuove esperienze

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Ora ho scoperto davvero cosa significhi imparare. Senza che ce ne rendiamo conto, ogni giorno siamo circondati da situazioni e da stimoli che in qualche modo riescono ad influire sul nostro modo di essere, che ci cambiano, che ci fanno vedere le cose in maniera sempre nuova e ci fanno in tal modo crescere.

Quello che ho imparato da questo viaggio è stato capire come ascoltare. E' un po' come fare un nuovo gioco, un piccolo "esercizio" che si può fare ogni volta che si vuole in qualunque luogo. Parlo dei momenti in cui ho appreso come ci si può fermare un attimo di più a pensare, pensare a tutto ciò che ti capita nell'arco di una giornata, alle piccole cose particolari, a riflettere ed apprezzare un po' di più la meravigliosa vita che conduciamo e le possibilità che ci offre.Giocare con bambini meno fortunati di quelli che siamo abituati a incontrare, aiutare un ragazzo disabile a terminare un disegno, lavorare la terra di una persona anziana o malata, fare visita a chi non è abituato a vedere il mondo che lo circonda: sono queste le attività che mi hanno aiutato ad aprire gli occhi su molte cose.

Partire con Caritas Ambrosiana alla volta del Montenegro è stata per me un'occasione importante per fare altre cose: vedere com'è fatto un pezzettino di mondo, viaggiare, scoprire cosa significa essere un volontario e calarsi in questo importante ruolo, ma soprattutto conoscere nuove realtà che erano per me solo immagini viste alla televisione o righe lette su un giornale.

Scegliere di dare una piccolissima parte di sé stessi non è una cosa cosi difficile come spesso può sembrare. Anzi … direi che è anche divertimento, ma affrontato con uno spirito diverso, che esce dai soliti schemi della quotidianità e nel quale ognuno di noi, unico e diverso da tutti gli altri, può trovare eprovare nuove emozioni.

Massimiliano Salina
volontario nei Cantieri della Solidarietà

martedì 7 marzo 2006

Baba Velika

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Nadia e Ani si stanno vestendo per uscire. Sono le 18. "Dove andate? Tra mezz'ora c'è il gruppo giovani!". Come immaginavo vanno da baba (nonna, ndr) Velika, e il loro invito ad accompagnarle è spontaneo. Metto la giacca ed esco con loro nel buio. Ci raggiungono Vania, Venzi e suo cugino. Superiamo la scuola, un altro isolato, e poi Vania apre un cancellino. L'ho sempre visto quel cancello, dà su un piccolo prato con una casupola di terra a sinistra. Abita lì? No. Vania apre un altro cancellino ed ora sulla destra c'è una stanza illuminata da una solitaria lampadina che pende dal soffitto. Tutto il resto è scuro.

"Babo Veliko!" urla Vania mentre spinge la scassata porta d'ingresso. All'interno vedo una piccolissima stufa scalcagnata, un letto in pendenza e sul letto, sotto due coperte, due occhi azzurri. Un tavolo con un po' di pane e dei tegami in disordine, un mucchietto di pezzi di carbone, qualche ramoscello e null'altro! La stanza è tutta nera di fuliggine; dal soffitto basso, non più di 2 metri, pendono neri fili di erba, come pavimento la nuda terra. Nell'aria quell'odore pungente di chi vive per strada.

Nadia inizia a lavorare alla stufa, buttandoci dentro carbone e gli avanzi delle candele della chiesa. Le sue mani si sporcano di fuliggine nera. Baba Velika non si muove, si limita a guardarci con i suoi occhietti azzurri, vecchi ma ancora vivaci e intelligenti. Ci invita a sederci: siamo in sei e lei ha solo una sedia rotta.

Baba Velika ha 83 anni e vive in questa condizione da sei. Un figlio è morto, l'altro è ricoverato in psichiatria. Beveva un sacco e rubava la pensione alla madre; le ha persino venduto i vestiti per ricavare qualche soldo. Lei usufruisce della mensa comunale: tutti i giorni riceve colazione, pranzo e cena. Troviamo sempre dei piccoli pentolini sul tavolo. Ma come fa a mangiare da sola se non riesce a camminare?

Sappiamo che è seduta in questa posizione da almeno tre settimane, ha i piedi semiatrofizzati. Quando i ragazzi sono andati a trovarla la prima volta le hanno subito fatto un massaggio ai piedi per favorire la circolazione del sangue. Ha le dita sporche di fuliggine ed anche il viso è nero perché ogni volta che si gratta il naso si sporca sempre di più.

"Mnogo mi e studino - ho tanto freddo" dice in dialetto. Nel gesto di coprirsi di più, mostra il braccio scheletrico e raggrinzito dagli anni. Vania le offre da bere, lei succhia da una cannuccia appena due sorsi, "Stiga stiga - basta!" e accompagna le sue parole con il gesto della mano. Dice che le fa male dappertutto. Non vuole mangiare e beve pochissimo. In un tegame c'è del pesce. Vuole che lo buttiamo nella stufa. "Magari dopo ne avrai voglia", cerchiamo di convincerla. Segue attentamente ogni nostro movimento, ci chiede del don, della suora, di tutte le persone che in questi giorni sono andate a trovarla, alternandosi ogni sera per accenderle la stufa e darle da mangiare. Comincia a chiacchierare un po' di più; Ani la avvolge meglio nella coperta. Ogni volta che si tocca la testa una nuvoletta si fuliggine si disperde nell'aria.

Le ragazze cercano di farla cantare e intonano un canto tradizionale. Baba Velika conosce la canzone e accenna un movimento della mano come se tenesse il fazzoletto di chi apre la fila delle danze.
Gli occhi le brillano. Mi chiede chi sono ed inizia a chiamarmi Radka, nome bulgaro. È inutile che le dicano che sono italiana e che il mio nome è un altro. Per lei sono Radke! E mi chiama così quando vuole un po' più di carbone nella stufa. Ormai è tardi. Dobbiamo correre al gruppo. La salutiamo, lei vorrebbe che ci fermassimo un altro po'. Le assicuriamo che torneremo il giorno dopo. "Leka nosht!".

Come baba Velika, così vivono in Bulgaria tanti altri anziani: soli, abbandonati dai figli, in estrema miseria. Il problema principale è che le pensioni sono bassissime, circa 40 euro mensili, e a volte anche meno. La gente qui riesce a sopravvivere perché lavora la terra: la primavera e l'estate sono dedicate a coltivare le verdure da mettere in conserva per l'inverno, la stagione in cui tutto si ferma.
Se c'è tanta neve o le temperature sono molto rigide la gente non va al lavoro e le scuole chiudono per la mancanza di riscaldamento. Come in chiesa, dove trovi il ghiaccio nell'acquasantiera e quando preghi o canti la tua visione è offuscata per qualche secondo dal tuo stesso respiro che esce sotto forma di una spessa nuvoletta.

Ti colpisce il fatto che quando racconti la storia di baba Velika a qualche adulto di Sekirovo, ti accorgi che tutti la conoscono, tutti sanno come vive. Ma perché nessuno interviene? Il servizio sociale qui non esiste, tanto che nessuno sa quale sia la funzione di un assistente sociale...

Il mattino successivo io e Ani andiamo verso le otto e mezza da Baba Velika per accendere la stufa. Fa freddo. Il ghiaccio scricchiola sotto i nostri passi veloci. Apriamo un cancellino e poi l'altro; una voce maschile proviene dall'interno della casa. In effetti, baba Velika parla sempre di un certo Angel che va da lei al mattino. Un giovane uomo sta trafficando alla stufa, ha portato del pesce e della legna. Come ci vede, dice che tornerà più tardi e se ne va. Baba Velika è nella stessa posizione in cui l'abbiamo lasciata il giorno prima, solo il viso più nero di fuliggine. Entrambe ci togliamo la giacca per avere più libertà di movimento. Ani si dedica alla stufa, io chiacchiero un po' con la baba. Dice che le fa male il cuore e che è affamata. Metto il pentolino con un po' di zuppa sulla stufa, le offro dell'acqua. Rifiuta. Stamattina ha voglia di chiacchierare, fa un sacco di domande. Purtroppo non riesco a capire tutto perché parla solo in dialetto. Le faccio assaggiare la zuppa: studina! È fredda! Davvero questa stufa non dà calore. Cerco di avvolgerla il più possibile nelle due coperte che ha addosso. I due occhietti azzurri mi fissano. Chissà se mi chiamerà ancora Radka! Spero di no, non mi piace. Le offro del pesce. "Da!". Afferro al volo il sì, e inizio a pulire con le mani il pezzo di pesce e ad imboccarla a piccoli pezzi. Mangia con gusto, non tanto, ma sempre più di ieri! La faccio anche bere. Non vuole, ma se insisto acconsente. La zuppa è sempre fredda. La posiziono in tutti i modi sulla stufa, ma proprio non vuole scaldarsi. Chiedo se vuole del pane. Sì, ma me lo fa sbriciolare nella zuppa, come fanno tutti i bulgari quando mangiano la "manjya". Ne metto poco, sapendo che non riesce a mangiare più di tanto. Un vapore, finalmente la zuppa fuma! A piccole cucchiaiate la imbocco, dandole soprattutto il pane. Si stufa quasi subito di mangiare, "Haide, ima hlyab!" le dico per incoraggiarla un po'. Accetta di mangiare il pane che le offro e vuole altro pesce. Le pulisco le labbra con un fazzoletto di carta, diventa nero di fuliggine. Mangia come un uccellino, ma rispetto a ieri si è fatta una mangiata!! Ani continua ad aggiungere carbone, si consuma velocemente. Ho i piedi che sono due pezzi di ghiaccio, posso immaginarmi il freddo che ha lei. Ogni tanto baba Velika sussurra "Occicciu!!" che è l'esclamazione che i bulgari usano per esprimere il freddo che provano. È di nuovo tardi, dobbiamo andare. Baba Velika vuole che ci fermiamo ancora, ma di nuovo le assicuriamo che nel pomeriggio altri ragazzi verranno a trovarla per parlare un po' con lei e per ravvivarle la stufa che ora crepita allegramente. Usciamo, Ani con le mani sporche di carbone, le mie che puzzano di pesce. Camminiamo a braccetto, infreddolite ma contente, il ghiaccio che scricchiola sotto i nostri piedi.

Per quasi tre settimane, tutti i giorni, con i giovani della parrocchia abbiamo visitato baba Velika. Siamo riusciti anche a convincerla a lasciarsi lavare, un dottore l'ha visitata gratuitamente dicendo che era sana con un pesce. Evidentemente stava meglio, i massaggi ai piedi hanno fatto sì che potesse camminare di nuovo da sola, anche se a noi non voleva farlo vedere. Ormai tutti ci eravamo affezionati a lei ed anche ai suoi molteplici capricci… Ma una fredda mattina di febbraio, quando di notte la temperatura è scesa a -18°C, baba Velika si è spenta, da sola, in silenzio. Una vicina se ne è accorta e ce l'ha comunicato. L'abbiamo accompagnata al camposanto, poche persone le hanno dato l'ultimo saluto, pochi fiori intorno alla sua magra figura. Una ragazza mi si avvicina e mi dice: "Se non fosse stato per lei, non avrei mai saputo che delle persone vivessero così male qui, nel mio paese…"

 
di Grazia Bizzotto,
volontaria in servizio civile all'estero Rakovsky, 7 marzo 2006

martedì 28 febbraio 2006

Olor a Nicaragua

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Odori nicaraguensi

Alle cinque e un quarto sono già sveglia.

Dalla finestra entra la brezza mattutina che porta con sè il tipico profumo dell'ammorbidente del quale sono intrisi i panni di mezza Managua.

Entro nell'autobus e percorro la solita strada di tutti i giorni, ancora ammantata dal torpore della notte. Fioche luci illuminano già molte case dove mani indaffarate arrmeggiano sui fornelli ponendo a friggere il riso, dopo averlo precedentemente risciacquato.

Dal finestrino entrano ed escono voci ed aromi che si fondono insieme offrendoti la possibilità di ubicarti nel cammino pur matenendo gli occhi chiusi.

La pulperia "Los hermanitos" (piccola drogheria famigliare, ndr) già gremita di gente smercia il pan dolce e le bevande, il baretto all'angolo tutte le mattine cuoce il maduro (banana tipo platano) che mi piace tanto e mi da il benvenuto in Ciudad Sandino con quel peculiare odore agrodolce, ormai inconfondibile per il mio olfatto.

Inspiro profondamente ed è un po' come se degustassi il suo sapore e la consistenza così tipica del maduro fritto.

Quando arrivo io al centro scolastico di Redes, braccia esperte sono già indaffarate da un'ora per offrire a trecento piccole bocche quello che a volte è l'unico pasto completo del giorno.

Un acquazzone tropicale improvvisamente disseta la terra che puntuale ricambia sprigionando vapori d'humus e muffe, che il sole pensa bene di irradiare affinchè rimangano più a lungo sospesi nell'aria immobile.

Le mie orme segnano la sabbia umida fino alla fermata del bus che mi riaccompagnerà a casa sgattaiolando per le vie della città, sostando di quando in quando per permettere a venditori ambulanti trafelati e accaldati di salire ognuno con il proprio variopinto carico di mercanzie. La canasta di donuts (ciambelle) emana il classico profumo delle vacanze estive di tanti anni fa, quando la nonna veniva a svegliarmi con le frittelle appena sfornate, avvolte nel tipico sacchetto marrone del pane, unto d'olio.

La brezza pomeridiana che entra dai finestrini porta con sè l'odore dell'olio bruciato che esce inequivocabilmente dal radiatore dell'autobus, ma che non scompone nessuno ne desta preoccupazioni.

Al callejon è la mia fermata.

Un breve tragitto a piedi in cui la mente ricapitola velocemente la giornata, per assaporare dopo pochi minuti il profumo di casa, profumo di rifugio, di calore, dei mie capelli umidi sul cuscino che accompagnano il calar del sole e preconizzano l'arrivo di un nuovo giorno.
 
di Gloria Perin
volontaria in Servizio Civile in Nicaragua

martedì 14 febbraio 2006

Cosa mi fa sorridere della Romania

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"Chiara, avremmo piacere ad averti in Romania...", così mi ha detto Maurizio quando mi ha chiamata dopo le selezioni per il servizio civile. Lì per lì mi sono detta:

"...Romania....vicino alla Bulgaria?...meglio che guardi sull'atlante...Romania D5....bhè ha la forma di un pesce...".


Ecco tutto quello che sapevo quando sono partita per questa terra così vicina e così lontana a noi.

La prima cosa che mi ha colpito di Bucarest (perchè è lì che svolgo il mio servizio!!) sono stati i contrasti: la frenesia di case e palazzi in stili diversi, lusso e povertà, tutto rimescolato come se la città si fosse edificata precipitosamente. E ora, anche se di sensazione ne ho tante, questa è quella più radicata in me, quella che dovunque vada non mi abbandona mai.

Ieri mi hanno chiesto cosa mi facesse sorridere della Romania. Mi si è stagliata davanti agli occhi un'immagine dei primi giorni: due "tzigani" che con il loro carretto, trainato da un asino, girano per le strade di Bucarest e gridano "fier ve, fier rot", ferro vecchio, ferro rotto. Ogni giorno, e più di una volta al giorno sotto casa o sotto l'ufficio o per strada, incontri questi buffi personaggi, vestiti con i colori più variopinti, che raccolgono il ferro. Il loro grido è come una cantilena, e per qualche minuto mi estraneo, ascolto questa specie di litania e mi rilasso. Se posso, mi affaccio alla finestra e li osservo: gli uomini con i loro baffoni e i loro visi duri e scuri e le donne con i capelli neri raccolti in una coda e le loro gonne larghe e lunghe. A volte rido a pensare che in Italia una gonna così farebbe tendenza, qui invece è di cattivo gusto, è il simbolo di riconoscimento degli tzigani.
Eh sì, nonostante io sorrida tutte le volte che li vedo, il rapporto tra rumeni e zigani non è dei migliori, c'è sempre una sorta di guerra fredda tra loro....ma non voglio parlare di questo, solo delle cose che mi fanno sorridere e che mi piacciono

I rumeni sono un popolo molto ospitale
. Ci vuole un po' per conquistare la loro fiducia ma appena riesci ad entrare nel loro mondo ti ricoprono di gentilezze e ti ritrovi intorno ad una tavola imbandita di ogni ben di Dio; e guai a non mangiare, li offendi!!!!

Per quanto tutti non la sopportino, per me la cosa più buona di tutti questi mesi è stata la ciorba, una specie di minestra acida di verdure fatta con il borsch, un liquido acido che si ottiene dall'essicazione di un ramo di ciliegio. Che ridere quando Nicusor voleva darmene una bottiglia da portare a casa in Italia!!! "Nicuscor ho troppi bagagli e poi non so cucinarla", "Ti insegno io" mi ha detto. "La prossima volta, ok? A gennaio mi insegni". A malincuore e anche un po' offeso si è rassegnato.

I rumeni sono così, difficili da conquistare ma una volta che entri nel loro "giro" non ti lasciano più andare!!! Vi racconto un'ultima immagine tra le tante che affollano la mente: un ragazzo di Sf. Macrina, il centro di transito per ragazzi di strada, dove prestiamo servizio.

Vali ha più o meno 20 anni, capelli castano chiari un po' ricci. Passa le sue ore al centro, a guardare la televisione, il suo canale preferito è Mtv. Da quando era bambino assume Aurolac, una droga fatta di colla e solvente che attenua fame e freddo, ma brucia anche le cellule cerebrali. Vali, credo non riesca più a distinguere la destra dalla sinistra, quando gli parli ti sorride e chissà cosa recepisce di quello che gli dici. L'unica frase che ti sa dire è "nu stiu", non so. Qualsiasi cosa tu gli chieda non capisce.

Ti sorride con lo sguardo un po' assente e poi continua guardare la tele. Vado al centro da 5 mesi e non son mai riuscita a coinvolgerlo nelle attività che svolgiamo con i ragazzi. Un giorno eravamo seduti l'uno di fronte all'altro, ho preso un gioco e sapendo già la risposta gli ho chiesto: "Vali, giochiamo?", ".....Sì....". Non credevo a quello che sentivo. Mai si era azzardato a giocare con noi. Ho iniziato a spiegargli il gioco e lui sorrideva con quello sguardo perso nel vuoto. Io ridevo a mia volta, un po' perchè non capiva che doveva girare due carte e un po' dalla gioia. Il tutto sarà durato un quarto d'ora e alla mia nuova domanda: "Vuoi giocare ancora?", lui mi ha risposto no. Ma non importava, ero riuscita ad instaurare una relazione con lui.

La sera ero tornata a casa e l'avevo raccontato a Chiara: "Davvero?", anche lei era incredula!! Quella è stata l'unica volta che sono riuscita a fare un banalissimo gioco con lui e quel ricordo lo custodisco nel mio cuore gelosamente, quel suo sorriso, quei suoi capelli castani e quel suo....."Da"....!!!

Chiara Sarasini,
volontaria in servizio civile in Romania

Quotidianità a Bucarest

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Piata Muncii - Piata Iancului - Obor - Stefan Cel Mare - Piata Victoriei - Gara de Nord...Gara de Nord! la mia fermata! Prendo velocemente la giacca, la sciarpa, la borsa ed eccomi a percorrere Calea Grivitei.

All'uscita della metropolitana il mio sguardo è catturato dai riflessi delle finestre dell'imponente Hotel Continental, situato a pochi metri dalla stazione dei treni. Ma all'istante distolgo la vista per soffermarmi sulle mani arrossate dal freddo di un'anziana signora. Con costanza vende calze appoggiata alla siepe che delimita il parcheggio dell'hotel. Cammino frettolosamente ed oltrepasso la via che accede al mercato Piata Matache, dove si affollano persone che si fanno spazio tra bancarelle, vetrina di ogni tipo di merce, e le nuvole di fumo dei mitch appena cotti.

Sull'angolo osservo come sempre incuriosita la scritta arrugginita di un vecchio cinema, le finestre rotte della porta a vetri lasciano intravedere all'interno un bancone e i cartelloni di qualche polveroso film.


Dal lato opposto della via si susseguono antichi palazzi,


di alcuni è rimasto solo lo scheletro, divenuti dimora dei senzatetto.
 
Mi viene incontro una bambina zingara: occhi scuri che risaltano sul viso contornato da due lunghe trecce nere. Attraversa correndo la strada, tenendo tra le mani la gonna sgargiante di colori, per poi d'improvviso sparire nell'angolo buio di qualche palazzo.
Affretto il passo lasciandomi alle spalle la chiesa ortodossa,oltrepasso con un accenno di timore e presunta indifferenza il cane che sonnecchia in mezzo alla strada. Immagini, pensieri legati ad una realtà che continua ad affascinarmi.


Ed ecco che mi travolge l'abbraccio di Claudiu e Tibi, il sorriso di Leo, il salto al collo di Mishu, il baciamano di Giovani...sono arrivata a Casa St. Joan.
 

Roberta Raineri,
volontaria in servizio civile in Romania

Una giornata intensa

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Questa mattina il paesaggio fuori dalla finestra ha cambiato colore. Quando ho aperto la porta tutto era bianco e silenzioso.

Io, la neve e il vento. Soli.

Io: giaccone verde mimetico, guanti spessi e berretto ben calato a coprire le orecchie, al momento di uscire un'esitazione, e poi, via, nel bianco freddo di questa giornata.
La neve: come polvere, ghiaccio grattugiato finissimo, asciutta. Ogni folata di vento spostava quella che già si era posata sulla strada. Tranquilla è scesa per tutto il giorno, con costanza.

Il vento: freddissimo.

Per tutto il giorno sarà una dura battaglia.

E' lunedì, vado a Plovdiv per aiutare le suore di Madre Teresa nella preparazione e nella distribuzione del cibo alla mensa dei poveri che loro hanno. E' questo che mi porta ad uscire di casa nonostante le condizioni meteo mi spingerebbero a fare il contrario. Quando, arrivato a Plovdiv, scendo dall'autobus, scopro che in città, per qualche strano motivo, fa ancora più freddo che a Rakovski. Alla fermata dell'autobus cittadino non posso fermarmi dal tremare, in piedi, accanto ad un baracchino dietro al quale mi nascondo per ripararmi dal vento, chi aspetta accanto a me invece è tranquillo e fermo. Sull'autobus l'idea di scendere mi spaventa ma, una volta attraversata la città, per forza di cose scendo. E subito mi rifugio nel Cafe di un supermercato per prendere qualcosa di caldo, fare la colazione che ancora non ho fatto. The caldo e brioche. Quando ho finito mi preparo per uscire di nuovo.
Ciò che mi aspetta è quella che normalmente si chiamerebbe una passeggiata di cinque minuti ma che oggi ha tutta l'aria di essere una lunga traversata. I primi cinquanta metri vanno senza particolari sensazioni negative, poi i pensieri si riducono ad uno solo: "freddo, freddo, freddo, ... ".

Qui inizio a pensare a come raccontare questo momento, a quali particolari inserire, a come renderne la drammatica epicità. All'inizio metto le mani come paraocchi per proteggere il viso dalle folate, poi accelero, faccio qualche saltino per far circolare il sangue, proseguo e pian piano mi accorgo che quelle che non sento più sono le gambe, un rapido massaggio e via, supero il blok che mi proteggeva e il vento si fa ancora più forte, allora penso che da domani metterà sempre due paia di pantaloni, corricchio, salterello, cammino un po' all'indietro per dar tregua alle gambe, ora inizio a intravedere la chiesa delle suore di Madre Teresa, là dove devo andare, la vedo ma non la raggiungo mai, penso a quanto ho freddo e rido fra me e me, poi, finalmente, supero un cassonetto in cui qualcosa brucia e fuma e ... ci sono, ce l'ho fatta!, ancora qualche metro protetto dal muro, svolto l'angolo e finalmente suono il campanello.

Fuori con me ci sono già alcune persone che aspettano di entrare a mangiare. Quando suor Massimiliana apre entro io con loro, subito il caldo mi ristora, mi chiedo e chiedo come possano loro vivere in strada o in case abbandonate con questo freddo terribile, che mi fa sembrare pochi metri un'impresa epica. Raggiungo il calorifero e là mi raggiunge la suora, che mi offre un the che io di nuovo accetto, per ristorarmi. Mentre bevo e mangio qualche biscotto, le persone entrano, siedono, stanno un po' al caldo e aspettano la distribuzione del cibo. Dopo poco scendo anch'io in cucina, a ricevere le prime istruzioni.
Tagliare il formaggio, tagliare il pane, una fetta di formaggio ogni tre di pane, tutto per cinquanta persone circa. In questo tempo ho modo di parlare un po' con suor Massimiliana, di cosa fanno in questi giorni, di cosa facciamo noi, del freddo, di loro, ecc. Quando la prima distribuzione è finita, la suora mi invita ad un momento di preghiera cui io partecipo volentieri e al termine del quale mi viene offerto da mangiare. Quando ho finito scendo, finisco di tagliare il pane, apparecchio i tavoli e poi torno su a godermi un momento di pausa in cui bere un altro the caldo, leggere e pensare.

Verso le due arriva però una telefonata, in seguito alla quale andiamo tutti in cantina a preparare degli scatoloni pieni di scarpe e vestiti per bambini, sei scatoloni per dieci bambini, li portiamo su, li ammucchiamo e poi torniamo a quello che rimane della pausa. Dopo un altro momento di preghiera diamo da dare da mangiare agli uomini che vengono alle tre. Oggi sono pochi, poco più di una ventina. Dicono una preghiera, leggono il vangelo del giorno, una suora dice due parole e poi ... si mangia. Distribuire i piatti, il pane, il bis, il tris, fino a che la zuppa non finisce. Poi poco a poco se ne vanno tutti, anche se qualcuno resta a dare una mano per pulire. Dalle loro stanze scendono le signore che qui vivono, lavano le stoviglie mentre noi puliamo e laviamo la sala.
A un certo punto appare la direttrice di una ong. Io, con lo straccio in mano, la saluto, ma non mi riconosce. Dietro di lei ci sono degli uomini in divisa che poi scopro appartenere ad una sorta di assistenza sociale comunale dedicata alle emergenze. Lei parla un po' con le suore e poi, ancora con indosso i grembiuli, ci mettiamo a portare in un grosso camion gli scatoloni, che da sei sono diventati otto. Poco dopo, salendo per una scala di sei sette scalini, siamo noi ad entrare nel retro di questo camion speciale, che tanto ricorda quelli per il trasporto dei carcerati o i grossi carri del circo. Chiusi là dentro, senza vedere nulla, in compagnia della direttrice, veniamo sballottati per un lungo tempo fino al luogo di destinazione.

Quando scendiamo dal carro la situazione è a dir poco strana. Siamo in mezzo al nulla.
C'è una casa piccolissima e tre enormi mezzi delle forze per la salvezza dell'umanità: il nostro enorme camion, una jeep dello stesso ente e un'ambulanza.
Un bambino in maglione viola lascia la casa e inizia a camminare diretto verso il nulla, lasciandoci così esterrefatti. Nel frattempo noi ci guardiamo attorno e ciò che si vede sono solo campi e campi innevati e montagne anch'esse innevate, solo in lontananza si può scorgere un'altra casa isolata. Senza ben capire scarichiamo i nostri pacchi, fra noi un po' scherziamo sul numero che pare spropositato e poi entriamo in questa casa/stanza. Questa è completamente spoglia, circa venti metri quadrati ma ben riscaldati da una stufa a legna. I bambini ci sono e oltre a loro ci sono altrettante persone venute non si sa bene per cosa, forse per prender parte a diverso titolo a questo evento, ognuno in qualità di direttore di qualcosa. Tutti danno fondo alle loro capacità retoriche, chi chiedendo se vanno a scuola, chi chiedendo invece se pregano Dio, altri tacciono. Nessuno sembra esser là per ascoltare. I bambini sono stati appositamente lavati per l'arrivo dei visitatori, sono molto belli, sorridono molto, ci sono anche due gemelli di quattro mesi. La loro bellezza, i loro occhi, la loro giovialità non possono non colpire chi per un attimo si fermasse a guardare. E allora viene voglia di stare fra loro, scambiarsi parole e sguardi di complicità, ritagliarsi un angolo di intimità in questa confusione. Un po' vorrei che capissero che io e le suore non siamo come "loro" e in tutta questa abbondanza vorrei regalare a Venko il cioccolatino che ho in tasca, come se fosse un tesoro prezioso, ma non ne ho la forza. Lui, con il suo maglione viola, era andato a chiamare la mamma chissà dove, forse all'altra casa che si vedeva in lontananza, dove, in due stanze, con la nonna, vivono altri bambini e qualche adulto per un totale di circa venti persone. E' una famiglia rom molto allargata e, alla luce di questi numeri, forse i nostri pacchi non erano poi così tanti. Dopo un poco, senza aver fatto nulla che giustificasse quella calata da esercito, prendiamo la via del ritorno, questa volta però saliamo sull'autoambulanza, e, seduti su una portantina, torniamo alla casa delle suore.

Una volta là mi viene offerto ancora un the, che diligentemente rifiuto, e io, a piedi, vado a perder l'autobus. Quando salgo su quello dopo mi accorgo di avere un freddo cane ai piedi, invoco il caldo ma prima che questi si siano riscaldati devo scendere e raggiungere l'altra fermata dove aspetterò l'autobus per Rakovski. Dopo lunghissimi venti minuti, quando ormai disperavo, l'autobus arriva, salgo, mi siedo vicino al bocchettone dell'aria calda, mi libero delle scarpe e metto i piedi, le cui punte sono ormai congelate, a godere del getto caldo che i potenti mezzi bulgari offrono. Ormai la casa è vicina.

Una volta a Rakovski la giornata si può dire conclusa, pochi metri mi separano da casa, da una bella doccia bollente e, non prima di aver scritto qualcosa, dal letto.

Poi, domani, riposo.

Francesco Malossi,
volontario in servizio civile in Bulgaria

lunedì 30 gennaio 2006

Una città con tante facce

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Nairobi è una città strana.

In realtà non sembra neanche un'unica città. Basta spostarsi di poche centinaia di metri per ritrovarsi di fronte a luoghi, persone e stili di vita completamente diversi l'uno dall'altro.

Kabiria, il quartiere dove vivo, si trova alla periferia della città. Non è un quartiere poverissimo, anche se sono molte le persone che devono lottare per arrivare a fine mese. Le strade non sono asfaltate (o se lo sono la manutenzione non esiste da qualche decina d'anni). Le attività commerciali sono molte, lungo la strada principale. Piccole strutture in lamiera, dove si vende principalmente cibo.


Il quartiere di Kabiria è molto bello, pulito, vitale.

Poi c'è Karen, grandi ville immerse nel verde: il quartiere dei ricchi.

Il centro, alti palazzi di vetro, ambasciate, banche, uffici governativi. Il grigiore del centro non ispira certo una passeggiata domenicale.

A Gigiri c'è la sede delle Nazioni Unite e l'Ambasciata americana. La zona è immersa nel verde. Sembra veramente un giardino gigante. Alberi e piante che sembrano curate quotidianamente dal migliore dei giardinieri.

Poi Kibera, dove la gente vive in piccole strutture di metallo, una addosso all'altra, senza servizi, fognature, acqua corrente. A pochi metri da Kibera, il campo da golf!!!

Nairobi è così, tante città nella stessa città.
Flavio Bellomi