martedì 28 febbraio 2006

Olor a Nicaragua

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Odori nicaraguensi

Alle cinque e un quarto sono già sveglia.

Dalla finestra entra la brezza mattutina che porta con sè il tipico profumo dell'ammorbidente del quale sono intrisi i panni di mezza Managua.

Entro nell'autobus e percorro la solita strada di tutti i giorni, ancora ammantata dal torpore della notte. Fioche luci illuminano già molte case dove mani indaffarate arrmeggiano sui fornelli ponendo a friggere il riso, dopo averlo precedentemente risciacquato.

Dal finestrino entrano ed escono voci ed aromi che si fondono insieme offrendoti la possibilità di ubicarti nel cammino pur matenendo gli occhi chiusi.

La pulperia "Los hermanitos" (piccola drogheria famigliare, ndr) già gremita di gente smercia il pan dolce e le bevande, il baretto all'angolo tutte le mattine cuoce il maduro (banana tipo platano) che mi piace tanto e mi da il benvenuto in Ciudad Sandino con quel peculiare odore agrodolce, ormai inconfondibile per il mio olfatto.

Inspiro profondamente ed è un po' come se degustassi il suo sapore e la consistenza così tipica del maduro fritto.

Quando arrivo io al centro scolastico di Redes, braccia esperte sono già indaffarate da un'ora per offrire a trecento piccole bocche quello che a volte è l'unico pasto completo del giorno.

Un acquazzone tropicale improvvisamente disseta la terra che puntuale ricambia sprigionando vapori d'humus e muffe, che il sole pensa bene di irradiare affinchè rimangano più a lungo sospesi nell'aria immobile.

Le mie orme segnano la sabbia umida fino alla fermata del bus che mi riaccompagnerà a casa sgattaiolando per le vie della città, sostando di quando in quando per permettere a venditori ambulanti trafelati e accaldati di salire ognuno con il proprio variopinto carico di mercanzie. La canasta di donuts (ciambelle) emana il classico profumo delle vacanze estive di tanti anni fa, quando la nonna veniva a svegliarmi con le frittelle appena sfornate, avvolte nel tipico sacchetto marrone del pane, unto d'olio.

La brezza pomeridiana che entra dai finestrini porta con sè l'odore dell'olio bruciato che esce inequivocabilmente dal radiatore dell'autobus, ma che non scompone nessuno ne desta preoccupazioni.

Al callejon è la mia fermata.

Un breve tragitto a piedi in cui la mente ricapitola velocemente la giornata, per assaporare dopo pochi minuti il profumo di casa, profumo di rifugio, di calore, dei mie capelli umidi sul cuscino che accompagnano il calar del sole e preconizzano l'arrivo di un nuovo giorno.
 
di Gloria Perin
volontaria in Servizio Civile in Nicaragua

martedì 14 febbraio 2006

Cosa mi fa sorridere della Romania

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"Chiara, avremmo piacere ad averti in Romania...", così mi ha detto Maurizio quando mi ha chiamata dopo le selezioni per il servizio civile. Lì per lì mi sono detta:

"...Romania....vicino alla Bulgaria?...meglio che guardi sull'atlante...Romania D5....bhè ha la forma di un pesce...".


Ecco tutto quello che sapevo quando sono partita per questa terra così vicina e così lontana a noi.

La prima cosa che mi ha colpito di Bucarest (perchè è lì che svolgo il mio servizio!!) sono stati i contrasti: la frenesia di case e palazzi in stili diversi, lusso e povertà, tutto rimescolato come se la città si fosse edificata precipitosamente. E ora, anche se di sensazione ne ho tante, questa è quella più radicata in me, quella che dovunque vada non mi abbandona mai.

Ieri mi hanno chiesto cosa mi facesse sorridere della Romania. Mi si è stagliata davanti agli occhi un'immagine dei primi giorni: due "tzigani" che con il loro carretto, trainato da un asino, girano per le strade di Bucarest e gridano "fier ve, fier rot", ferro vecchio, ferro rotto. Ogni giorno, e più di una volta al giorno sotto casa o sotto l'ufficio o per strada, incontri questi buffi personaggi, vestiti con i colori più variopinti, che raccolgono il ferro. Il loro grido è come una cantilena, e per qualche minuto mi estraneo, ascolto questa specie di litania e mi rilasso. Se posso, mi affaccio alla finestra e li osservo: gli uomini con i loro baffoni e i loro visi duri e scuri e le donne con i capelli neri raccolti in una coda e le loro gonne larghe e lunghe. A volte rido a pensare che in Italia una gonna così farebbe tendenza, qui invece è di cattivo gusto, è il simbolo di riconoscimento degli tzigani.
Eh sì, nonostante io sorrida tutte le volte che li vedo, il rapporto tra rumeni e zigani non è dei migliori, c'è sempre una sorta di guerra fredda tra loro....ma non voglio parlare di questo, solo delle cose che mi fanno sorridere e che mi piacciono

I rumeni sono un popolo molto ospitale
. Ci vuole un po' per conquistare la loro fiducia ma appena riesci ad entrare nel loro mondo ti ricoprono di gentilezze e ti ritrovi intorno ad una tavola imbandita di ogni ben di Dio; e guai a non mangiare, li offendi!!!!

Per quanto tutti non la sopportino, per me la cosa più buona di tutti questi mesi è stata la ciorba, una specie di minestra acida di verdure fatta con il borsch, un liquido acido che si ottiene dall'essicazione di un ramo di ciliegio. Che ridere quando Nicusor voleva darmene una bottiglia da portare a casa in Italia!!! "Nicuscor ho troppi bagagli e poi non so cucinarla", "Ti insegno io" mi ha detto. "La prossima volta, ok? A gennaio mi insegni". A malincuore e anche un po' offeso si è rassegnato.

I rumeni sono così, difficili da conquistare ma una volta che entri nel loro "giro" non ti lasciano più andare!!! Vi racconto un'ultima immagine tra le tante che affollano la mente: un ragazzo di Sf. Macrina, il centro di transito per ragazzi di strada, dove prestiamo servizio.

Vali ha più o meno 20 anni, capelli castano chiari un po' ricci. Passa le sue ore al centro, a guardare la televisione, il suo canale preferito è Mtv. Da quando era bambino assume Aurolac, una droga fatta di colla e solvente che attenua fame e freddo, ma brucia anche le cellule cerebrali. Vali, credo non riesca più a distinguere la destra dalla sinistra, quando gli parli ti sorride e chissà cosa recepisce di quello che gli dici. L'unica frase che ti sa dire è "nu stiu", non so. Qualsiasi cosa tu gli chieda non capisce.

Ti sorride con lo sguardo un po' assente e poi continua guardare la tele. Vado al centro da 5 mesi e non son mai riuscita a coinvolgerlo nelle attività che svolgiamo con i ragazzi. Un giorno eravamo seduti l'uno di fronte all'altro, ho preso un gioco e sapendo già la risposta gli ho chiesto: "Vali, giochiamo?", ".....Sì....". Non credevo a quello che sentivo. Mai si era azzardato a giocare con noi. Ho iniziato a spiegargli il gioco e lui sorrideva con quello sguardo perso nel vuoto. Io ridevo a mia volta, un po' perchè non capiva che doveva girare due carte e un po' dalla gioia. Il tutto sarà durato un quarto d'ora e alla mia nuova domanda: "Vuoi giocare ancora?", lui mi ha risposto no. Ma non importava, ero riuscita ad instaurare una relazione con lui.

La sera ero tornata a casa e l'avevo raccontato a Chiara: "Davvero?", anche lei era incredula!! Quella è stata l'unica volta che sono riuscita a fare un banalissimo gioco con lui e quel ricordo lo custodisco nel mio cuore gelosamente, quel suo sorriso, quei suoi capelli castani e quel suo....."Da"....!!!

Chiara Sarasini,
volontaria in servizio civile in Romania

Quotidianità a Bucarest

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Piata Muncii - Piata Iancului - Obor - Stefan Cel Mare - Piata Victoriei - Gara de Nord...Gara de Nord! la mia fermata! Prendo velocemente la giacca, la sciarpa, la borsa ed eccomi a percorrere Calea Grivitei.

All'uscita della metropolitana il mio sguardo è catturato dai riflessi delle finestre dell'imponente Hotel Continental, situato a pochi metri dalla stazione dei treni. Ma all'istante distolgo la vista per soffermarmi sulle mani arrossate dal freddo di un'anziana signora. Con costanza vende calze appoggiata alla siepe che delimita il parcheggio dell'hotel. Cammino frettolosamente ed oltrepasso la via che accede al mercato Piata Matache, dove si affollano persone che si fanno spazio tra bancarelle, vetrina di ogni tipo di merce, e le nuvole di fumo dei mitch appena cotti.

Sull'angolo osservo come sempre incuriosita la scritta arrugginita di un vecchio cinema, le finestre rotte della porta a vetri lasciano intravedere all'interno un bancone e i cartelloni di qualche polveroso film.


Dal lato opposto della via si susseguono antichi palazzi,


di alcuni è rimasto solo lo scheletro, divenuti dimora dei senzatetto.
 
Mi viene incontro una bambina zingara: occhi scuri che risaltano sul viso contornato da due lunghe trecce nere. Attraversa correndo la strada, tenendo tra le mani la gonna sgargiante di colori, per poi d'improvviso sparire nell'angolo buio di qualche palazzo.
Affretto il passo lasciandomi alle spalle la chiesa ortodossa,oltrepasso con un accenno di timore e presunta indifferenza il cane che sonnecchia in mezzo alla strada. Immagini, pensieri legati ad una realtà che continua ad affascinarmi.


Ed ecco che mi travolge l'abbraccio di Claudiu e Tibi, il sorriso di Leo, il salto al collo di Mishu, il baciamano di Giovani...sono arrivata a Casa St. Joan.
 

Roberta Raineri,
volontaria in servizio civile in Romania

Una giornata intensa

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Questa mattina il paesaggio fuori dalla finestra ha cambiato colore. Quando ho aperto la porta tutto era bianco e silenzioso.

Io, la neve e il vento. Soli.

Io: giaccone verde mimetico, guanti spessi e berretto ben calato a coprire le orecchie, al momento di uscire un'esitazione, e poi, via, nel bianco freddo di questa giornata.
La neve: come polvere, ghiaccio grattugiato finissimo, asciutta. Ogni folata di vento spostava quella che già si era posata sulla strada. Tranquilla è scesa per tutto il giorno, con costanza.

Il vento: freddissimo.

Per tutto il giorno sarà una dura battaglia.

E' lunedì, vado a Plovdiv per aiutare le suore di Madre Teresa nella preparazione e nella distribuzione del cibo alla mensa dei poveri che loro hanno. E' questo che mi porta ad uscire di casa nonostante le condizioni meteo mi spingerebbero a fare il contrario. Quando, arrivato a Plovdiv, scendo dall'autobus, scopro che in città, per qualche strano motivo, fa ancora più freddo che a Rakovski. Alla fermata dell'autobus cittadino non posso fermarmi dal tremare, in piedi, accanto ad un baracchino dietro al quale mi nascondo per ripararmi dal vento, chi aspetta accanto a me invece è tranquillo e fermo. Sull'autobus l'idea di scendere mi spaventa ma, una volta attraversata la città, per forza di cose scendo. E subito mi rifugio nel Cafe di un supermercato per prendere qualcosa di caldo, fare la colazione che ancora non ho fatto. The caldo e brioche. Quando ho finito mi preparo per uscire di nuovo.
Ciò che mi aspetta è quella che normalmente si chiamerebbe una passeggiata di cinque minuti ma che oggi ha tutta l'aria di essere una lunga traversata. I primi cinquanta metri vanno senza particolari sensazioni negative, poi i pensieri si riducono ad uno solo: "freddo, freddo, freddo, ... ".

Qui inizio a pensare a come raccontare questo momento, a quali particolari inserire, a come renderne la drammatica epicità. All'inizio metto le mani come paraocchi per proteggere il viso dalle folate, poi accelero, faccio qualche saltino per far circolare il sangue, proseguo e pian piano mi accorgo che quelle che non sento più sono le gambe, un rapido massaggio e via, supero il blok che mi proteggeva e il vento si fa ancora più forte, allora penso che da domani metterà sempre due paia di pantaloni, corricchio, salterello, cammino un po' all'indietro per dar tregua alle gambe, ora inizio a intravedere la chiesa delle suore di Madre Teresa, là dove devo andare, la vedo ma non la raggiungo mai, penso a quanto ho freddo e rido fra me e me, poi, finalmente, supero un cassonetto in cui qualcosa brucia e fuma e ... ci sono, ce l'ho fatta!, ancora qualche metro protetto dal muro, svolto l'angolo e finalmente suono il campanello.

Fuori con me ci sono già alcune persone che aspettano di entrare a mangiare. Quando suor Massimiliana apre entro io con loro, subito il caldo mi ristora, mi chiedo e chiedo come possano loro vivere in strada o in case abbandonate con questo freddo terribile, che mi fa sembrare pochi metri un'impresa epica. Raggiungo il calorifero e là mi raggiunge la suora, che mi offre un the che io di nuovo accetto, per ristorarmi. Mentre bevo e mangio qualche biscotto, le persone entrano, siedono, stanno un po' al caldo e aspettano la distribuzione del cibo. Dopo poco scendo anch'io in cucina, a ricevere le prime istruzioni.
Tagliare il formaggio, tagliare il pane, una fetta di formaggio ogni tre di pane, tutto per cinquanta persone circa. In questo tempo ho modo di parlare un po' con suor Massimiliana, di cosa fanno in questi giorni, di cosa facciamo noi, del freddo, di loro, ecc. Quando la prima distribuzione è finita, la suora mi invita ad un momento di preghiera cui io partecipo volentieri e al termine del quale mi viene offerto da mangiare. Quando ho finito scendo, finisco di tagliare il pane, apparecchio i tavoli e poi torno su a godermi un momento di pausa in cui bere un altro the caldo, leggere e pensare.

Verso le due arriva però una telefonata, in seguito alla quale andiamo tutti in cantina a preparare degli scatoloni pieni di scarpe e vestiti per bambini, sei scatoloni per dieci bambini, li portiamo su, li ammucchiamo e poi torniamo a quello che rimane della pausa. Dopo un altro momento di preghiera diamo da dare da mangiare agli uomini che vengono alle tre. Oggi sono pochi, poco più di una ventina. Dicono una preghiera, leggono il vangelo del giorno, una suora dice due parole e poi ... si mangia. Distribuire i piatti, il pane, il bis, il tris, fino a che la zuppa non finisce. Poi poco a poco se ne vanno tutti, anche se qualcuno resta a dare una mano per pulire. Dalle loro stanze scendono le signore che qui vivono, lavano le stoviglie mentre noi puliamo e laviamo la sala.
A un certo punto appare la direttrice di una ong. Io, con lo straccio in mano, la saluto, ma non mi riconosce. Dietro di lei ci sono degli uomini in divisa che poi scopro appartenere ad una sorta di assistenza sociale comunale dedicata alle emergenze. Lei parla un po' con le suore e poi, ancora con indosso i grembiuli, ci mettiamo a portare in un grosso camion gli scatoloni, che da sei sono diventati otto. Poco dopo, salendo per una scala di sei sette scalini, siamo noi ad entrare nel retro di questo camion speciale, che tanto ricorda quelli per il trasporto dei carcerati o i grossi carri del circo. Chiusi là dentro, senza vedere nulla, in compagnia della direttrice, veniamo sballottati per un lungo tempo fino al luogo di destinazione.

Quando scendiamo dal carro la situazione è a dir poco strana. Siamo in mezzo al nulla.
C'è una casa piccolissima e tre enormi mezzi delle forze per la salvezza dell'umanità: il nostro enorme camion, una jeep dello stesso ente e un'ambulanza.
Un bambino in maglione viola lascia la casa e inizia a camminare diretto verso il nulla, lasciandoci così esterrefatti. Nel frattempo noi ci guardiamo attorno e ciò che si vede sono solo campi e campi innevati e montagne anch'esse innevate, solo in lontananza si può scorgere un'altra casa isolata. Senza ben capire scarichiamo i nostri pacchi, fra noi un po' scherziamo sul numero che pare spropositato e poi entriamo in questa casa/stanza. Questa è completamente spoglia, circa venti metri quadrati ma ben riscaldati da una stufa a legna. I bambini ci sono e oltre a loro ci sono altrettante persone venute non si sa bene per cosa, forse per prender parte a diverso titolo a questo evento, ognuno in qualità di direttore di qualcosa. Tutti danno fondo alle loro capacità retoriche, chi chiedendo se vanno a scuola, chi chiedendo invece se pregano Dio, altri tacciono. Nessuno sembra esser là per ascoltare. I bambini sono stati appositamente lavati per l'arrivo dei visitatori, sono molto belli, sorridono molto, ci sono anche due gemelli di quattro mesi. La loro bellezza, i loro occhi, la loro giovialità non possono non colpire chi per un attimo si fermasse a guardare. E allora viene voglia di stare fra loro, scambiarsi parole e sguardi di complicità, ritagliarsi un angolo di intimità in questa confusione. Un po' vorrei che capissero che io e le suore non siamo come "loro" e in tutta questa abbondanza vorrei regalare a Venko il cioccolatino che ho in tasca, come se fosse un tesoro prezioso, ma non ne ho la forza. Lui, con il suo maglione viola, era andato a chiamare la mamma chissà dove, forse all'altra casa che si vedeva in lontananza, dove, in due stanze, con la nonna, vivono altri bambini e qualche adulto per un totale di circa venti persone. E' una famiglia rom molto allargata e, alla luce di questi numeri, forse i nostri pacchi non erano poi così tanti. Dopo un poco, senza aver fatto nulla che giustificasse quella calata da esercito, prendiamo la via del ritorno, questa volta però saliamo sull'autoambulanza, e, seduti su una portantina, torniamo alla casa delle suore.

Una volta là mi viene offerto ancora un the, che diligentemente rifiuto, e io, a piedi, vado a perder l'autobus. Quando salgo su quello dopo mi accorgo di avere un freddo cane ai piedi, invoco il caldo ma prima che questi si siano riscaldati devo scendere e raggiungere l'altra fermata dove aspetterò l'autobus per Rakovski. Dopo lunghissimi venti minuti, quando ormai disperavo, l'autobus arriva, salgo, mi siedo vicino al bocchettone dell'aria calda, mi libero delle scarpe e metto i piedi, le cui punte sono ormai congelate, a godere del getto caldo che i potenti mezzi bulgari offrono. Ormai la casa è vicina.

Una volta a Rakovski la giornata si può dire conclusa, pochi metri mi separano da casa, da una bella doccia bollente e, non prima di aver scritto qualcosa, dal letto.

Poi, domani, riposo.

Francesco Malossi,
volontario in servizio civile in Bulgaria