Non saprei dire da dove è incominciata.
Probabilmente dalla stazione Centrale di Milano, un tardo pomeriggio del maggio dell'anno scorso.
Sapevo che dom Ernesto, vescovo da qualche mese della diocesi di Pemba, a nord del Mozambico, e amico da tempo, era di ritorno da Roma e arrivava con il treno a Milano, e così inforcai la bicicletta e mi fiondai in stazione almeno per salutarlo qualche minuto.
Sicuramente non immaginavo che in quei pochi minuti, e con qualche spiazzante parola delle sue, di quelle che vanno a centrare proprio il cuore dei tuoi pensieri, mi avrebbe proposto (e convinto, lo ammetto, con una rapidità sorprendente) ad andare a vedere il "suo" Mozambico.
E così è nato il nostro viaggio: fine dell'antefatto.
In tre settimane non si vede molto, e si conosce proprio poco di un paese e della sua gente: praticamente soltanto un assaggio.
Il nostro primo impatto è stato con Maputo, la capitale, al sud del paese.
Maputo è, come tutte le grandi città e soprattutto quelle africane, luogo di contraddizioni: si passa molto in fretta dai quartieri ricchi, quelli dove risiedono i ministri e i membri del governo, dove ci sono le ambasciate, dei bei villoni circondati da un praticello degno dei migliori film americani, (tutti rigorosamente sorvegliati dalle polizie private), i palazzi, nuovissimi, delle multinazionali, costruiti nel 2000 in occasione del summit dei paesi africani; alle sterminate distese di casupole, alcune in muratura, baracche di lamiera, capanne di argilla.
Non è una periferia, non è un quartiere, non è un campo come quelli in cui ghettizziamo i rom e che denunciamo come indecenti: è una città. Non me ne ero resa bene conto, da terra, di quanto fosse immensa, ma vederla alzandosi con l'aereo è qualcosa che toglie il fiato.
Maputo è al sud del paese, settanta kilometri più in là c'è il confine con il Sudafrica. Si raggiunge in fretta: qualche anno fa è stata costruita un'autostrada, l'unica del Mozambico, che collega Maputo a Pretoria e Johannesburg; autostrada si fa per dire: è una bella strada, su cui in settanta kilometri si paga il pedaggio quattro volte. La strada è stata costruita per collegare il Sudafrica alla grande industria di alluminio, dicono la più grande d'Africa, aperta poco dopo nella periferia di Maputo, un'industria che "per qualche ragione" i sudafricani non volevano sul loro territorio, e che porta ricchezza non certo ai mozambicani.
In capitale la gente non sta bene, ma rispetto al nord, in un certo modo, si sente che la vicinanza con il Sudafrica porta qualche beneficio. Il confine, però, è lo stesso impressionante: al di là della frontiera sorgono subito belle casette, negozi, ai lati della strada giardinetti curati e campi coltivati sistematicamente, con dei buoni sistemi di irrigazione. Al di qua, il villaggio a ridosso della dogana, lungo il pendio di una collina, è un'accozzaglia di baracche e casupole, e non tutti hanno l'acqua corrente.
Ma chi ci ha accompagnato nei primi giorni a Maputo ci ha ripetuto più volte "vedrete, vedrete, a Pemba si sta peggio".
È vero.
Pemba, duemilacinquecento kilometri più a nord, è capoluogo della regione di Cabo Delgado, la più povera del paese.
Noi l'abbiamo raggiunta in aereo; in auto oggi si potrebbe, anche se, dicono, ci vogliono due giorni di viaggio. Fino a qualche anno fa, nei trent'anni di guerra prima d'indipendenza e poi civile che hanno lasciato sfinito il paese, l'unico modo per andare da una città all'altra era muoversi in aereo: facile capire che spostarsi era un lusso di pochi.
In diocesi stanno avviando un progetto per lo sviluppo sociale delle comunità della regione: tre giorni pieni, a discutere al Tavolo di lavoro, per capire da dove partire... eppure Pemba è una città in una posizione splendida, si trova sull'Oceano Indiano, sulla terza baia più grande del mondo e il suo territorio avrebbe anche diverse potenzialità: agricola, i tre quarti della terra di Cabo Delgado permetterebbe investimenti in questo senso; faunistico, è una zona in cui vivono elefanti, coccodrilli, leopardi, leoni; culturale, nella sola regione nord sono tre i grandi gruppi etnici, ognuno con una diversità di cultura e di lingua.
Eppure non basta, eppure queste caratteristiche si traducono spesso in difficoltà.
Quello che è più visibile, che colpisce al primo impatto, sono proprio i villaggi e le case: puoi percorrere kilometri senza incontrare case in muratura, nelle aldeias - i villaggi - più piccole è praticamente impossibile trovarne. L'elettricità è lusso di pochissimi che hanno un generatore, e solo nei capoluoghi di distretto. Acqua corrente neanche a parlarne, la maggior parte non ha nemmeno pozzi, si serve di piccoli fiumi che resistono anche nella stagione secca, e in alcuni casi donne e bambine compiono percorsi di ore per andare a prendere l'acqua. Il terreno permette di coltivare facilmente alberi da frutta, in particolare di papaya, arance, mango, ma l'agricoltura di sussistenza è costituita principalmente da granoturco e mapira, un tipo di grano piccolo e bianco.
"Ma educare a coltivare e mangiare frutta, cosa che attenuerebbe di molto il problema della mancanza d'acqua nell'alimentazione, è un discorso lungo da portare avanti" sostiene dom Ernesto.
Un'altra ferita aperta è quella sanitaria: in tutta la regione nord esistono solo tre farmacie, i presidi medici sono a decine di kilometri di distanza, e i farmaci comunque costano troppo.
La dissenteria qui uccide.
La tubercolosi è diffusissima.
Il Mozambico è il secondo paese africano per numero di malati di lebbra.
La malaria è all'ordine del giorno.
E poi la grande, enorme, piaga dei paesi africani, e il Mozambico è tra i paesi più colpiti: l'Aids. Non è semplice fare informazione, nelle aldeias "ne hanno sentito parlare", ma sono pochi quelli che conoscono le modalità di contagio e sanno qualcosa di questa malattia. Parlarne incontra spesso resistenze, perché vuol dire toccare argomenti tabù come i rapporti sessuali e i riti di iniziazione.
E poi il grande problema della lingua: quella ufficiale è il portoghese, retaggio di secoli di dominazione coloniale, ma solo nelle città e chi ha studiato lo sa.
Per il resto sono le lingue dei gruppi etnici quelle utilizzate; nella sola regione nord, per fare un esempio, sono due diverse. Il problema è sociale, sicuramente.
Ma, dal lato umano, la capacità di comunicare al di là della lingua, di accogliere, di rispettare l'altro, di vivere con profonda serenità di questa gente la capisci anche se non parli macua.
Probabilmente dalla stazione Centrale di Milano, un tardo pomeriggio del maggio dell'anno scorso.
Sapevo che dom Ernesto, vescovo da qualche mese della diocesi di Pemba, a nord del Mozambico, e amico da tempo, era di ritorno da Roma e arrivava con il treno a Milano, e così inforcai la bicicletta e mi fiondai in stazione almeno per salutarlo qualche minuto.
Sicuramente non immaginavo che in quei pochi minuti, e con qualche spiazzante parola delle sue, di quelle che vanno a centrare proprio il cuore dei tuoi pensieri, mi avrebbe proposto (e convinto, lo ammetto, con una rapidità sorprendente) ad andare a vedere il "suo" Mozambico.
E così è nato il nostro viaggio: fine dell'antefatto.
In tre settimane non si vede molto, e si conosce proprio poco di un paese e della sua gente: praticamente soltanto un assaggio.
Il nostro primo impatto è stato con Maputo, la capitale, al sud del paese.
Maputo è, come tutte le grandi città e soprattutto quelle africane, luogo di contraddizioni: si passa molto in fretta dai quartieri ricchi, quelli dove risiedono i ministri e i membri del governo, dove ci sono le ambasciate, dei bei villoni circondati da un praticello degno dei migliori film americani, (tutti rigorosamente sorvegliati dalle polizie private), i palazzi, nuovissimi, delle multinazionali, costruiti nel 2000 in occasione del summit dei paesi africani; alle sterminate distese di casupole, alcune in muratura, baracche di lamiera, capanne di argilla.
Non è una periferia, non è un quartiere, non è un campo come quelli in cui ghettizziamo i rom e che denunciamo come indecenti: è una città. Non me ne ero resa bene conto, da terra, di quanto fosse immensa, ma vederla alzandosi con l'aereo è qualcosa che toglie il fiato.
Maputo è al sud del paese, settanta kilometri più in là c'è il confine con il Sudafrica. Si raggiunge in fretta: qualche anno fa è stata costruita un'autostrada, l'unica del Mozambico, che collega Maputo a Pretoria e Johannesburg; autostrada si fa per dire: è una bella strada, su cui in settanta kilometri si paga il pedaggio quattro volte. La strada è stata costruita per collegare il Sudafrica alla grande industria di alluminio, dicono la più grande d'Africa, aperta poco dopo nella periferia di Maputo, un'industria che "per qualche ragione" i sudafricani non volevano sul loro territorio, e che porta ricchezza non certo ai mozambicani.
In capitale la gente non sta bene, ma rispetto al nord, in un certo modo, si sente che la vicinanza con il Sudafrica porta qualche beneficio. Il confine, però, è lo stesso impressionante: al di là della frontiera sorgono subito belle casette, negozi, ai lati della strada giardinetti curati e campi coltivati sistematicamente, con dei buoni sistemi di irrigazione. Al di qua, il villaggio a ridosso della dogana, lungo il pendio di una collina, è un'accozzaglia di baracche e casupole, e non tutti hanno l'acqua corrente.
Ma chi ci ha accompagnato nei primi giorni a Maputo ci ha ripetuto più volte "vedrete, vedrete, a Pemba si sta peggio".
È vero.
Pemba, duemilacinquecento kilometri più a nord, è capoluogo della regione di Cabo Delgado, la più povera del paese.
Noi l'abbiamo raggiunta in aereo; in auto oggi si potrebbe, anche se, dicono, ci vogliono due giorni di viaggio. Fino a qualche anno fa, nei trent'anni di guerra prima d'indipendenza e poi civile che hanno lasciato sfinito il paese, l'unico modo per andare da una città all'altra era muoversi in aereo: facile capire che spostarsi era un lusso di pochi.
In diocesi stanno avviando un progetto per lo sviluppo sociale delle comunità della regione: tre giorni pieni, a discutere al Tavolo di lavoro, per capire da dove partire... eppure Pemba è una città in una posizione splendida, si trova sull'Oceano Indiano, sulla terza baia più grande del mondo e il suo territorio avrebbe anche diverse potenzialità: agricola, i tre quarti della terra di Cabo Delgado permetterebbe investimenti in questo senso; faunistico, è una zona in cui vivono elefanti, coccodrilli, leopardi, leoni; culturale, nella sola regione nord sono tre i grandi gruppi etnici, ognuno con una diversità di cultura e di lingua.
Eppure non basta, eppure queste caratteristiche si traducono spesso in difficoltà.
Quello che è più visibile, che colpisce al primo impatto, sono proprio i villaggi e le case: puoi percorrere kilometri senza incontrare case in muratura, nelle aldeias - i villaggi - più piccole è praticamente impossibile trovarne. L'elettricità è lusso di pochissimi che hanno un generatore, e solo nei capoluoghi di distretto. Acqua corrente neanche a parlarne, la maggior parte non ha nemmeno pozzi, si serve di piccoli fiumi che resistono anche nella stagione secca, e in alcuni casi donne e bambine compiono percorsi di ore per andare a prendere l'acqua. Il terreno permette di coltivare facilmente alberi da frutta, in particolare di papaya, arance, mango, ma l'agricoltura di sussistenza è costituita principalmente da granoturco e mapira, un tipo di grano piccolo e bianco.
"Ma educare a coltivare e mangiare frutta, cosa che attenuerebbe di molto il problema della mancanza d'acqua nell'alimentazione, è un discorso lungo da portare avanti" sostiene dom Ernesto.
Un'altra ferita aperta è quella sanitaria: in tutta la regione nord esistono solo tre farmacie, i presidi medici sono a decine di kilometri di distanza, e i farmaci comunque costano troppo.
La dissenteria qui uccide.
La tubercolosi è diffusissima.
Il Mozambico è il secondo paese africano per numero di malati di lebbra.
La malaria è all'ordine del giorno.
E poi la grande, enorme, piaga dei paesi africani, e il Mozambico è tra i paesi più colpiti: l'Aids. Non è semplice fare informazione, nelle aldeias "ne hanno sentito parlare", ma sono pochi quelli che conoscono le modalità di contagio e sanno qualcosa di questa malattia. Parlarne incontra spesso resistenze, perché vuol dire toccare argomenti tabù come i rapporti sessuali e i riti di iniziazione.
E poi il grande problema della lingua: quella ufficiale è il portoghese, retaggio di secoli di dominazione coloniale, ma solo nelle città e chi ha studiato lo sa.
Per il resto sono le lingue dei gruppi etnici quelle utilizzate; nella sola regione nord, per fare un esempio, sono due diverse. Il problema è sociale, sicuramente.
Ma, dal lato umano, la capacità di comunicare al di là della lingua, di accogliere, di rispettare l'altro, di vivere con profonda serenità di questa gente la capisci anche se non parli macua.
Marta Zanella
novembre 2006 |
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