lunedì 19 novembre 2018

Haiti. Scorci di vita nella Cite


E’ mattina, un profumo di soffritto e fritto entra dalle finestre mischiato a quello di sapone, di fresco, di panni stesi sul terrazzo sotto al sole. Mille voci risuonano per strada: donne che vendono portando in testa grossi catini carichi di tutto, avocado, banane, oggetti di plastica, vestiti, bambini che corrono, spintonandosi e giocando, entrano nelle innumerevoli scuole dell’Impasse Normand dove vivo. Sul ponte che collega Citè Okai con Citè Jeremi, di fianco la ravina, le signore hanno già allestito i loro banchetti: teli stesi a terra, canaste di frutta, fagioli, pane. Nei vicoletti sempre più stretti di Citè Jeremi le donne vendono il carbone, combustibile base per la cucina haitiana. Cani e caprette girano indisturbati, maiali ingrassano nella ravina rovistando e mangiando la spazzatura che lì viene gettata ogni giorno.
Camminando per i corridoi si incrociano molti ragazzi, niente divise, niente scuola per loro, solo lavoro. Camminano con passo svelto, portano carriole stracariche, taniche di acqua, scatoloni. Sono i restavek, bambini provenienti dalla provincia affidati (o meglio venduti) a famiglie cittadine nella speranza di un futuro migliore, o nell’esigenza di avere una bocca in meno da sfamare.
Sono molti i ragazzi che non vanno a scuola. Non posso fare a meno di stupirmi: un conto è leggere un rapporto dove si indica che ad Haiti l’80% della popolazione è analfabeta e solo il 50% dei bambini in età scolare vanno a scuola (dati UNICEF), un conto è vederlo. Perché quando lo vedi non puoi più mentire a te stesso. E’ lì, cristallino, brutalmente visibile.
Brutalmente. Ecco una parola chiave. Perchè purtroppo dove c’è povertà e ignoranza, spesso c’è brutalità. Non trovo altre parole per definire l’episodio a cui ho assistito l’altro giorno: un bambino afferrato, immobilizzato a terra da degli uomini che gli hanno poi assestato due belle cinghiate sulla schiena. La colpa? Aver camminato in mezzo alla strada, non essersi spostato al passaggio della macchina. Forse gli avevano urlato qualcosa e lui ha risposto male, forse aveva anche fatto qualcos’altro, non so, non l’ho visto. Quello che ho visto erano le impronte delle mani,bianche di terra, sulle braccia e sulle gambe, il segno rosso della cinghia e gli occhi di un bambino sotto shock.
Come in Perù, qui il livello di violenza “tollerato” o giudicato “normale” è molto differente rispetto alla nostra concezione europea. Molto più elevato. Nelle scuole si usa il bastone, i genitori usano le mani, le cinghie, tutto quello che hanno a portata di mano. Vedendo però come crescono questi ragazzi non posso fare a meno di chiedermi: “ma ne vale la pena? Questo metodo mica funziona…”. I ragazzi crescono in strada, troppo calde le case, troppo affollate, troppo attaccate l’una all’altra. La promiscuità è la diretta conseguenza, così come la violenza, strettamente collegata alla frustrazione, alla stanchezza, alla disperazione. Il risultato però non è l’educazione, bensì la creazione di un rancore interno che viene covato dei ragazzi, si accumula e cresce fin quando, in un momento di esasperazione, esplode. Un’esplosione violenta, che spesso porta conseguenze anche pesanti, strascichi gravi.
Mi chiedo se ci sia una via d’uscita. C’è una scappatoia? Esiste il modo per risollevarsi, per uscire da questa povertà che distrugge la vita? Non lo so, non posso saperlo. Io ho avuto la fortuna di essere nata “nel lato giusto (sigh) del mondo”. Mai come adesso è chiara questa cosa, mai come adesso capisco di non capire, di non poter capire.

Dal blog: https://percorrendolastradadellavita.wordpress.com/ 

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