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martedì 18 dicembre 2012

Siamo tutti dei teleGeni

1 commento:


Vi chiederete come mai noi della Giordania snobbiamo un po' questo blog e non ci scriviamo spesso, ma questo video è la prova concreta di come la nostra agenda pulluli di appuntamenti con giornalisti vari. Insomma, siamo dei servizi civilisti impegnati e ricercati, ma nonostante tutto ci ricordiamo ancora di voi e vi postiamo la recente intervista fatta con TV2000.
Non preoccupatevi che presto torneremo in Italia e saremo disponibili a rilasciare interviste nonché autografi.
Aspettiamo di venire invasi da commenti entusiastici riguardanti la nostra bellezza telegenica e la nostra capacità dialettica  assolutamente fuori dal comune ( io sottoscritta parlo per ben 10 secondi, e Dario è in grado di esprimere complessità, dramma e pathos in soli 4 secondi). 
Se qualcuno di voi volesse contattarci per una eventuale intervista chiediamo gentilmente di prendere appuntamento con il nostro manager. 



venerdì 16 novembre 2012

Vita da SCE

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Kindu, R.D. Congo [Foto di Magda]


Ido che lavora, abbarbicato sull’antenna



Donne che decorticano il riso
proveniente dai campi, rive droite


Giordania [Foto di Dario]
 
 

 



Nicaragua [Foto di Emilia]
 
Moise - el juego
 
La famiglia Brambilla
 
 
Nicaragua [Foto di Beatrice]
 
Piscina versione Guis


 
 

Nicaragua [Foto di Elena]
 
Lactancia materna

Taller de sexualidad
 
 

mercoledì 24 ottobre 2012

La fuga dei disperati

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Intervista dell'agenzia SIR a Dario, poco noto (sigh;)) ai lettori di questo blog, volontario del servizio civile Caritas in Giordania.
 
 
In Siria la situazione umanitaria si fa di ora in ora sempre più grave e da alcuni giorni, informa Caritas italiana, si sono persi i contatti con la Caritas locale, non raggiungibile né con il telefono né per e-mail. Mons. Antoine Audo, presidente di Caritas Siria, nell’ultimo messaggio inviato scrive: “Il mio posto è ora vicino ai miei fedeli, che non posso e non voglio assolutamente abbandonare”. La Giordania è il Paese con il più alto numero di profughi dalla Siria, in drammatico aumento nelle ultime settimane: dall’inizio della crisi, lo scorso anno, sono oltre 160 mila. Prima ne arrivavano 500 al giorno, ora 3-4 mila. La scorsa settimana circa 30 mila persone hanno abbandonato la Siria verso i Paesi limitrofi. Per rispondere all’emergenza il governo giordano ha allestito due settimane fa il campo profughi di Zata’ari, a 60 chilometri da Amman, che ospita attualmente 20 mila siriani. Il campo, gestito dall’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), ma presidiato dalle forze dell’ordine giordane, è sovraffollato, manca l’energia elettrica e di recente vi sono stati anche dei tafferugli. Conoscono bene la situazione due giovani di Caritas Ambrosiana – Dario Zanardi e Cristina Pianca – che da sei mesi svolgono il servizio civile a supporto di Caritas Giordania. Vivono ad Amman e tre giorni a settimana lavorano in centro, in una parrocchia di Mafraq, al confine con la Siria. Qui Caritas Giordania ha censito 25 mila rifugiati. Caritas italiana auspica oggi “una crescente solidarietà” e chiede alla comunità internazionale di “compiere con responsabilità tutti gli sforzi per porre fine alle violenze”. Dall’inizio dell’emergenza profughi è stato messo a disposizione un primo contributo destinato alle famiglie, ma solo in Siria occorrono già altri 170 mila euro per estendere l’intervento in atto. Patrizia Caiffa, per il Sir, ha intervistato in Giordania Dario Zanardi.

Come arrivano i profughi siriani in Giordania?

“Fuggono da Homs, da Damasco, da Aleppo. Arrivano in auto ma passano il confine di notte, a piedi, camminando tre/quattro ore nel deserto. Il flusso maggiore è in Giordania perché la Turchia ha chiuso le frontiere, mentre la situazione libanese è complessa. Il governo giordano ha la volontà di aiutare i profughi, ma al confine ogni notte si verificano ‘scaramucce’ di frontiera, perché l’esercito siriano spara sui profughi in fuga mentre i militari giordani rispondono con fuoco di copertura”.

A Mafraq in che condizioni vivono?

“Vivono in box, garage, negozi, uffici, pagano un affitto di 100-150 dinari al mese. Alcuni sono ospitati, a pagamento, dai parenti. Sono abitazioni di fortuna di una, massimo due stanze. Arrivano senza nulla e le condizioni abitative sono pessime. Dormono su coperte stese in terra per cercare d’isolarsi dal freddo. Alcuni hanno ricevuto un aiuto economico dalle agenzie delle Nazioni Unite per alcuni mesi”.
 

Quali agenzie umanitarie sono presenti? Che tipo di assistenza forniscono?

“Oltre all’Unhcr operano Caritas Giordania e due organizzazioni islamiche. Vi sono due registrazioni parallele: quella dell’Unhcr, che garantisce ai profughi di entrare nella procedura per la richiesta di asilo politico, ma molti non si registrano perché hanno paura di essere identificati per timore di ritorsioni. E quella di Caritas Giordania, che ha conquistato molta fiducia sul campo. Tra le due realtà c’è collaborazione. In questo modo Caritas Giordania sa dove si trovano i profughi, come sono composte le famiglie, se ci sono persone malate o bambini e neonati. Vengono avvertiti telefonicamente in occasione delle distribuzioni di generi alimentari, beni per l’igiene personale, coperte e piccoli elettrodomestici come fornelli e ventilatori. Le famiglie sono quasi tutte musulmane, con bambini in età scolare e neonati che hanno bisogno di latte in polvere e pannolini”.
 
Cosa fate per i bambini?
 
“I bambini dovrebbero essere inseriti nelle scuole statali, ma è ancora in discussione, al Parlamento giordano, un progetto di legge in materia. Perciò, nel frattempo, tra alcuni giorni avvieremo un progetto educativo, in collaborazione con Caritas Polonia, rivolto a 150 bambini dai 5 ai 13 anni, con insegnanti locali. Una sorta di doposcuola con l’insegnamento delle principali materie, per non perdere l’anno scolastico. Per fortuna il dialetto giordano e quello siriano sono affini e non ci sono grossi problemi di comprensione reciproca”.

Com’è la situazione sanitaria?

“È grave. Arrivano molte persone ferite da armi da fuoco, tutti soffrono di malattie post traumatiche legate allo stress, come asma, ansia, pressione alta. Hanno problemi alla vista, diabete, alcuni hanno bisogno di dialisi. Ho visto la radiografia del cranio di un bambino con un proiettile in testa. Fortunatamente si è salvato. Nel campo di Zata’ari ci sono già tre ospedali gestiti da Francia, Marocco ed Emirati Arabi. Anche l’Italia ha allestito da poco, nei dintorni di Mafraq, un ospedale, con personale sanitario e della Protezione civile. Caritas Ambrosiana ha invece avviato una campagna di raccolta fondi per l’acquisto di un’ambulanza per l’assistenza dei profughi al confine”.
 

Pare che il campo di Zata’ari sia sovraffollato e a rischio collasso…
 
“Sono stato una volta, c’erano 6 mila persone. Ora si parla di 16-20 mila persone. All’inizio ci sono stati molti episodi negativi, le condizioni non erano buone, mancava l’acqua, il cibo. Il governo giordano si è trovato a dover reagire all’emergenza dovuta dall’aumento enorme dei flussi. È ovvio che tutte le risorse sono ancora destinate alla prima assistenza, ma pian piano la situazione sta migliorando. Ci preoccupano maggiormente le condizioni dei bambini, che sono le prime vittime dei cicloni di sabbia del deserto, con problemi respiratori e alla vista”.

Quali storie raccontano i profughi?
 
“Quando si parla con i profughi non si entra nelle questioni politiche, anche perché la situazione da qui non è ben chiara, non si capisce cosa stia realmente accadendo in Siria. In Occidente, invece, la lettura della situazione è univoca. I profughi fuggono da città deserte, devastate da bombardamenti e combattimenti, nelle quali non è più possibile vivere. Alcuni si rifugiano nei villaggi interni, altri passano il confine giordano per disperazione. È difficile capire da chi sia composto l’esercito ribelle – si parla anche di terroristi legati ad Al Qaeda – e che ruolo abbia veramente Assad. Non è chiaro chi provochi le stragi e cosa ci sia dietro. I profughi sono tutti contro Assad, ma i siriani che vivono ad Amman, e hanno ancora le famiglie in Siria, appoggiano il regime”.

lunedì 15 ottobre 2012

Scatta il cantiere: "Primi piani"

4 commenti:
Ed ecco, infine, l'ultima categoria: per alcuni si tratta della categoria regina, per altri è una categoria pedone; nessuno la crede la categoria automobilista.

I primi piani. Le foto migliori dei volti delle persone incontrate durante i campi, con le quali il concorso "Scatta il cantiere" ringrazia calorosamente, saluta cordialmente e va.

Senza pagare.

Lo rivedremo l'anno prossimo, per la settima edizione, e gli chiederemo gli interessi.

Conosciamo già la sua risposta: "Fotografia, viaggi e volontariato".


1° classificata
 
Eppure non ci siamo mai visti, di Francesco Minoia (Gibuti)
2° classificata
 
Il valore di un sorriso, di Simona Limoli (Etiopia)
3° classificata ex aequo
 
Sguardo d'oriente, di Elisa Cremonesi (Giordania)
3° classificata ex aequo
 
Sorridimi, di Francesca Mercurio (Etiopia)
3° classificata ex aequo
 
Si?, di Marco Povero (Moldova)

venerdì 5 ottobre 2012

Scatta il cantiere: "Contesto"

3 commenti:
Altra categoria del concorso è stata quella di fotografie rappresentative dei contesti in cui i cantieri si sono svolti: un ex aequo (primo di una serie).

1° classificata

Uno sguardo sulla città, di Maria Sofia Bonfanti (Giordania)


2° classificata

Burma mothers day, di Matteo Bodini (Thailandia)


3° classificata ex aequo

Nueva Vida, di Giulia Ballabio (Nicaragua)


3° classificata ex aequo

Moneda Moneda!, di Cristina Pozzi (Bolivia)

giovedì 4 ottobre 2012

Terra di Giordania

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"Tutto ciò che hai visto ricordalo, perché tutto ciò che dimentichi ritorna a volare nel vento”


Polvere. E terra. Tanta terra. Se chiudo gli occhi la posso vedere ancora davanti a me, con i suoi riflessi dorati e le sue sfumature incerte, che variano inseguendo il corso del sole.
La mia Giordania, in fondo, è proprio questo.
Dico mia perché in tre settimane ho amato e odiato questo spicchio di mondo, questo stralcio di terra che stranamente custodisce la pace, in un Medio Oriente a cui non è dato di trovare pace.
E quando ami e odi qualcosa, quando questi sentimenti si mescolano, inebriandoti, allora puoi star certo che stai vivendo. E non importa quale sentimento alla fine prevarrà, l’importante è che quel “qualcosa” ti abbia toccato nel profondo, così che possa appartenerti per sempre.
La mia Giordania, dunque, non in assoluto, ma per quello che io l’ho vissuta e per quello che, nel bene e nel male, essa mi ha lasciato.
La mia Giordania, dicevo, è terra e polvere.
Strano che, con tutto quello che i miei occhi hanno visto, io mi soffermi proprio su questo dettaglio. Eppure.
Eppure è ciò che più di tutto il resto mi ha colpito, perché ne ho come intravisto un filo conduttore. Un nodo capace di legare a sé tutto quello che ho vissuto e che, per ora, rappresenta un groviglio incerto di emozioni, immagini e suoni.
La terra di cui parlo la vedi anche dall’alto, dall’aereo. E’ un manto che pare stendersi all’infinito, costellato di città e paesi, o meglio: di ammassi informi di edifici. La Giordania è terra di rifugiati e i suoi paesi sono spesso un’evoluzione disorganizzata di antichi campi profughi, che si estendono senza alcuna grazia, fino a lasciare spazio al deserto.
La descrizione delle città meriterebbe un paragrafo a parte. Ci vorrebbero ore per poter descrivere nel dettaglio il caos, i suoni e gli odori delle città arabe. Bisognerebbe soffermarsi sui negozi di frutta e verdura, sui macellai, sull’uomo al crocicchio della strada che non smette di ripeterti “welcome”, sul bambino che cerca di venderti i chewing-gum, sulla donna velata che allontana lo sguardo. Ma soprattutto, bisognerebbe soffermarsi a descrivere la melodia del muezzin: poesia e preghiera che ammalia e affascina.
Ma non è questo di cui voglio parlare. Io voglio parlare della terra. Di quella terra che avvolge le città, e che ti scorre davanti quando viaggi sui pulmini, spostandoti da un luogo all’altro. In queste occasioni l’idea che ti fai è che in Giordania non esistono piante. La Giordania è un Paese senza ombra. Pensarci ti fa sorridere, perché in realtà di ombre, simboliche ed interiori, ce ne sono molte. Sono le ombre dei conflitti che hanno insanguinato il Medio Oriente, e che si fanno vive e concrete nei volti di chi qui ha trovato rifugio. In fondo, la Giordania ha questo pegno da pagare per aver salvaguardato la pace: tutti accorrono ad essa. Prima i Palestinesi, chiamati a scontare la loro “nakba”, la loro “catastrofe”; poi gli Irakeni, in fuga dalle guerre che hanno insanguinato il Golfo; ed ora i Siriani. La Storia, d’altronde, non smette di ripetersi.  E nel suo ripetersi porta con sé storie diverse, ma con costanti comuni. Penso a quella donna anziana a cui abbiamo portato visita. Palestinese, “dello stesso paese della regina Ranja”, fuggita nel 1948. I suoi figli sono figli della Giordania, perché qui sono nati, frutto dell’amore con un ragazzo giordano. Perlomeno loro non hanno visto le bombe, come invece hanno fatto i figli di un’altra donna, fuggita da Homs, fuggita da un Paese nel quale i suoi bambini non potevano più giocare per strada.
Ecco, queste sono le ombre che nasconde la terra giordana. Terra che, in fondo, dietro alla sua pace nasconde le sue belle contraddizioni.
Una di queste la posso rivedere in dei divani. Non ci avevo pensato prima d’ora, ma in Giordania mi sono seduta su un’ infinità di divani. Quando vai a fare visita a qualcuno, infatti, stai pur certo che questi troverà un divano su cui farti sedere. E ti capiterà, in quanto occidentale, di far visita a famiglie ricche, con divani bianchi, giardini perfetti, piastrelle luccicanti e piscina annessa. O almeno, a me è capitato. Ti capiterà poi, in quanto volontario, di sederti su divani scuciti, in stanze senza finestre, con i muri scrostati. In questi casi, è probabile che tu debba ascoltare storie per le quali ti sentirai un perfetto imbecille, seduto su quel divano, senza la possibilità concreta di fare qualcosa.
Contraddizioni. O semplicemente differenze. Differenze che convivono e si ignorano, come d’altronde accade qui da noi, nel nostro occidente, che tanto decantiamo come modello di civiltà.
A proposito di Occidente: li vedi gli occidentali in Giordania. D’altronde è inevitabile: si fanno riconoscere. Li vedi passeggiare per Amman e prendere il sole ad Aqaba. Li vedi con i loro pantaloncini, le canottiere e la macchina fotografica al collo: sfiorano la cultura araba, ma non si interrogano su di essa. La loro Giordania coincide con le meraviglie di Petra e con la straordinaria bellezza del Wadi Rum. La terra dei turisti è quella del deserto, che strega, affascina, rapisce. La gran parte di loro se ne tornerà a casa con queste immagini negli occhi, e bon, è stato un bel viaggio.
Eppure in Giordania, come dicevo, esiste altra terra. Esiste la polvere dei marciapiedi e dei cortili di Zarqa, per esempio. Ma è ovvio che da qui non passa nessuno, anche la guida turistica lo sconsiglia vivamente.
Eppure a me è toccato di passarci una settimana.
Alla sera dal balcone si vedevano i bambini giocare fra la polvere e i calcinacci. Per i bimbi musulmani, infatti, la strada coincide con il parco giochi. I bambini cristiani sono più fortunati, hanno l’oratorio, la parrocchia: una lastra di cemento con due canestri, meglio di niente. Peccato poi che quel cortile diventi l’unica dimensione della loro vita sociale: la comunità d’altronde è piccola, bisogna preservarla. E così i cristiani d’oriente si ripiegano su se stessi, si chiudono per paura di vedere cancellata la loro identità.
Devo dire che il loro attaccamento alla fede, talmente forte nella ritualità da divenire soffocante, mi ha sconcertata. Ma d’altronde il mio è uno sguardo occidentale, e per capire è necessario contestualizzare. Provarci almeno.
In ogni caso, non è su questo che volevo soffermarmi, bensì sulla terra di Zarqa. Città enorme, un groviglio di case addossate le une alle altre, vie e vicoli con nomi di re e principi, ma nemmeno una piazza: questa è la seconda città della Giordania. A guardarla, mentre ti scorre davanti al finestrino, sembra che tutto sia stato fatto a caso, ed in fondo è verosimile. Come è verosimile che lo stesso sia accaduto per Mafraq.
La polvere delle loro strade non è dissimile: i taxi e le macchine la sollevano allo stesso modo, i bambini vi corrono sopra con lo stesso entusiasmo. Eppure basta spostarsi di poco da questa città per respirare il sapore di una terra diversa, più amara. Una terra che molti turisti non vedranno mai, e che, nonostante tutto, appartiene comunque a quella stessa Giordania di cui porteranno a casa le foto.
Ci ho messo tanto, un giro enorme di parole, per arrivare a parlare di questa polvere, di questa terra.
Il suo nome è Zaatari, ed è un campo: un campo profughi. Ogni giorno vi arrivano circa 600 siriani tra uomini, donne, bambini e anziani.
Il campo è immenso, lo sguardo non riesce a coglierne la fine. Si dice che possa accogliere fino a 150.000 rifugiati, un numero enorme se consideri che dietro ad ogni cifra si nasconde un volto, una storia.
Ma la cosa impressionante è che non c’è nulla. Per l’appunto solo terra e polvere, per chilometri. E, ovvio, anche tende e persone. Dannazione, se ci penso mi vengono ancora i brividi.
Rivedo quel maledetto furgoncino della Caritas,
rivedo i nostri giubbottini blu con la scritta bianca in lettere latine,
rivedo i cartoni pieni di cibo e giochi per la distribuzione. Una distribuzione fatta alla cazzo, che più cazzo non si può.
Ma soprattutto rivedo quei bambini. Sono i figli della Siria, di una Nazione ferita, ma che mantiene la sua dignità. Sono bambini che non sorridono, e questo mi sconcerta, perché non so come muovermi, cosa fare, cosa dire. Mi limito a guardarmi attorno: a qualcuno chiedo timidamente il nome, qualcuno mi risponde, qualcun altro si ritira. Accarezzo qualche testa, ma smetto subito, perché mi sembra troppo un gesto di pietà, e loro non hanno bisogno di questo.
Vedo anche qualche genitore.
Vedo una madre con i suoi sei figli avvinghiati addosso: mi sorride. Purtroppo non abbiamo parole per parlarci, il nostro dialogo è muto, ma dice molto. Quanto invidio la forza di quella donna che, nonostante tutto, ha ancora il coraggio di sorridere!
Vedo un padre che tiene per mano i suoi due bambini, uno di loro in lacrime perché vuole un pallone. Il suo sguardo è duro e rassegnato assieme, è lo sguardo di un padre che non può far nulla per dare un pallone a suo figlio. E’ uno sguardo che congela, e che io non posso sostenere.
E poi ci sono gli adolescenti: arrabbiati e belli come tutti gli adolescenti del mondo. Gridano “Allahu akbar”. “Allah è grande”. “Dio è grande”. Ma quanto è grande Dio? Sarà più grande di questo campo profughi che si estende all’infinito? Più grande del dolore, della rassegnazione e della rabbia di questa gente?
Io non ne ho idea, non ne ho proprio idea.
So solo che io, invece, mi sento piccola, impotente, e a disagio in quel giubbotto blu troppo largo per me. Un disagio che non se ne va via nemmeno quando lasciamo il campo, che non viene spazzato nemmeno dal vento che alla fine ricopre di sabbia anche noi.
Ormai ho quello spazio terroso dentro agli occhi, e difficilmente lo dimenticherò.
Il punto è che il giorno dopo essere stati a Zaatari abbiamo lasciato Mafraq per girare la Giordania, anche noi da buoni turisti, da buoni occidentali. Abbiamo fatto le nostre foto galleggianti sul Mar Morto, abbiamo camminato per le vie di Petra e preso il sole sul Mar Rosso. E poi siamo stati nel deserto.
Sabbia, sole, sabbia, jeep, sabbia, stelle e ancora sabbia.
E lì è inevitabile. Lì ripensi per forza a quella sabbia, a quella polvere, alle molteplici polveri della Giordania: a quelle che ti sono entrate dentro, a quelle che ti hanno turbato, a quelle che ti hanno affascinato.

Per questo ora dico che la mia Giordania è terra.
In quell’elemento ci sta tutto.
Ci sta ciò che ho visto, ciò che ho respirato, ciò su cui ho camminato.
Ci sta tutto quello che ho vissuto. 
E questo basta.

Elisa


venerdì 21 settembre 2012

Kell marra

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Kell marra, no non è una minaccia tranquilli, significa "ogni volta"!
Ecco a voi il tormentone dell'estate Giordana!!! 
Il cantante, a dire il vero, è Libanese, ma a noi poco ce ne importa dato che ci ha fracassato i ****** per un'estate!
All'inizio era anche carina, ma ora OGNI VOLTA che la sentiamo ci viene da tapparci le orecchie!
Testo amoroso e banale, musichettina che ti entra nelle orecchie e ti rimane appiccicata in testa tutto il giorno, radio che lo sparano a tutto volume ovunque...
è lui il tormentone dell'estate 2012!! ce n'erano un po' in realtà ma dopo una dura lotta e un sondaggio lui ha vinto!!!
Eccolo a voi in tutta la sua truzza bellezza, godetevelo! 
NOI NON NE POSSIAMO VERAMENTE PIU'!!!




UN PO' UN POST

1 commento:


Un post in ritardo....
viene dal Medio Oriente, è normale...
un post non in ritardo non può essere un vero post Giordano!












Un post a caso...

un po' come la vita qui...
si va all'ispirazione del momento
foto sparse per il post
per rendere l’idea di come scorre il tempo qui
che non è lineare ma pare in modalità riproduzione casuale da playlist youtube
non sai mai quello che avverrà dopo
l’unica cosa che è certa è che probabilmente non accadrà quello che pensi possa succedere

Un post inshallah
che significa "se Dio vuole"
riferendosi a qualcosa che accadrà in un arco di tempo che varia da verundicimila anni luce nel futuro ai 3 secondi successivi.
Inshallah è l'unica risposta che qui pare avere un senso logico.
Il massimo è stato " mi passi la penna please?" "inshallah"
la penna è rimasta al suo posto... Dio non ha voluto...
nessuno mi aveva ancora spiegato che è anche un modo carino e molto educato per dire "ma muori"

Un post che è tutto quello che sono stati i cantieri.... un po' in ritardo ad aspettare sotto il sole, mani in mano, facce ormai rassegnate... 

un po' a caso a cercare, a girare, a chiacchierare, a procacciarci i dolci, il pane e i polletti per la cena, a preparare distribuzioni di vestiti per i profughi siriani senza avere istruzioni chiare sul come farlo, ad attendere quello che non sarebbe mai successo, a fare ramadan anche noi per caso… 

Un po' inshallah, che era la risposta che di solito si otteneva, utilizzata nei mille sensi che la caratterizzano e che variano dal " ma che ne so io?????????????? ", al " Dio è grande, provvederà" , all’ovviamente immancabile “ma muori”.....

Ci sarebbero altre cento cose da dire su questi cantieri, ma questo post è anche un po’ svogliato, impiastricciato di calura estiva giordana, quella che ti succhia le energie ... Quindi scusateci se non ci dilunghiamo in racconti prolissi ma è inutile perdersi in parole! L’unica cose che rimane da aggiungere su questi cantieri è che anche se svogliati, inshallah, a caso e perennamente in ritardo, sono anche stati dei cantieri hamdulillah, che significa grazie a Dio … perché sì, questo è anche un post un po’ hamdulillah!

grazie a dio che sono finiti? No, assolutamente no…



Avete presente quando vi ingozzate di cibo per le feste comandate e poi siete così pieni di tutte le possibili varietà di pietanze che l’unica cosa che riuscite a fare è accasciarvi sulla sedia slacciando i bottoni dei pantaloni? Ecco, qua quando uno è così pieno esclama soddisfatto “hamdulillah”….
Tre settimane fatte di voci, colori, suoni, giochi, incontri, passeggiate, lune piene, deserto e mare, narghilè e succhi di frutta, notti tirate tardi, canti e chitarre, domande e risposte, pensieri e sensazioni, profumi e tanfi,  delusioni e soddisfazioni, difficoltà e fatica, sorrisi di bambini e sguardi di anziani, donne velate e uomini in tunica, campi profughi e scuole estive, visite e giochi, tre settimane che sono state un vortice, un’abbuffata di vita condensata, che in parte è ancora ferma sullo stomaco …

Ecco avrò messo su un kilo! Ma di conoscenza, di tolleranza guadagnata, di sorrisi, di abbracci, di storie di vita da poter raccontare, di avventure esilaranti e di mille e mille altre cose … i pantaloni stringono e sposto il buco alla cintura … hamdulillah, altro da dire non rimane








lunedì 16 luglio 2012

UN POST PIU' UMANO

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Eccoci, un’altra mattina alla stazione degli autobus, fermi sotto un sole già rovente. Quanto aspetteremo oggi? Difficile fare previsioni … A volte bisogna lottare per accaparrarsi un posto, altre volte bisogna aspettare un tempo interminabile prima che il mezzo sia al completo di passeggeri e quindi pronto a partire. Non sappiamo mai a che ora saremo sul posto di lavoro: a volte arriviamo in anticipo, quasi mai in orario, spesso e volentieri in ritardo. Ma alla fine qua a nessuno sembra importare, la filosofia di vita è molto diversa dalla nostra, qui inshallah (se Dio vuole)  non è un’espressione, è uno stile di vita. Ci lasciamo alle  spalle Amman, attraversiamo Zarqa e presto il bus comincia a sfrecciare nel deserto. Un deserto di colline sassose e pietraie, un deserto che è solo un illusione, un intervallo di natura immota e potente che incontriamo quasi per sbaglio e presto abbandoniamo. Eccoci di nuovo in periferia. Il vecchino seduto dietro di me mi tocca col bastone, proprio come quando ci si vuole accertare che qualcuno sia ancora vivo, e io, che come al solito mi sono addormentata negli ultimi cinque minuti di viaggio, apro gli occhi:
È ora di  scendere.
Mi guardo intorno, respiro: aria secca, polverosa e calda. Sono arrivata a Mafraq.

Da sempre città di confine, città nel deserto, da qualche mese  città di rifugiati, di povertà, di dignitosa e composta disperazione.






 Eppure in apparenza tutto è così normale. I mendicanti ai lati delle strade sono di più, molti di più, sono donne anziane, bambini, anche uomini di tanto in tanto, parlano con un accento diverso, ma la gente non pare scomporsi; tutto pare abituale, scontato, ordinario. È strano trovarsi sul teatro di una tragedia e vedere come la vita continui a scorrere impassibile, imperturbabile. Con ordine la società civile giordana si è apprestata a soccorrere gli sventurati vicini, come se fosse la cosa più normale del mondo, come se fosse scontato che dopo ai Palestinesi e agli Iracheni in qualche modo anche ai Siriani toccasse il proprio turno. I mass media non gridano all’invasione come fa la stampa nazionale nostrana ad ogni singolo sbarco di immigrati, sono al contrario solidali, parlano di aiuti e di progetti di accoglienza, di ospedali da campo, di realtà locali impegnate nell’emergenza e delle ONG straniere che le supportano. C’è preoccupazione e c’è tensione, è normale, la Giordania non è un paese ricco e ha già seri problematiche sociali con cui deve fare i conti, ma le persone accolgono prontamente, senza sospetti e con generosità.
 È vero, Il governo non ha una posizione chiara e cerca di non sbilanciarsi e questo, sicuramente, va in parte a discapito delle condizioni di vita dei Siriani in suolo Giordano, ma la popolazione civile, anche se stanca e preoccupata, accoglie e aiuta. I movimenti informali nati dal basso, dalla gente comune, sono molti: ci sono  iniziative culturali, spettacoli di vario tipo, concerti di gruppi ska e rock, una rarità nel panorama musicale mediorientale,  il tutto per raccogliere fondi per chi è scappato, per tutti coloro, e sono tanti, che ogni giorno varcano la frontiera. È vero, tante persone vivono “l’emergenza” come una realtà distante e lontana, la stragrande maggioranza della popolazione infatti vive alla giornata arrabattandosi e ingegnandosi in mille modi per arrivare a sera,  ma, nonostante ciò, il tessuto sociale Giordano è vivo, si attiva, risponde e crea reti di solidarietà accantonando la stanchezza e l’amarezza che contraddistinguono quest’ennesima tragedia mediorientale.

Al contrario di ciò che avviene in Italia, qui i mass media non utilizzano meschini sotterfugi linguistici per diffondere incertezze e paure, per creare sindromi da Cassandra alimentando quella che è stata più volte magistralmente definita una “tautologia della paura”. Da noi gli immigrati sono clandestini, irregolari, delinquenti, invasori, sono portatori di una cultura troppo diversa e quindi pericolosa, sono quelli che ci rubano il lavoro e che creano insicurezza sociale, sono chiusi, arretrati, sono individui pericolosi per la società, sono, in sostanza, capri espiatori che portano lo stigma di colpe non loro.

Qui i Siriani sono “ fratelli per cui si deve pregare” , forse sono visti come vittime ma questo punto di vista non è accompagnato dal paternalismo che invece è proprio dei discorsi pubblici italiani e, più in genere, europei. Quello che ho notato qui in Giordania è che quando si parla di Siriani si parla di PERSONE, uomini, donne, bambini che continuano a possedere una loro dignità.

E dal cuore del mondo musulmano, quel mondo che tanto spaventa noi occidentali poiché spesso considerato arretrato e violento, giunge una lezione di dignità, umanità e fratellanza: sulle coste italiane sbarcano clandestini, qui si accolgono persone.

Distribuzione di beni di prima necessità a Zarqa


Il tassista che mi riaccompagna a casa accende la radio, ascolta le notizie poi alza le spalle e dice: “ altre bombe, hai sentito? Prega, prega anche tu. Allah deve aiutare i nostri fratelli Siriani”.


domenica 8 aprile 2012

... Al posto della libertà ...

2 commenti:

E volto le spalle... lasciandomi alle spalle una desolazione incrociata solo superficialmente, forse più con l'animo che con gli occhi. Il mio sguardo non si è soffermato sui volti talora stanchi talora spaesati delle persone che mi circondavano, una sensazione strana me lo impediva, come una percezione di estraneità.
Alzare lo sguardo era come voler sfidare quei volti segnati da dolori e fatiche e ciò mi metteva a disagio.
Sono entrata a testa bassa, incerta del significato della mia presenza là tra loro e a testa bassa sono uscita dopo aver parlato con il capo della polizia che ovviamente esigeva un'autorizzazione per farci entrare nel campo profughi, che poi così non dovrebbe neanche essere chiamato anche se di questo concretamente si tratta. Mi dirigo verso l'uscita fissando la terra polverosa, il capo chino, non perchè io sia delusa ma perchè non ho ancora trovato il coraggio di sostenere gli sguardi interrogativi, quasi diffidenti, che si posano su di noi. Sono sollevata: per oggi non dovrò entrare nell'inferno. Le anime sventurate che lo popolano sono Siriani, gente semplice, contadini, donne e bambini, l'età media nel campo oscilla tra i 19 e i 29 anni.
“Ragazzi come noi”
Questo ho pensato quando la dirigente dell'associazione di assistenza medica affiliata all'UNHCR ha risposto alle nostre domande.
“Quanti sono?”
“Tanti, ogni giorno sempre più. Dal 29 marzo il numero sale esponenzialmente.”
Azzarda una stima “ Si contano circa 15.000 displaced people qui in Giordania” . 
Difficile trovare due fonti che concordino sul numero esatto, quello che è certo è che sono molti.
… ragazzi e ragazze...  
Persone che hanno subito violenze e torture e sono state costrette a fuggire, ad allontanarsi dalla casa e dalla famiglia, a lasciarsi tutta una vita  alle spalle, esistenze sradicate e trapiantate in un' altra realtà, umanità ferita, raccolta in un luogo che non è tale, in un campo che è un non luogo, dove la vita si ferma, arresta il suo naturale corso come sospesa. Molti, tutti vogliono tornare in Siria, non accettano questa forzata e tragica parentesi nella loro vita, questa fuga imprevista che ha drasticamente interrotto le loro vite costringendoli a fuggire. Dietro a tutta questa violenza, perché quando si costringono migliaia di persone ad interrompere drasticamente le loro vite di questo si tratta, solo dati incerti, percentuali e stime numeriche che mostrano realtà completamente diverse.

E dall’occidente giungono voci contrastanti: mentre i mass media raccontano di un governo che per mezzo dell’esercito attacca la sua stessa popolazione vi sono molti giornalisti che scrivono di una realtà molto diversa e parlano di una rivolta strumentalizzata e fomentata dall’occidente[1].
“You’ll get the shari’ah and we’ll get the oil”, questo è lo slogan che secondo molti si nasconde dietro l’ennesimo tentativo di esportare la democrazia. Non è forse ora di chiedersi per quanto questa scusa, ormai trita e consunta, ci ingannerà ancora?
Intanto ad Amman si contano a decine i mercenari inviati dai paesi del Golfo, dalla Libia, tra loro anche qualche pashtun afghano[2]. L’Arabia Saudita proclama che sono stati inviati per sostenere i ribelli, per combattere contro il regime oppressore di Assad; non è forse legittimo chiedersi da che parte stiano allora questi ribelli? Siamo sicuri che dei mercenari talebani possano combattere per la democrazia? Il regime è sicuramente corrotto, ma i giochi di potere sono molto più complessi di quello che in realtà sembrano e questa rivolta non è solo una sollevazione popolare, sotto ci sono interessi ed equilibri molto più complessi di quello che le fonti ufficiali di informazioni lascino trapelare[3].

I pensieri si affollano confusi, più si va a fondo della questione meno la si comprende. L’unica cosa certa è che questa calcolata disinformazione fa parte del gioco e a testimoniarlo basti citare la dimissione di 5 giornalisti corrispondenti di Al Jazeera a causa delle menzogne diffuse dalla nota emittente[4].

Ma questa volta è diverso, le vittime della tragedia non sono fantasmi lontani rievocati da numeri e cifre distrattamente letti nei giornali, questa volta sono esistenze che ho sfiorato, vite incrociate quasi per caso, incontri mancati che continuano ad essere avvolti in una coltre di silenzio spessa tanto quanto la mia incapacità di ridare loro quella dignità di persone perduta e cancellata dal campo, dalle definizioni ufficiali, dai numeri e dalle percentuali. Abbassando lo sguardo non faccio altro che sancire la loro condanna.

Il mio sguardo si posa nuovamente sulla terra polverosa, terra giordana, terra di una nazione creata dal nulla e dal deserto, popolata di rifugiati e che continua a prestare fede alla sua vocazione rinnovando di giorno in giorno il suo ruolo di mediatrice tra occidente e medio oriente grazie all’abile equilibrismo dei suoi sovrani. Terra che per l’ennesima volta si riconferma un’isola di relativa quiete circondata da un mare in tempesta.

Alzo gli occhi al cielo: uno stormo di uccelli in volo cattura il mio sguardo.
Provengono da nord, hanno appena sorvolato il confine eppure per loro non c’è un campo ad attenderli, loro sono liberi di volare ovunque, senza barriere, senza status ufficiali, nessuno li additerà come “displaced”.
E forse un po’ ingenuamente penso alla libertà così come è intesa dagli uomini, a quest’ideale astratto che diviene spesso gabbia e prigione.
Dove abbiamo sbagliato? Cosa ci sfugge?

lunedì 12 marzo 2012

Giordania: stereotipi utopici

5 commenti:

Ormai sono trascorse più di due settimane dal nostro arrivo in Giordania...

... "mmm.. ma dove sono?" la camera bianca, un po' ospedaliera, è la prima cosa che riporta alla realtà: "buongiorno, sei ad Amman, te lo ricordi?" odiata sveglia che suona sempre puntuale alle 7 di mattina... è vero... siamo proprio ad Amman…  
Due settimane sono giusto il tempo necessario per capire che si sta vivendo una nuova realtà. 

Ma gli stereotipi di un paese immaginato a lungo sono già crollati tutti, o quasi. 

Primo: la Giordania è un paese arabo e nei paesi arabi guidano come pazzi. Rischieremo la vita ogni volta che prenderemo un taxi.
Non è così. Incredibilmente in Giordania gli stop,i sensi unici, i semafori vengono rispettati, la velocità, seppur non proprio moderata, non è da primato di formula uno e per ora non abbiamo neanche visto nessuno di quei fantastici taxi in cui si deve per forza salire in 7, autista compreso, e si finisce inevitabilmente spiaccicati contro il finestrino. L'attraversamento della strada è comunque uno sport ancora un po' rischioso, da praticare quando si sono sviluppate buone doti di agilità e velocità.

Secondo: La Giordania è un paese arabo e tutti cercheranno di attaccare bottone una volta capito che hanno di fronte degli stranieri.
Niente di più sbagliato. Qui a nessuno frega nulla che tu sia italiano, iracheno, cinese o della Groenlandia, a prescindere dalla tua nazionalità tutti si fanno i cavoli loro.


Terzo: La Giordania è il paese della Regina Rania, che è una banalità ma quando abbiamo comunicato  a parenti e amici che saremmo partiti per un anno per il servizio civile all'estero nel suddetto stato la maggior parte delle persone ci rispondeva: " oh che bello! Il paese della principessa!". Eh chi non la conosce d'altronde? E' bella, socialmente impegnata, emancipata, occidentalizzata... E forse è proprio quest'ultima caratteristica a causarle il maggior numero di problemi; Rania si veste all'occidentale, è vero, e questo a molti non sta molto bene, ma, nonostante ciò, molti giordani non hanno nulla da ridire sulla sua mise così poco tradizionale contestandole bensì il ruolo troppo influente che esercita a corte. Rania è una regina politicamente impegnata, la sua opinione è ascoltata ed influisce in modo decisivo sulle decisioni politiche del re e questo, ovviamente, piace poco a chi ha ancora una visione molto tradizionalista della donna. Quindi avrete già ben capito che nella sua terra non è così amata. 
Se poi ai motivi sopra elencati aggiungiamo che è di origine palestinese, la nazionalità dei numerosissimi rifugiati che si stono stabiliti in Giordania, indebolendone, secondo il parere di molti, la già fragile economia, che recentemente la sua famiglia è stata al centro di una serie di scandali riguardanti la corruzione e che lei stessa mostra vere e proprie tendenze allo sperpero degne della celebre Maria Antonietta organizzando per i suoi 40 anni sontuose feste nel deserto del Wadi Rum, possiamo capire quanto la sua popolarità sia limitata in patria.

Quarto: La Giordania è un paese arabo e quindi le città saranno molto caotiche, perennemente rumorose, il nostro viaggio sarà ovunque accompagnato da un vociare concitato, verremo bombardati da una cozzaglia di suoni, rumori e voci.
E invece indovina un po'? Silenzio... solo il rumore di un traffico ordinato ma comunque un po' congestionato. Ogni tanto passa il tamarro di turno con la nuova hit di ‘discotruzzeriaaraba’ a palla, ma è l'eccezione e non la regola. Il tono di voce che usano per strada è molto più sommesso del nostro siccome noi, come ogni italiano che si rispetti, ce ne andiamo in giro a parlare e a ridere ad alta voce sovrastando la quieta Giordana che più di paese arabo sa di nord europa.
                                                                                                                                                                                                       
Quinto: la Giordania è un paese arabo e quindi è un paese di emigrazione.
Mai idea fu più sbagliata. 
La Giordania è il paese che ha ospitato il maggior numero di Palestinesi, 1.700.000 dal 1948. Più recentemente ha ospitato molti iracheni un fuga dal conflitto del 2003 e proprio ora si sta attrezzando alla frontiera nord per ospitare i profughi siriani che già hanno cominciato ad abbandonare il loro paese.
Inoltre molte famiglie più o meno benestanti della capitale si avvalgono dell’aiuto di domestici stranieri, provenienti soprattutto da Filippine, Sri Lanka e Indonesia. In tutto i collaboratori domestici sono circa 70.000, 
non pochi se rapportati alla popolazione Giordana che raggiunge appena  i 6 milioni di individui.


Sesto: La Giordania è un paese caldo.
Che in linea di massima è vero… però a volte in inverno nevica anche ad Amman, la temperatura scende sotto lo zero e fa freddo, molto freddo. La maggior parte delle case sono costruite per rimanere fresche durante l’estate e quindi con la pioggia e la neve diventano umide e gelide e questo l’abbiamo proprio sperimentato sulla nostra pelle trascorrendo 4 giorni sepolti  sotto le coperte abbracciati a delle bottiglie piene di acqua quasi bollente nel tentativo, abbastanza vano, di scaldarci un po’.

Ma ora è tornato il sole e la primavera fa sbocciare i ciliegi per le strade di Amman, illuminando i mille volti di questa Giordania ancora tutta da scoprire e che non smette mai di sorprenderci.