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domenica 8 settembre 2019

Haiti Tololo

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Come si può raccontare un’esperienza di un mese in poche righe? Come tradurre per iscritto emozioni, sensazioni, odori e gusti provati in questo mese?

“Ma vai ad Haiti quest’estate? Ma sei sicura? Guarda che è pericoloso!”. Ma io queste frasi le ho ignorate, non ci ho dato peso, quasi non le ho neanche ascoltate.
Sono partita per Haiti senza troppi pensieri, senza pregiudizi e senza aspettative per lasciarmi stupire ed emozionare da tutto ciò che mi sarebbe successo.
Ed ecco cosa è successo.

Si, Haiti è davvero uno dei paesi più poveri al mondo.

È un paese con tasso di disoccupazione e di analfabetismo elevati, con 768 km di strada asfaltata (su 4266 km). È il paese dove gli scarichi fognari sono a cielo aperto, i bambini corrono scalzi, dove la giornata è scandita dalla luce del sole perché la corrente, dove c’è, viene fornita solo poche ore al giorno e quando viene buio tutto si ferma perché di notte ci sono i lupi mannari; dove l’acqua potabile non è un bene disponibile così facilmente, dove i bambini camminano ore per recuperare un barile di acqua sotto il sole caraibico.
È un paese dove l’immondizia si brucia e l’odore in capitale è soffocante, dove le case (si possono chiamare case?) sono in cemento (tutte in cemento), una vicina all’altra e i vicoletti dei labirinti stretti stretti.


È un paese dove se sei straniero sei al centro dell’attenzione, dove per la strada ti urlano “blan, blan” con toni a volte aggressivi e a volte per te, i prezzi al mercato si alzano esageratamente, dove sei considerato “quello ricco”, dove bambini e ragazzi quando vedono che hai un paio di occhiali da sole, uno zaino, un bel cellulare ti dicono “Bamwen” (dammi!!) o ragazzi ti chiedono di pagargli le spese dell’università.



Si, Haiti è davvero così!!Ma è soltanto questo?
No! Haiti non è solo questo!Anzi..

Haiti è terra con paesaggi mozzafiato (dalle montagne alle colline, passando per gli altipiani e per il mare), con il mare azzurro caraibico e distese verdeggianti, albe e tramonti da cartolina, cieli e stellate che ti fanno sentire minuscolo.
È il paese dei frutti tropicali mai sentiti che mangi a qualunque ora, delle bibite zuccherate a tutti i gusti e della Mamba spalmata sul panino alla mattina. È il paese delle bananpesee e delle scatole di riso e pesce mangiate in spiaggia.
È il paese degli acquazzoni caraibici che ricorderai per tutta la vita: dei salti nel fango, delle risate e dei canti abbracciati sotto la pioggia.


È il paese dove quando piove i bambini, i ragazzi, gli adulti cominciano a danzare sotto la pioggia ringraziando il cielo.

È il paese della musica: a qualunque ora del giorno e (ahi noi) della notte c’è musica che “spacca orecchie” ma musica che ti rimane dentro e continui a canticchiarla anche se non conosci le parole, tanto da arrivare in Italia e continuare ad ascoltarla in loop.
È il paese della danza. Ballano a qualunque età, bambini e ragazzi, ma anche anziane signore nei villaggi. Ciascuno balla a modo suo, ha il suo movimento ma balla. Ballano perché la danza è vita e loro hanno voglia di vivere. 
È il paese delle presenze. Suor Luisa, suor Gabriella e suor Marie Stel, don Levi, don Ervè e don Claudio, Maddalena, padre Elder, Chiara, la comunità Papa Giovanni XXIII, i volontari. Ci sono. Semplicemente stanno tra la gente.

È il paese dove non serve l’orologio, dove non puoi stabilire l’orario di ritrovo perché tanto prima succederanno altri imprevisti. Dove non c’è fretta né frenesia.

E poi è il paese di Kay Chal. Kay Chal è casa.

Kay Chal sono Vaillant, Jameson, Stanley, Kenchy, Jacklin, Tito, Doumy, Mazlen, Jovenel, Julien, Boy – Guy e metFalou.
KayChal è casa per tutti i bambini del quartiere a CitéJeremie. È casa perché ci puoi trovare amicie trascorrere qualche ora giocando o imparando; è una macchia di colore tra il grigiore della capitale.
Kay Chal è amicizia nata nel giro di poche ore, amicizia che non ha bisogno della lingua per farsi capire, perché a volte bastano uno sguardo o dei gesti. Kay Chal sono animatori a cui dai un dito e si prendono tutto (anche le tue ciabatte), ti travolgono con la loro forza e le loro storie. Sono amici che una volta che hai conosciuto sembra conoscessi da una vita.

Kay Chal è voglia di mettersi in gioco, animatori che prendono in mano il microfono e diventano uno spettacolo da guardare, che non hanno nulla e a volte magari non mangiano per giorni, ma tirano fuori un’energia contagiosa. Animatori che costruiscono aquiloni spettacolari con legnetti e sacchetti di plastica e braccialetti a volontà e animatori che riescono a farti commuovere e ridere allo stesso tempo.
Ragazzi che non vedono l’ora di farti da guida per la Citè e ti portarti a casa loro e farti vedere dove abitano.KayChal sono ragazzi che ti riempiono il telefono di selfie brutti ma intrisi di una storia bella e vissuta.
Kay Chal sono ragazzi che ti dicono “tanto vi dimenticherete di Haiti” e che giustamente si arrabbiano con la vita e poi tornano a viverla.

Kay Chal è casa per i ragazzi di Haiti ma sarà sempre casa per noi.
Si Haiti è tutto questo e forse tante altre cose.

A voi, amici e animatori di KayChal posso dire questo: no, non ci dimenticheremo di Haiti, non è possibile dimenticarsi di voi, di ciascuno di voi, dei vostri sorrisi e delle vostre risate contagiose, dei vostri balli, delle vostre frasi (amwaiiiii, aaaanywayyyy, tissimooooo, ghenbagay, andiamo a mangiare qualcosina), delle vostre storie e della vostra energia.

Grazie a voi ho conosciuto Haiti, grazie a voi casa mia non è più solo in Italia e grazie a voi un pezzo del mio cuore rimarrà sempre ad Haiti.

Haiti tololo!!

Giada

lunedì 19 novembre 2018

Haiti. Scorci di vita nella Cite

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E’ mattina, un profumo di soffritto e fritto entra dalle finestre mischiato a quello di sapone, di fresco, di panni stesi sul terrazzo sotto al sole. Mille voci risuonano per strada: donne che vendono portando in testa grossi catini carichi di tutto, avocado, banane, oggetti di plastica, vestiti, bambini che corrono, spintonandosi e giocando, entrano nelle innumerevoli scuole dell’Impasse Normand dove vivo. Sul ponte che collega Citè Okai con Citè Jeremi, di fianco la ravina, le signore hanno già allestito i loro banchetti: teli stesi a terra, canaste di frutta, fagioli, pane. Nei vicoletti sempre più stretti di Citè Jeremi le donne vendono il carbone, combustibile base per la cucina haitiana. Cani e caprette girano indisturbati, maiali ingrassano nella ravina rovistando e mangiando la spazzatura che lì viene gettata ogni giorno.
Camminando per i corridoi si incrociano molti ragazzi, niente divise, niente scuola per loro, solo lavoro. Camminano con passo svelto, portano carriole stracariche, taniche di acqua, scatoloni. Sono i restavek, bambini provenienti dalla provincia affidati (o meglio venduti) a famiglie cittadine nella speranza di un futuro migliore, o nell’esigenza di avere una bocca in meno da sfamare.
Sono molti i ragazzi che non vanno a scuola. Non posso fare a meno di stupirmi: un conto è leggere un rapporto dove si indica che ad Haiti l’80% della popolazione è analfabeta e solo il 50% dei bambini in età scolare vanno a scuola (dati UNICEF), un conto è vederlo. Perché quando lo vedi non puoi più mentire a te stesso. E’ lì, cristallino, brutalmente visibile.
Brutalmente. Ecco una parola chiave. Perchè purtroppo dove c’è povertà e ignoranza, spesso c’è brutalità. Non trovo altre parole per definire l’episodio a cui ho assistito l’altro giorno: un bambino afferrato, immobilizzato a terra da degli uomini che gli hanno poi assestato due belle cinghiate sulla schiena. La colpa? Aver camminato in mezzo alla strada, non essersi spostato al passaggio della macchina. Forse gli avevano urlato qualcosa e lui ha risposto male, forse aveva anche fatto qualcos’altro, non so, non l’ho visto. Quello che ho visto erano le impronte delle mani,bianche di terra, sulle braccia e sulle gambe, il segno rosso della cinghia e gli occhi di un bambino sotto shock.
Come in Perù, qui il livello di violenza “tollerato” o giudicato “normale” è molto differente rispetto alla nostra concezione europea. Molto più elevato. Nelle scuole si usa il bastone, i genitori usano le mani, le cinghie, tutto quello che hanno a portata di mano. Vedendo però come crescono questi ragazzi non posso fare a meno di chiedermi: “ma ne vale la pena? Questo metodo mica funziona…”. I ragazzi crescono in strada, troppo calde le case, troppo affollate, troppo attaccate l’una all’altra. La promiscuità è la diretta conseguenza, così come la violenza, strettamente collegata alla frustrazione, alla stanchezza, alla disperazione. Il risultato però non è l’educazione, bensì la creazione di un rancore interno che viene covato dei ragazzi, si accumula e cresce fin quando, in un momento di esasperazione, esplode. Un’esplosione violenta, che spesso porta conseguenze anche pesanti, strascichi gravi.
Mi chiedo se ci sia una via d’uscita. C’è una scappatoia? Esiste il modo per risollevarsi, per uscire da questa povertà che distrugge la vita? Non lo so, non posso saperlo. Io ho avuto la fortuna di essere nata “nel lato giusto (sigh) del mondo”. Mai come adesso è chiara questa cosa, mai come adesso capisco di non capire, di non poter capire.

Dal blog: https://percorrendolastradadellavita.wordpress.com/ 

martedì 30 ottobre 2018

Sbarcata sull'isola di Cristoforo Colombo

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Già è passato quasi un mese dal mio arrivo ad Haiti. Sembra ieri, sembra il secolo scorso.
La partenza, come sempre non è stata facile: saluti, abbracci, progetti, timori, preoccupazioni. Il salto nel vuoto. Prendere un aereo, lasciare la propria vita, il proprio Paese, la comodità di ciò che si conosce. 
Atterro, dopo circa 36 ore di viaggio e due scali all'aeroporto internazionale di Port-au-Prince. Ad attendermi agli arrivi Suor Luisa, la mia capa per il prossimo anno. 
Non perdiamo tempo e subito andiamo a Kay Chal, la scuola/centro di aggregazione giovanile in cui lavorerò. Il centro è grande, nuovo, colorato. Il quartiere, situato nella zona di Delmas 31 è uno dei quartieri popolari della città. Non il peggiore, sicuramente non tra i migliori. Una ravina, una specie di fiumiciattolo, in relatà una discarica a cielo aperto, divide due quartieri: da un lato citè Okay, dall'altra citè Jeremy.
Si potrebbe pensare che non sia stato il migliore degli inizi, eppure in questo panorama si scorge una bellezza di sottofondo: un sorriso, una canzone sparata a tutto volume, i bambini che giocano rincorrendosi. C'è molto da scoprire, c'è molto da apprezzare, se non ci si ferma all'apparenza.
Attraversando un corridoio strettissimo, della misura di una cariola, tra le case raggiungiamo, dopo una camminata di circa 10 minuti la Comunità delle Piccole Sorelle di Charles de Focauld. Casa.
Passo le prime due settimane sull'isola visitando alcune realtà con cui Caritas collabora: in particolare la casa della Papa Giovanni XXIII, Kay Beniamino (un altro CAG) a Port-au-Prince, la parrocchia di Mare Rouge, a nord. 
Uscire dalla città significa fare un viaggio di moltissimi chilometri: improvvisamente non sei più nelle Antille, in America Centrale. Ti ritrovi in qualche paese africano non bene definito. Usi, costumi, abitazioni, tutto mi fa pensare all'Africa. Scopro così un paese decisamente diverso da quello che mi aspettavo, non per questo meno bello, anzi! Direi che è stata una bella sorpresa. 
Il Paese è molto povero, la gente spesso non vive, sopravvive. Le case spesso sono poco più che catapecchie, mangiano una volta al giorno, quando va bene. Le speranze e le prospettive di un miglioramento futuro sono molto scarse, se non il prendere e partire: Cile, USA, fuori da quest'isola. Eppure la gente vive, vive ogni secondo al massimo. L'ospitalità è molto sentita e ti puoi ritrovare a sorseggiare un cocco appena colto chiacchierando con persone sconosciute. 
Inoltre la bellezza della natura di questo Paese è indescrivibile. Visito Mole St. Nicola, dove Cristoforo Colombo toccò terra, convinto di aver raggiunto le Indie. Un mare cristallino, una spiaggia bianca, deserta: il paradiso terrestre. Poco lontano dalla costa un relitto di una nave, la tradizione vuole che sia la carcassa di una delle tre caravelle. 
Ho anche la fortuna di visitare la costa sud dell'isola, verso Okay. Per la prima volta vedo la barriera corallina... Potrei passare le ore con la testa in acqua a seguire, importunando, i pesciolini che, veloci, scappano a rifugiarsi fra i coralli. 
Sono ad Haiti da  quasi un mese, comincio a comprendere il creolo, la lingua del Paese, comincio piano piano a riconoscere alcuni segni, alcuni aspetti della cultura. Mi sono abituata agli sguardi stupiti delle persone quando cammino per strada, ai bambini che urlano blanch quando mi incontrano. Si dice che chi ben comincia è a metà dell'opera, per ora, non posso che essere soddisfatta e contenta della decisione di ripartire. 

martedì 3 luglio 2018

All'arrembaggio PirHaiti!

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Abbiamo iniziato quest'avventura basandoci più sulla nostra curiosità che sulla nostra conoscenza, e in queste giornate, confrontandoci con chi prima di noi ha vissuto la realtà di Haiti, siamo diventati ancora più certi della scelta compiuta.

All'arrembaggio PirHaiti!

venerdì 6 ottobre 2017

Ad Haiti abbiamo perso qualche capitolo

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Mancare di qualche pagina, qualche capitolo o addirittura di un libro intero: sono questi i modi di dire haitiani che potrebbero essere paragonati al nostro “avere qualche rotella fuori posto”. Ecco noi ad Haiti abbiamo perso qualche capitolo, in particolare per quanto riguarda la stesura del nostro romanzo, ed eccomi qui a recuperarne uno.

In cosa consiste la nostra esperienza? Ho pensato di riassumere tutto così. 
Partiamo con la semplicità e la spontaneità: Haiti è vita senza eccessi, è divertirsi ballando ed essere entusiasti nel dedicarsi alle attività semplici e facili, è musica che spacca i timpani.
Haiti è assenza di fretta: spesso ci siamo scontrate con orari non rispettati e “tempi morti”, compensati da tanta improvvisazione e spirito di adattamento. 


Haiti è contrasto estremo tra ricchi e poveri, tra natura spettacolare e discariche a cielo aperto, tra cannella e piccante. E poi acqua nei sacchetti, riso ad oltranza, mamba, bevande zuccheratissime, birra Prestige... e ragni velenosi che ti aspettano nelle scarpe!

Ed è anche forza fisica e mentale, è non farsi abbattere dalle sventure del passato e trovare il modo di superare le difficoltà.

Haiti è rischiare la vita tutti i giorni viaggiando in macchina, sulle moto, sul canter e con i mezzi pubblici su strade dissestate e sterrate che, dopo la piogga, diventano piscine di fango e ogni volta che ci passi con il fuoristrada incroci le dita e speri che la macchina non si ribalti. Una specie di “calcio saponato”, come lo ha definito Chiara, un'operatrice di Caritas che risiede a Port-de-Paix. E se la strada si interrompe e finisce nel fiume? Nessun problema, i pick-up non hanno paura dei fiumi, lo si attraversa senza esitare. 


Il canter, invece, equivale a lividi, dita schiacciate e schegge nel sedere: il tutto compensato dalla possibilità a 360° di osservare bellezze uniche del paesaggio Haitiano.

E poi quella barca che ci ha portato su Tortuga, isola da spiagge bianche e deserte e un mare che all'orizzonte si fonde con il cielo, isola dove hanno girato un pezzo dei “Pirati dei Caraibi”. Ecco quella maledetta barca ci ha fatto sudare 7 camicie al ritorno dall'isola, anche se questa sudata è stata lavata via dalle onde altissime che superavano il bordo della barca e che ci hanno bagnato per due ore: due ore di preoccupazione, risate e crisi da “adesso ci ribaltiamo”, ma un bellissimo ricordo poi.

Poi c'è il pullman, come quel scuolabus dei Simpson, l'unica volta che abbiamo preso un mezzo pubblico... ho perso il conto di quante volte ci siamo dovuti fermare per il guasto, ma quando si è rotto il radiatore ci siamo fermati per 4 ore di notte, senza copertura telefonica per chiamare un aiutino, senza saperlo aggiustare da soli, sotto le luminosissime stelle da incanto. Forse, però, sono state le 4 ore più belle del viaggio: il resto del tragitto posso descriverlo con polvere, caldo, scricchiolii che davano l'idea che le parti del pullman si stessero tutte svitando, il tetto traballante sopra il quale, così a occhio, erano legate un centinaio di borse/scatole/valigie, oltre a una capra, un gatto e dei viaggiatori abusivi; da lassù a volte arrivava la pioggia di pipì e una sostanza che faceva pensare a un animale che non ha digerito qualcosa, e qualcuno ci è finito sotto questa pioggia 😄 Ma quanto è stato bello questo viaggio!

Insomma Haiti è tanta ma tanta adrenalina.

Haiti è scuola di vita, è aprire la mente di fronte all' “inconcepibile”. Ma è anche imparare ad autocontrollarsi e non lasciarsi sopraffare dai sbalzi d'umore, cosa che può succedere ma che con la pazienza e l'aiuto degli amici diventa solo un altro ricordo.


Infine Haiti è amore, amore verso l'altro, verso il mondo, verso la scoperta di culture nuove; è amore a distanza ma anche amore fresco fresco, appena sbocciato.

E dopo tutte le avventure (e le sventure) che ci sono capitate posso dire che sì, siamo decisamente tornate a casa con qualche capitolo in meno!

Dana

Heartbeat Haiti: la nostra storia in battere e levare

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Tutto ciò che è vitale ha un suo Ritmo: 

il battito del cuore che ha una sua frequenza. 
La respirazione con il suo ritmo.
Il ritmo circadiano che regola il sonno-veglia.
I tamburi in chiesa che accompagnano le canzoni di Fan Fan.
Le urla dei bambini che coordinate sembrano creare una ballata in grado di buttare giù la chiesa. 

Quando al mattino appena sveglie entriamo nella chiesetta di Pendu veniamo inondate da un ritmo irresistibile. 

Tutti i nostri cuori si sincronizzano con quelli dei bambini sul ritmo quasi tribale dei bans di Christopher.
La nostra respirazione prende lo stesso ritmo perché tutti abbiamo bisogno della stessa energia per gridare forte come Dorsil cucini le sue Banan Pesè. 
Le mani quasi automaticamente iniziano a battere tutte insieme, senza che nessuno si metta d’accordo, il battito delle mani si coordina con quelle del vicino. 

Questa è quasi magia, e ad Haiti se ne intendono di magia.


Certi medici hanno appurato che il ritmo del cuore e della respirazione si possono sincronizzare con le note di certe musiche. 

Ma quando ad Haiti siamo in tanti a sincronizzare cuori, respiro e mani sulle stesse note che succede? 



Succede che Kay Chal!  

martedì 19 settembre 2017

L’attesa di Irma: “L’uragano come un aquilone”

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Erano almeno dieci giorni che l’aspettavamo e alla fine è arrivata. Puntuale, molesta, indiscreta.
Soprattutto puntuale: una qualità piuttosto rara da queste parti. Qualcuno l’ha ribattezzata “il Mostro” ma ad Irma - una pancia grossa quanto mezza Italia - non è sembrato importare un granché. Del resto, una il cui nome significa “potente” non deve crucciarsi troppo degli appellativi.
Un giovane haitiano ne ha fatto l’effige sul muro della parrocchia. Un mare nero impastato di vernice sotto un cielo cinerino sbavato di rosso. Forse perché l’arte sbeffeggia le paure e a metterle su un muro pare metterle in prigione. Dopotutto ognuno, all’arrivo di un uragano, si prepara come può.
Qui a Mare Rouge, stamattina, ci sono quasi tutti: le peyizan coi loro fazzoletti di cotone, misye Fabien col suo cappello di paglia Josline, col suo sorriso perlato di sempre e col suo unico vestito color tabasco. Persino Anne, la signora che macina mais lungo la strada, ha deciso di continuare ad imbrattarsi con le sue nuvole di farina. Pure oggi. Oggi che viene Irma.
Janel e Peter, 7 e 8 anni, setacciano il paese alla ricerca di un sacchetto di plastica. Perché qui non ce l’hanno mica. E poco importa che stia arrivando Irma: loro vogliono farmi un aquilone. Qui, dove nessuno ti regala nulla e ti fa pagare di più per il colore dei tuoi soldi. Qui, dove flotte di bianchi hanno insegnato alla gente il ritornello del chiedere-ricevere quasi fosse una filastrocca. “Davvero è un regalo?” chiedo sorpresa brandendo l’aquilone. “Sì, è un regalo.” “Per me?” “Per te. Devi portarlo in Italia, così ti ricordi di noi…”
Gli Stati Uniti riceveranno Irma in pieno, si dice, Haiti verrà interessata solo di striscio. Il paese più ricco e quello più povero dell’emisfero, uno stato presente ed uno assente. Uno in cui si svuotano supermercati uno in cui la gente mangia a malapena, figuriamoci se può fare scorte per un uragano. Perché qui i contadini vengono avvertiti col megafono ed è il parroco a dire alle persone di starsene al sicuro. Se sicuro si può dire. Persino noi attendiamo Irma con un buco nel tetto.
Qui, dicono, la gente è abituata ad aspettare le tempeste. I venti tropicali non si sa mai dove vanno, spiegano tutti, possono colpirti ma pure andarsene altrove. Pa konnen, dicono, non si sa. Del resto,  proverbio haitiano vuole, “è solo il coltello a conoscere il cuore della patata”. Come dire che sono i tempi difficili a rivelare di che pasta sono fatte le persone. E qui tutti aspettano: placidi, stoici, impassibili. Si vede come sei dalla qualità della tua attesa.
Oggi è l’8 settembre e Irma si è spostata un po’ più su. Più su del previsto.
“Dio ci ha protetto” mi dicono tutti nonostante la paura. Qualche mese fa un ciclone meno forte aveva spazzato via tetti e piantagioni, ma stavolta Irma-la-potente li ha risparmiati. “Siamo tutti vivi. L’orto puoi ricostruirlo - mi dice il Responsabile della Caritas di Mare Rouge - ma la gente no.” Diversi ringraziano la Madonna, che ha protetto Haiti nel giorno della Sua festa. “L’uragano è come un aquilone - commenta con me il direttore di una scuola - È Dio che decide dove va, è Lui che tiene il filo”.
Janel è lì a due passi, che gongola sull’ingresso della sua casetta di marzapane. Non ho il coraggio di dirgli che il suo regalo si è rotto. Colpa mia, che non so guidare gli aquiloni nemmeno da fermi, e per mettere il mio al riparo l’ho solo danneggiato.  
 “Tieni - mi dice Janel allungando all’improvviso un braccio da dietro la schiena - Ti ho fatto un altro aquilone…”
Getto un’occhiata sorpresa ai campi attorno, pieni di fango e spazzatura: Irma-la-potente ha riempito le strade di sacchetti di plastica. Sorrido. Anche lei, infondo, ci ha lasciato qualcosa.


venerdì 1 settembre 2017

Haiti, strade di auto scarburate e mare forza 9

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Haiti è un viaggio in Canter sulle strade di roccia di Mare Rouge. Ti scuote fino all'inverosimile, ti fa sobbalzare, urlare e rotolare. Perdere l'equilibrio è all'ordine del giorno. Il trucco è assecondare la strada e stare stretto stretto ai tuoi compagni di viaggio, magari cantando come se non ci fosse un domani un pezzo di Black Boy. 


Haiti è un viaggio in barca nel mare forza 9 (più o meno) della Tortuga. Certe bellezze più uniche che rare, sono custodite dietro mari burrascosi. Non sempre è stato facile entrare in relazione con gli Haitiani, ma una volta sintonizzati la scoperta è stata ancora più piacevole. Qualcuno diceva che i duri hanno due cuori. 


Haiti è un viaggio in bus di notte da Jan Rabèl a Port au Prince. Tanta umanità tutta insieme, vicina vicina. Poco spazio per muoversi e un caldo atroce. Adrenalina e stupore. Però in questo viaggio abbiamo imparato ad affidare la testa al vicino di posto per poter riposare un po', abbiamo imparato ad accogliere la testa del vicino di posto per farlo riposare un po'. A divertirci come matte (o quasi) per aver fatto una doccia di pipì venuta dal cielo, o meglio dal tetto; ancora abbiamo il dubbio su chi fosse il proprietario: gatto, capra o uomo? Abbiamo imparato dai ragazzi di Kay Chal a non lamentarci, ma a cantare. A goderci un'alba stupenda nel bel mezzo del nulla con il bus in panne da 2 ore. A non avere fretta, perché come insegna Padre Elder, in quei luoghi dove il sole splende tutto l'anno la natura offre tutto, non c'è bisogno di orologio  di troppa organizzazione.


Haiti è un viaggio in mototaxi alle 7.30 di mattino per Lavatyè. Una boccata di aria fresca e un bagno di entusiasmo con i bambini che appena ci vedono ingaggiano gare di corsa a piedi nudi vs la moto. Cento bambini che arrivano da non si sa dove, tra le palme e i banani, e che non vedono l'ora di ballare tutti insieme e di tirare due calci ad un pallone. La felicità dell'incontrarsi, semplicemente dello stare insieme. 



Haiti è un viaggio a piedi nudi. L'anima viaggia a piedi, ha i suoi tempi arriva con calma dopo un po' di tappe, ma poi non riesce a tornare indietro. Rimane agganciata agli sguardi, agli abbracci, ai sorrisi e alle mani. 

lunedì 3 luglio 2017

Cantiere Haiti: CAPITOLO 1

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La nostra formazione



Il caldo tropicale di Melegnano
ci introduce al clima Haitiano,
che prima di questa giornata
era l'unica cosa da noi immaginata.

Nonostante "abbandonate" dai nostri coordinatori
sono venuti in nostro aiuto tre salvatori
Matteo, Letizia e Stefania i loro nomi.

Della doccia in un fiume ci hanno parlato
cosa che noi mai avremmo sognato!
Nel fiume faremo anche il bucato
per rendere tutto lindo e profumato.

Port au Prince, Mare Rouge e Pendu visiteremo
dove altri animatori Haitiani incontreremo
e con loro tante attività organizzeremo!

Ma Haiti a noi un' altra sorpresa regalerà
Silvia e Federico ci presenterà!
"nou pral ekri yon liv"* sapete cosa vuol dire?
studieremo il creolo e in qualche modo proveremo a farci capire!

Di scrivere un libro tutto in rima saremmo fieri,
ma non siamo mica Dante Alighieri!!


Margherita, Dana, Giulia, Giorgia

*scriveremo un libro



sabato 24 giugno 2017

Cantiere HAITI: prendi l'agenda, il tè, quel sasso e la farina...

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PREFAZIONE

Anche se è una delle cose più belle al mondo, non capita proprio tutti i giorni di trovarsi per preparare una partenza. Se poi la destinazione del viaggio è Haiti, l’adrenalina e la curiosità impazzano. 
Da un lato si cercano informazioni in ogni dove, dall’altro c’è la voglia di partire a Cuor leggero, pronte ad accogliere tutto quello che ci aspetta. 
Oggi però abbiamo deciso di condividere tra noi alcune linee guida, che pensiamo non possano mancare. Istruzioni di viaggio:
  • Prendi l’agenda. La tua solita Agenda, quella piena di appuntamenti. Chiudila, appoggiala sulla scrivania e dimenticati di scadenze ed impegni della vita cittadina. 
  • Prendi una bella confezione di Tè, ti aiuterà a condividere le esperienze con i tuoi compagni di viaggio. Ti darà l’occasione di fermarti a riflettere sulle emozioni che ti inonderanno. 
  • Sorseggiando la tazza di tè perditi a fantasticare su quel Sasso appoggiato sulla credenza; quella forma perfettamente tondeggiante ricorda quasi un piccolo mappamondo, ma con il vantaggio di non avere confini.
  • Non dimenticarti di portare con te la Farina e la pazienza del panettiere che fiducioso attende la magia della lievitazione. Nel frattempo avrai l’occasione di aspettare, dimenticando la solita devastante frenesia. 

Bene, gli elementi principali ci sono. Manca ancora qualche piccolo dettaglio ma possiamo dire di essere quasi pronte per Sconfinare alla volta del Caribe, Haiti ci aspetta. 


Giorgia, Dana, Giulia e Margherita

domenica 18 giugno 2017

Nou pataje lajwa ki nan kè nou!

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Ieri, sabato 17 giugno c'è stata la gita finale con i bambini di Kay Chal mattina. La scuola è finita e con lei quella parte di quotidianità che in parte ha segnato la mia presenza in questo Paese.

Ho già spiegato tante volta cosa sia Kay Chal mattina e anche cosa abbia rappresentato per me ma le emozioni e le sensazioni che ho provato ieri sul pullman pieno di bambini che cantavano e ballavano forse non le avevo mai provate prima tra le corse della quotidianità e le mille cose da fare.

I giorni che hanno preceduto questa uscita mi avevano già preannunciato quanto sarebbe stata ricca e densa di emozioni questa esperienza. Infatti siamo dovuti andati, insieme ai maestri, nelle case di diversi bambini per cercare di convincere le persone con le quali vivono (che ancora una volta ricordo non essere i genitori di questi bambini ma solo persone che li hanno presi in carico) a lasciarli venire e a concedere loro una giornata di svago e di pausa dai lavori domestici che sono costretti a fare.
Abbiamo pensato ad un programma molto ricco per mostrare ai bambini più cose possibili...il memoriale del 12 gennaio 2010, che è stato costruito con la volontà di accogliere tutti i corpi di chi è rimasto vittima del terremoto tremendo che ha colpito il paese in quella data, Archaie e la piazza in cui Katrin Flor ha cucito la bandiera haitiana, il mare a Sentar e lo splendido monastero benedettino sui monti.

Ieri ho visto bambini che non erano mai usciti dalla capitale da quando ci erano entrati per venirci a vivere, ho visto dei bambini pazzi di gioia all'idea di fare una gita insieme ai loro compagni, liberi per una giornata da tutti i pesi e dalle preoccupazioni, hanno cantato a voce piena per tutto il viaggio e nonostante questo hanno conservato un po' di voce per manifestare il loro stupore una volta arrivati al mare...che tanti di loro vedevano per la prima volta.

Alcuni si sono gettati nell'acqua senza paura altri invece in un primo momento erano terrorizzati all'idea di entrare in quella pozza enorme salvo poi scatenarsi una volta scoperto che non era niente di pericoloso.

Trenta bambini nell'acqua che ci saltavano addosso chiedendoci di portarli sulla nostra schiena e di farli “nuotare” insieme a noi...io che sono cresciuta al mare e che non ricordo il giorno in cui l'ho visto per la prima volta, beh ieri l'ho riscoperto come una cosa meravigliosa!
E poi i monti, camminare per un pezzo di strada insieme ai bambini per mano che scoprivano che lontani dal caos della capitale si sentono gli uccellini cantare, si possono trovare delle qualità di fiori e di piante molto belle...e ancora le api, che i monaci benedettini allevano e curano per produrre del miele buonissimo, e come si produce il miele??  viva la curiosità.

Ieri sul pullman tornando a casa ho sentito di aver concluso un capitolo della mia vita con la fine di Kay Chal mattina, ho trovato con questa esperienza una trentina di fratellini e sorelline più piccoli, ho trovato dei colleghi più esperti ai quali mi sono appoggiata e ho chiesto aiuto quando avevo bisogno e altri alle prime armi come me con i quali sono cresciuta e mi sono confrontata.
Ho trovato una bella famiglia capace di condividere la gioia che ha dentro (pataje lajwa ki nan kè) cosa non facile in questo paese così strano e controverso.
Ho visto le situazioni più difficili che hanno mosso in me tanti quesiti e tanti dubbi e mi sono trovata a ragionare su come intervenire insieme ai miei colleghi, ho visto le case dei bambini e le sistemazioni discutibili nelle quali sono stati costretti ad adattarsi, ho medicato le ferite provocate dalle “amorevoli” persone con cui vivono e nonostante questo ho conosciuto la dignità del rialzarsi ogni volta e del r-esistere nonostante tutto, beh imparare questo da bambini di 9 o 10 anni ti smuove dentro parecchie emozioni...

Kay Chal mattina mi ha cambiato la vita in qualche modo che ancora non capisco bene ma che sicuramente sarà in positivo. E allora...
Grazie.

Silvia

domenica 7 maggio 2017

Diri ak pwa, ovvero arroz con habichuelas: un viaggio oltre la frontiera.

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Quando tutto sembrava pronto per partire, mi è stato annunciato, con estrema casualità, che finalmente avrei potuto incontrare il vescovo, proprio la mattina della mia partenza. Così questo momento solenne si è incastrato tra una messa, uno zaino da preparare, il serbatoio da riempire con la bottiglietta di plastica e un simpatico prete che mi parla della canzone di San Damiano. E’ un buon modo per iniziare il mio primo viaggio da sola su quest’isola. Non solo per le benedizioni del Monseigneur, ma anche per cominciare apprezzando l’imprevisto. Certo, con questo secondo anno ai tropici ci sono ormai abituata, ma il fatto di viaggiare lo rende un fattore supremo, al quale non ci si può sottrarre barricandosi in un luogo sicuro, bisogna giocare. 

Nonostante gli avvertimenti di un collega della Caritas Spagnola, l’equipe animazione di Caritas Port-de-Paix sembra non voler credere che la strada del nord, che da Anse-à-Foleur porta a Limbé e a Cap Haïtien, sia davvero così impercorribile, fomentando così la mia fretta di partire: ed è così che mi trovo con Karl, l’autista, su un sentiero di montagna difficilmente praticabile anche a dorso di mulo. Ma proprio la sua esperienza e le benedizioni del vescovo ci permettono di arrivare sani e salvi dopo 5 ore a Cap Haïtien, con solo una gomma a terra e un pezzo dell’auto (di cui non capisco il nome) da riparare. La scorciatoia, che avrebbe dovuto dimezzare il tempo di percorrenza rispetto alla strada tradizionale, ha quasi allungato il viaggio, ma il paesaggio mozzafiato ha ripagato ogni goccia di sudore freddo. Le Kay pay, cime avvolte nelle nuvole, alberi da frutto, faraglioni e mare, una baia segreta dove forse un giorno avrò il coraggio di lanciarmi con la tavola da surf, e poi una brusca e casuale interruzione. Una liscia lingua di cemento taglia la giungla per meno di 10 kilometri. Cos’è questo miraggio fitzcarraldiano? Il paese di origine di un senatore, mi dice Karl, divertito dal fatto che ancora io mi stupisca di queste cose. 

Questo lirismo bucolico scompare del tutto avvicinandosi a Cap Haïtien, la città simbolo della storia di questo paese. Ci sono le strade asfaltate, addirittura con la doppia linea, gente che corre, anche una blan in pantaloncini minimali con un cane al guinzaglio! Resto incollata al finestrino, meravigliata. Lasciando il Far-Nouest di Haiti mi rendo conto delle diverse realtà che sono questa terra, ma lo shock vero e proprio resta ancora da assaporare.

Il giorno dopo parto in autobus alla volta di Santiago de los Caballeros, Repubblica Dominicana. La strada che porta al confine ha veramente pochi buchi, ed il paesaggio che si attraversa percorrendola sembra appartenere ad un’epoca diversa rispetto a quella alla quale i miei occhi ( e la mia schiena)  si sono abituati in missione per il nordovest con la Caritas di Port-de-Paix. E poi passiamo Ouanaminthe, la città che “bouje toutan”, dove si mangia il cavallo e le luci sono accese anche di giorno. Nessuna di queste leggende è a prima vista vera, sono quasi delusa. Dopo il controllo alle due dogane dove poliziotte quasi simpatiche eseguono una perquisizione meticolosa delle valigie sospette (chi sa perché solo quelle degli Haitiani) possiamo ritornare sull’autobus, passando attraverso le barricate dei ragazzini che ci chiedono il pranzo al sacco che sanno benissimo essere dispensato da Caribetours.

Al di là c’è Dajabón, dove la spazzatura lascia spazio magicamente a uno scenario rurale pettinato, casette colorate e paesini sperduti non molto interessanti, ma che sembrano ridere. Dopo qualche ora siamo a Santiago, con la sua periferia assolata e sorniona. Devo cambiare dei dollari per prendere i prossimi mezzi, così mi mandano in una stanza a vetri dove c’è una coda infinita, ma dove mi trovo direttamente e  spinta dalla folla davanti alla cassiera. Pensando di essere sulla stessa isola di Haiti mi aspetto che sia una tattica di scippo o qualche fregatura, ma niente di male succede, solo qualche risata della gente sorpresa che io non sia americana. Il viaggio continua fino a Cabarete, una piccola mecca caraibica per gli sport acquatici.

La spiaggia di Cap Haitien, Haiti

Playa del Encuentro, Repubblica Dominicana
Belle case, resort, supermercati, ristoranti, bancarelle, negozi di souvenir, locali per ogni gusto, che se li si guarda bene più o meno tutti uguali. Ragazzine mulatte con gli occhi blu, bambini poliglotti, coppie miste di ogni età e provenienza, mozzarella italiana. Ma per me, soprattutto una spiaggia  che ogni mattina viene ripulita da una piccola squadra piuttosto sorridente. Ci sono cinque baracchini che affittano tavole da surf, vegetazione tropicale, belle onde e qualcuno sempre disponibile ad offrire un passaggio o a scambiare due parole. E poi nessuno mi urla più blan per la strada, anzi la gente sembra divertirsi cercando di capire la provenienza del mio accento.

Dovrei essere felicissima, penso: surf, pizza, gelato e frutta, riposo, nuovi amici. Ma le prime sensazioni che provo vedendo l’altra metà dell’isola sono una certa rabbia e un certo sconcerto.
Questa volta le differenze non sono qualcosa che leggo in un libro sul PIL dei due paesi, sulla storia della colonizzazione o qualche altra verità raccontata, ma sono emozioni suscitate da una realtà che vedo, sento e annuso. Certo, sono sicura che sotto la patina d’oro delle zone turistiche dominicane ci siano ingiustizie e nicchie di povertà,  ma vivo immediatamente di pancia il confronto, e quello che percepisco sono crudeli diseguaglianze.

In pochi giorni ho incontrato diversi lavoratori haitiani, ma è con Mesye Roro che ho passato un’ora a parlare nel cuore della notte. Mi ferma per chiedermi, sinceramente incuriosito, perché cammino sempre e non lo fermo mai. E’ un taxista di moto, di notte, un muratore di giorno. Dopo cinque anni di questa vita non è ancora riuscito a pagarsi il mezzo con il quale lavora. E’ così che capisco perché gli unici che chiedono l’elemosina da queste parti sono dei neri mutilati. I lavoratori haitiani sono impiegati a delle condizioni durissime soprattutto nel settore delle costruzioni, dove è facile farsi male, oppure nei campi. Li ho sentiti descrivere più volte dagli stranieri che vivono qui, che magari hanno attività, con parole di elogio come grandi lavoratori, più educati e raffinati dei dominicani. Eppure qui, oltre a scontare il prezzo di una vita faticosissima, sono vittime di razzismo ed episodi di violenza.


I  turisti che incontro, ma anche diversi giovani stranieri che vivono e lavorano a Cabarete, pensano che quando dico Haiti io intenda Tahiti, e si sorprendano del fatto che per arrivare qui non abbia dovuto prendere navi o aerei.

Girando tra i negozietti di souvenir, è impossibile trovare una maglietta o una borsa con la mappa ricordo delle vacanze diversa dal classico “moncherino”: c’è solo la metà destra di Hispaniola, ma chi se ne accorge? Pochi hanno coscienza di dove si trovano.
Di solito la reazione dei Dominicani quando mi chiedono da dove vengo è quella di cambiare argomento, sull’altra metà dell’isola cade il silenzio.
Ogni  mattina presto prendo la guagua per andare a surfare, un piccolo bus che sfreccia a più non posso stipando gente ad ogni fermata, sul quale incontro sempre gli stessi tre signori ricurvi con i loro sacchetti degli attrezzi. Come se ci conoscessimo facciamo sempre qualche piccolo discorso in creolo. E’ terribile l’impressione infastidita che mi sembra comparire sul volto degli altri passeggeri, soprattutto un gendarme che torna a casa ogni mattina dopo il turno notturno.
Nell’immaginario collettivo, Haiti, sinonimo di sciagure naturali e miseria, e la Repubblica Dominicana, meta  di villaggi turistici e navi da crociera, non possono essere sulla stessa isola.  



Eppure di Hispaniola si tratta. Un giorno a Playa Encuentro, per la prima volta, un Dominicano mi fa qualche domanda su Haiti. Il  tema è la cucina criolla, e il mio amico sembra incuriosito quando gli racconto, stupita dal fatto che non lo sappia, che anche “di là” la sinfonia di base è la stessa: diri ak pwa haitiano, arroz con habichuelas dominicano, riso e fagioli, tanti tipi diversi di fagioli. Questo è in realtà il piatto tipico di molti paesi dei Caraibi e del Sud America. I fagioli sono nativi americani, ma non il riso, che è stato introdotto dai colonizzatori europei, accompagnando gli schiavi che venivano strappati all’Africa occidentale, dove era già la pietanza di base. Un’identità triangolare, tra Europa, Africa e America che è frutto degli anni della colonizzazione. E se il cibo è elemento dell’identità culturale, esiste su quest’isola un substrato comune. Eppure questa  terra  ha alle spalle una storia difficile, di divisione ed ostilità, che si fa eco nella diseguaglianza di oggi tra i due paesi.


Haiti, un tempo la ricca Perla delle Antille, lottò per la sua indipendenza e la ottenne 60 anni prima della Repubblica Dominicana. Entrambi i nuovi stati si confrontarono dall’inizio del loro cammino solitario con la fatica di dover pagare il debito dovuto alla loro indipendenza a Francia e Spagna, poi le dittature e le occupazioni americane.
Ma oggi Haiti è un pase dipendente, che arranca per un piatto di riso al giorno, dove la schiavitù non è mai del tutto finita. Invece la Dominicana, che appare con la sua bella faccia da paradiso caraibico, attrae migliaia di turisti ogni anno, e cammina. I soldi non sono tutto, ma  PIL annuo pro capite di Haiti è 813 dollari, quello della Repubblica Dominicana è di 7116. 

E così faccio un sacco di domande, alle quali non ho ancora trovato risposte. Ma una cosa è certa…quando a Cabarete la radio della guagua ha trasmesso “Pa gad alem”, una canzone haitiana molto in voga al momento, ho sentito il cuore riempirsi di emozione. Mi sono guardata intorno cercando un segno di condivisione sul volto dalla gente, che è invece rimasta impassibile, non capendo forse neanche che si trattasse di creolo. Dopo tre mesi mi sono innamorata di Haiti, o forse sto imparando ad amarla, con tutti i suoi difetti e contraddizioni.



* Grazie a Sandro e Daniel per avermi aiutata con le immagini