martedì 31 gennaio 2017

L' Ungheria è lunga 8 km

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La bocca è impastata e dalle tempie senti il ritmo accelerato del tuo battito cardiaco.

Poi c'è quell'odore che non se ne va.

Le orecchie sentono ancora i colpi di tosse che sembrano non fermarsi mai.
Le mani, troppo fredde per rimanere scoperte, si sono salvate.
Per gli occhi,  ne riparliamo domattina al risveglio.

C'è un senso?


Sicuramente c'è una direzione, precisa.
L'EUROPA.

Che da qui si cerca di raggiungere attraverso l'Ungheria.
Ma se la polizia ti trova entro 8 km dal confine,  per legge ti rimandano da dove sei venuto.

Tra i migranti ormai gira voce che "l'Ungheria è lunga 8 km".
Non si passa.
E se ti prendono, anche oltre gli 8 km, ti riempiono di botte.
L'uomo con le stampelle e un piede ingessato arriva da lì.


Ora vive a Belgrado, nell'ex terminal doganale, insieme ad altri #sconfinati.
Ce ne sono tanti, non saprei dire quanti. Molti sono sotto cumuli di coperte, altri bruciano quel che c'è, altri ancora sono all'esterno a cercare acqua per lavarsi.

Altri ancora escono dall'inferno dove nessuno può entrare a dare una mano, per tornare poi alla sera.


Nessuno li può aiutare ufficialmente.
Se lo vuoi fare, dopo non ti è più permesso lavorare nei campi governativi.
I trafficanti dicono loro che se si fanno registrare dopo non potranno più proseguire.
Sono arrivati dall'Afghanistan, dal Pakistan, per raggiungere l'Europa,  non per stare in Serbia.

E l'Europa? 
Finanzia la Serbia perché li tenga a casa propria.
Ma i soldi non bastano, non c'è da mangiare e da dormire per tutti.
E la #Balkanroute non è poi così chiusa. Piano piano, giorno dopo giorno, ne arrivano altri, grazie al prospero business dei trafficanti.



Dimenticavo.
Tutti quelli che ce l'hanno fatta e sono arrivati in Europa attraversando la Serbia, ora sono in attesa di una risposta e se la domanda di asilo verrà rifiutata, potrebbero essere rispediti qui.

Perché le merci passano, gli uomini no.

Oppure se passano, si fermano a marcire nella dogana.




lunedì 30 gennaio 2017

… “Coi piedi neri”…

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CAPOEIRA

Una danza dentro una lotta.
La nonviolenza nella violenza.
E’ affascinante, semplice e bello. Difficile.
Educare e ascoltare nella strada, nella bidonville. Insegnare che tutti sono uguali, che non vince affatto il più forte: che tutti siamo accolti nel gruppo.
E sporcarsi i piedi assieme. Martedì scorso i miei piedi scalzi erano neri, impolverati e un po’ indolenziti ..indolenziti come quelli degli altri miei 20 compagni, neri e impolverati come i loro, mentre assieme seguivamo gli esercizi, a ritmo di musica, del maestro. Assieme abbiamo sudato, abbiamo sbagliato e fatto bene. 

ASSIEME

Assieme, vuol dire condividere. E in quel momento, mi sono quasi dimenticato di essere bianco, italiano e che gli altri ragazzi erano haitiani. Eravamo semplicemente noi, ASSIEME.
CONDIVIDERE

Condividere, avere i piedi scalzi neri, impolverati e un po’ indolenziti è credo sia il segreto per essere prossimi all’altro, per  dare, ma soprattutto apprendere dall’altro; per ricordarsi che siamo piccoli in questo mondo, con tanto da imparare e che davvero, mi rendo conto qui a Port au Prince, ogni giorni dobbiamo rimetterci in discussione. Trovare un modo per essere ASSIEME e CONDIVIDERE, per ricordarci che non è sempre giusto come e dove viviamo; che Haiti, l’Italia e ogni altro paese non sono “mondi diversi”, ma mondi diversi in un mondo comune, lo stesso. Accorgerci che questo mondo comune spesso è ingiusto e che ogni Paese ha una sua ricchezza e una sua povertà.

ACCORGERSI

Ad Haiti la cosa che sto imparando maggiormente è accorgermi: fare attenzione alle piccole cose, farmi mille domande e non dare nulla, davvero nulla, per scontato. Mettere sempre in discussione e così sempre rinnovare ciò che invece ritengo una “certezza” nella mia vita.

Fede

domenica 15 gennaio 2017

Riflessioni a distanza...

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In un primo momento l'idea di tornare a casa dopo così poco tempo ad Haiti non mi ha entusiasmata più di tanto, devo ammetterlo. Ho pensato a tante cose che mi sarei persa in venti giorni di permanenza in Italia, ho pensato che forse avrei dimenticato la lingua tanto velocemente quanto l'avevo imparata...ho pensato semplicemente che dopo due mesi ributtarmi nella mia quotidianità italiana sarebbe stato traumatico...devo dire che in parte è stato così ma in fondo ho apprezzato questo momento di stacco.

La vita a Port au Prince di questi due mesi è stata talmente intensa e totalizzante che non ho avuto veramente occasione di fermarmi a riflettere su tante cose che oggi, da lontano, mi sembrano un po' più chiare anche se non ancora del tutto comprensibili.
Ho riflettuto su tanti aspetti che sono contraddittori e strani di questo paese.
Ho pensato ad una popolazione che nonostante viva per l'80 % sotto la soglia della povertà ha al suo interno una gerarchizzazione sociale molto netta; ho pensato a persone poverissime che trovano normale avere un bambino restavek al loro servizio; ho pensato alle catastrofi naturali che hanno dilaniato il paese negli ultimi anni e alla marea di aiuti umanitari che sono arrivati senza comunque rinasare la situazione.
Quindi sto pensando a quelle persone che dal 2010 vivono ancora nelle stesse tende che vennero montate dalle varie protezioni civili durante l'emergenza, insomma penso ad un paese che ha fatto dell'emergenza il suo stato di normalità. Penso ad un paese che non riesce a fare delle elezioni decenti da anni a causa del terrore che i banditi, pagati dal signorotto di turno, diffondono in periodo elettorale e penso che forse ho stranamente assistito alla vittoria di un presidente eletto dal popolo democraticamente dopo anni...almeno così pare.

Se dovessi cercare un modo per spiegare come vedo Haiti in questo momento la paragonerei ad una macchina bloccata nel fango...le ruote girano ma non riescono a far muovere l'auto.

Ho sentito molti discorsi fatti da “bianchi” in questi due mesi...ho sentito dire che “se questo paese non esce dalla pessima condizione in cui versa è a causa della gente che lo popola” ho sentito dire che “per forza non si esce dalla crisi, qui chiedono tutti soldi ma poi cosa fanno di concreto per sopravvivere?”...lì per lì, immersa in un contesto così difficile e complesso, come ho già detto tante volte, non ho avuto la forza di esprimermi e di farmi un'idea che fosse la mia...ma oggi, che ho metabolizzato questo primo periodo duro ma anche pieno di grandi soddisfazioni e gioie mi sento di dire che forse non ci possiamo permettere di snocciolare giudizi su chi per secoli ha subito le vessazioni dei nostri civilissimi paesi europei o dei democraticissimi Stati Uniti d'America.

E allora mi spiego le stratificazioni sociali interne ad una popolazione che vive nella miseria, eredità del nostro bel colonialismo, e mi spiego tante altre cose.
Haiti è divenuta la vittima della violenza strutturale del Mondo, è l'esempio lampante di un sistema che è afflitto da dinamiche di potere, interne ed esterne al paese stesso, che si ripropongono non permettendogli di uscire dal fango.
Non giudichiamo un disastro del quale i nostri antenati sono i responsabili, non giudichiamo delle persone che vivono secondo gli schemi sociali che si sono reiterati nel tempo, magari in altre forme ma creando precedenti troppo difficili da scardinare, non giudichiamo chi è stato in qualche modo educato all'assistenzialismo e che oggi, non avendo i mezzi per fare diversamente, a volte ricorre alla domanda assistenzialista per sopravvivere.

Io non sono andata ad Haiti per salvarla, non penso di aver capito tutto anzi forse non ho capito niente ma ci sto provando, provo a riconoscere che non tutto è come sembra e che a volte dietro a ciò che vediamo c'è un orizzonte che è talmente vasto che non riusciremo mai a comprenderlo tutto.

Io ho fiducia in questo paese, ho fiducia nelle persone che ci vivono, ho fiducia nei giovani con cui passo il mio tempo ogni giorno, ho fiducia nei bambini e nei ragazzi che vogliono studiare e che vogliono conoscere il mondo perché loro, esattamente come in ogni altro paese, sono la risorsa più grande.

A presto.
Silvia

lunedì 9 gennaio 2017

Un poeta inaspettato

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L'altro giorno chiacchierando con George mi ha detto che mentre era al Y.C.T.C. ha scritto alcune poesie. Dopo averle lette gli ho chiesto se avessi potuto pubblicarle sul nostro blog e lui pieno di orgoglio mi ha risposto: "of course!".
E quindi periodicamente pubblicherò questi piccoli capolavori di bellezza perché, come diceva un magnifico professor Keating: "Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita". (Tratto dal film L'attimo fuggente, 1989)

PS: grazie a Elia per l'aiuto e il sostegno (... e non solo nelle traduzioni)

La St. Joseph Cafasso Consolation House verso l'ora del tramonto


You can't take away

You can take away my freedom
You can take away my life
But you can't take away my Lord Jesus Christ
You can put me in a cell and throw away the key
But you can't take away the peace that lives in me
You can take away my loved ones
But you can't take away my God-given joys
You can tell evil lives persecute me
But you can't take away the Holy Spirit who has already set me free


Non potete privarmi

Potete privarmi della libertà
Potete privarmi della vita
Ma non potete privarmi del Signore Gesù Cristo
Potete mettermi in una cella e gettare la chiave
Ma non potete privarmi della pace che vive in me
Potete privarmi delle persone che amo
Ma non potete privarmi delle gioie che Dio mi ha donato
Potete dire che vite cattive mi perseguitano
Ma non potete privarmi dello Spirito Santo che già mi ha liberato

George

giovedì 5 gennaio 2017

Rabbia e Sogni

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Fa rabbia.
Fa rabbia la disparità di questo mondo, fa rabbia il sistema , fa rabbia che sembra impossibile cambiarlo.
Mi fa rabbia Federico, che torna da Haiti e si adatta così facilmente al suo Trentino: speravo o temevo di starci malissimo, di non dormirci la notte. Invece, forse, perché volontariamente cerco di concentrarmi su dove sono ora, a Trento, coi miei amici, affetti, parenti, sono felice. Come sono felice, molto, quando sono a Port au Prince.
E’ casa mia questa, e sono cresciuto così e forse , ragionavo mentre ero nei Caraibi, quello che posso fare, che possiamo fare, è continuare a farci domande, metterci in gioco e vivere con gli occhi aperti al mondo, indipendentemente da dove noi siamo. Ma soprattutto, sto riflettendo sul fatto che ciò che può davvero fare la differenza, quantomeno per me, è il  MODO.
Non so come spiegarlo, ma credo che, posto il fatto è che mi ritrovo a vivere in un mondo così strano, così poco paritario, la differenza la può fare il come io vivo nella mia piccola Trento o nella grande Port au Prince, e così via, insomma, ovunque io sia , conta il COME vivo. E non credo sia facile.
Vivere con uno sguardo amplio sul mondo, aperto; vivere cercando ogni giorno di donare semplicemente un sorriso all’altro; vivere cercando di cambiare le cose nel nostro piccolo: nei rapporti coi vicini, nel cercare di fare comunità, nell’accogliere tutti i giorni, nonostante le difficoltà. Nel limitare gli sprechi, nel puntare ad un’economia sostenibile, aver un occhio di riguardo per l’ambiente. Mettersi in gioco socialmente e politicamente, nelle cose piccole del quotidiano. Sono solo alcuni degli spunti che mi stanno venendo in mente nei miei “viaggi mentali”.
Il punto centrale infine, credo sia questo: non so se è o meno una fortuna essere nato a Trento, fatto sta che ci sono sempre stato bene; ma ciò che è una certezza, è che qui io ho un infinito numero di opportunità e possibilità: possibilità di scegliere, potrei dire, qualsiasi cosa. Ad Haiti invece di opportunità ce ne sono davvero poche.
Credo che quindi la prima cosa che posso fare nei confronti di tutta la gente che ho incontrato a Port au Prince è non avere paura di non ottenere un posto fisso; è non avere paura di non riuscire a fare carriera, o di pagare un mutuo, o di  non riuscire a invecchiare fino a 90 anni. Credo che il primo gesto di rispetto sia quello di lottare fino all’ultimo per ogni mio sogno, per ogni mio idealismo, passando magari per sciocco o sognatore. Ma , come disse Mandela, “un sognatore è un vincitore che non ha mai smesso di sognare” e invito col cuore me e soprattutto tutti i giovani che come me hanno mille opportunità, di inseguire sempre ciò che sentono dentro, non fermarsi per la paura e la mancanza di certezze, perché a Port au Prince non ci si arrende nemmeno di fronte all’assenza di cibo, di lavoro e di opportunità, ma si continua a vivere, provare a sorridere e lottare. Credo sia un nostro dovere non avere paura, paura di sognare,
Fede