lunedì 30 novembre 2015

Indonesia: Keluarga Alma Nias ovvero una nuova grande famiglia

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Oggi sono due mesi che sono qui. Ed oggi voglio presentarvi la mia nuova grande famiglia composta da 32 bambini, 3 suore e 7 ibu. 

Lo so, 32 bambini sono tanti ed io non sono abituata ad avere molta gente per casa.

TRENTADUE bambini che si svegliano alle 5.30 e devono lavarsi e prepararsi. Alle 6, quando apro gli occhi e mi rigiro ancora un pò nel letto, li sento cantare e chiacchierare e quelle voci sono un pò come l'odore del caffè a Milano, significano casa.

Questi 32 bambini vivono a Wisma Alma per tante ragioni diverse. Alcuni di loro sono orfani di uno o di entrambi i genitori, altri sono stati abbandonati o rifiutati ed altri ancora portano con sé una qualche forma di disabilità. 

A volte mi fermo e li osservo da lontano. A volte rifletto sulle loro vite e sulla mia e sul motivo di questo intreccio. E a volte penso al loro grande coraggio e al fatto che nulla nella vita potrà più scalfirli, perché hanno già ricevuto la loro dose di dolore. 
Altre volte ancora mi stupisco di fronte a tanto amore. Al loro sentirsi come fratelli, al loro aiutarsi l'uno con l'altro, perché in fondo sono tutto ciò che hanno.

Ognuno di loro mi sta insegnando qualcosa, qualcosa che porterò con me: da Forman ho imparato l'amore, da Rena la gioia, da Igo la pazienza e da Diman l'attesa. 

Vedere i loro sorrisi, ogni giorno,  mi da la forza per affrontare questa esperienza. E quando scendo dalla macchina dopo una giornata in ufficio, trovo loro ad aspettarmi. Trovo loro che urlano "Siska, Siska" e che mi prendono per mano e mi accompagnano fino alla porta di casa. E questa adesso è la mia forza. 



giovedì 26 novembre 2015

Partire con la valigia leggera.

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Haiti: questo nome si è infilato prepotentemente nella mia testa ormai 8 mesi fa.
Interessata al servizio civile all’estero e al progetto di Caritas Ambrosiana, mi ero buttata nella lettura di Impronte di Pace  e dei vari contesti in cui i servizio civilisti si sarebbero inseriti: Kenia, Georgia,Libano,…HAITI.

I dubbi e la consegna della domanda, i colloqui, la selezione, la decisione definitiva e il giorno dell’uscita delle graduatorie. Era fatta: partivo.

Ma come sarà Haiti?Forse non è normale,forse è superficiale ma non mi sono creata molte aspettative sull’ambiente, il contesto, Kay Chal: sono partita con la “valigia” molto leggera.
Siamo qui solo da un mese e mezzo e non credo di conoscere il paese in cui mi trovo. Non posso scrivervi un saggio su cos’è questa isola e farvi una riflessione approfondita sulla storia e la politica del Paese; però  Haiti ora per me è diventata reale e quotidiana e quindi, quello che posso fare è provare a spiegarvi cos’è e com’è per me,ora,Haiti.

Haiti è strade, ghiaia e sassi bianchi in città che con la luce del sole mettono a dura prova la nostra retina. E’ terra rossa e fango al nord, è spiagge bianche e mare blu cobalto (alla fine siamo pur sempre ai Caraibi).








E’ mattoni, cemento, muri e filo spinato che circondano molte case. E’ tap tap coloratissimi con fiancate variopinte, ritratti di calciatori e candidati alle elezioni e scritte che regalano risposte esistenziali (due tra le tante: lavie se pas fasil e se comsa).E a proposito di candidati, Haiti è campagna elettorale e strade lastricate da volantini colorati dei candidati, è clima elettorale e post elettorale.
Haiti è blokis: traffico che letteralmente blocca tutta la circolazione e per fare un tragitto di venti minuti ce ne metti il triplo.
Haiti è caldo, sì, anche se ora siamo in “inverno” e la notte si dorme volentieri con il lenzuolino.
È il cloro per disinfettare piatti,stoviglie,tavoli, frutta, verdura,…
È banan pesè, riso e fagioli,pollo ma anche una specie di cassola che ricorda i sapori della Brianza.

Haiti è Kay Chal e ha acquisito piano piano anche la fisionomia di bambini e giovani.


Ora Haiti è anche A., bambina restavek che viene a scuola la mattina, sempre sorridente, si butta a turno nelle nostre braccia e per alcuni secondi resta stretta stretta a noi; è O., che ha spesso gran gou cioè tanta fame; è W. e D., due tra i tanti bambini che frequentano il doposcuola pomeridiano.
Haiti è anche il volto dei fratelli C., gentilissimi, sempre con un sorriso spiazzante e molto intelligenti: che opportunità per il futuro offre loro questo Paese?. È R. che prepara i fogli e i pastelli per il laboratorio del venerdì pomeriggio, è N. che da vero haitiano non parla quasi mai ma appena c’è della buona musica si lancia in balli sfrenati (ottimo arrampicatore di palme da cocco, ci ha permesso di gustare il latte di cocchi appena raccolti).
Haiti è…è…è…

Per fortuna sono partita con la “valigia” leggera.

mercoledì 25 novembre 2015

Indonesia: Never Say Less

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MIcaSCEmi si arricchisce della voce di Francesca, volontaria milanese in servizio civile all'estero inviata da Caritas Italiana in Indonesia attraverso il progetto "Caschi Bianchi".
La nostra è una comunità aperta e curiosa di conoscere nuovi contesti, quindi:

Benvenuta Siska!
[la redazione di Micascemi]


"Un luogo non è mai solo quel luogo: quel luogo siamo un pò anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati". A.T.

Quel luogo, per me, è l'Indonesia. È Pulau Nias, una piccola isola a largo di Nord Sumatra. È un luogo di cui non conoscevo nemmeno l'esistenza prima di partire o chissà,  forse dentro di me qualche invisibile collegamento già esisteva. 

Mi chiamo Francesca ma qui tra uno storpiamento ed un diminutivo mi hanno trasformata in Siska.
Arrivo un pochino in ritardo perché due mesi sono già trascorsi da quando sono partita. Riguardando indietro vedo quel turbinio di emozioni che ti invade, risento la paura di lasciare casa, gli amici, la famiglia. Risento il dubbio di lasciare indietro qualcosa di certo e sicuro per qualcosa che non conosco. Ma riesco anche a riprovare la stessa emozione, la stessa voglia e lo stesso entusiasmo nel dover affrontare qualcosa di nuovo, qualcosa che non so dove mi porterà e come mi cambierà. 

Ora sono già qui e il peggio è passato, potrei forse dire. Ora sono già qui e ogni mattina mi sveglio e mi sento ormai quasi a casa. 

Per spiegarvi che tipo di persone sono gli Indonesiani voglio raccontarvi una delle prime cose che ho imparato studiando la lingua: nella grammatica indonesiana non viene mai usato un termine di paragone negativo.

Jakarta lebih panas daripada Medan - Jakarta è più calda di Medan

Al contrario, non diranno mai, come invece noi facciamo:


Medan è meno calda di Jakarta ma
Medan lebih dingin daripada Jakarta - Medan è più fredda di Jakarta

La lingua che rispecchia la cultura, eccone un esempio perfetto. Never Say Less - mai pensare in negativo. 







martedì 24 novembre 2015

Kenya Pamoja for Peace Pwani caravan

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Dopo 40 giorni di Mombasa, dopo 40 giorni di un turbine di emozioni, pensieri, sensazioni, osservazione, è arrivato il momento di un lungo viaggio verso Nairobi, ma con un motivo del tutto speciale: il Kenya domani accoglierà papa Francesco.. E sarà il primo paese del suo viaggio in Africa!

E' un viaggio importante e la diocesi di Mombasa, con il supporto di un'associazione di Cremona, ha creato una "Carovana della Pace". Ben 16 pullman, di giovani, si recheranno insieme verso Nairobi promuovendo un messaggio forte di PACE, con due tappe intermedie tra cui un Tempio Sikh.

il nostro confortevole pullman

Ieri alcuni di loro sono andati in giro per la città per sensibilizzare all'iniziativa che oggi prevedeva un momento di preghiera interreligioso!

Sono dovuta arrivare in Kenya per incontrare papa Francesco, e proprio qui mi sono trovata davanti una cosiddetta "buona prassi" di dialogo interreligioso. Uno dei nostri servizi si occupa proprio di questo, e prima di partire mi sono ampiamente interrogata su cosa volesse dire questo dialogo interreligioso di cui tanto e spesso si sente parlare.
Ad agosto ho incontrato il vicario generale di Marsiglia e gli ho proprio chiesto: "ma allora, 'sto dialogo cos'è??" (ovviamente sfoderando il mio migliore francese pronta ad intavolare una discussione..) e lui mi ha risposto: "c'est le dialogue du voisinage" (è il dialogo del vicinato). Nel senso che a livello istituzionale se ne può parlare, ma poi si gioca nella realtà di tutti i giorni (e stiamo sempre lì, maledetta quotidinità!). Semplice, no?! Ce l'ha confermato un noto professore islamista con cui abbiamo parlato durante la formazione..

Partendo dal presupposto che qui in Africa c'è una religiosità che permea ogni cosa (i giudizi di valore li metto da parte), a Mombasa la presenza di diverse religioni e confessioni è evidentissima. Senza dimenticare che la minaccia dell'estremismo religioso è viva e perdurante. Gli attentanti che il Kenya ha subito ne sono la prova, qui si chiama Al Shabaab il pericolo. Ma in sostanza non cambia. Ad esempio, dovevamo andare via per un progetto "ma meglio di no perché in quella zona ci sono delle truppe del governo..", mi controllano quando entro in qualche grande negozio, o anche quando vado a messa. Insomma, questa cosa mi ha lasciato all'inizio interdetta, ma poi diventa parte della quotidianità. Strano. Noi non siamo abituati, ma in altri parti del mondo è la norma!

Eppure oggi, durante questo incontro, diversi capi religiosi hanno detto la loro per promuovere la pace, senza paura. Che sia Allah, che sia Dio, che sia come lo vogliate chiamare, oggi hanno affermato che nessuna religione può giustificare atti violenti. Ma che anzi, bisogna stare insieme per lanciare un forte messaggio contro l'estremismo. Ci vuole formazione, ci vuole conoscenza. Bisogna studiare per la Pace.

momento di preghiera interreligioso


I fatti di Parigi sono arrivati qui e ci hanno toccato nel profondo. Continuo ad interrogarmi, ma mi spaventa molto di più l'intolleranza che percepisco. E' per questo che sono contenta di prendere parte a questa iniziativa, proprio qui. Perché forse la pace è possibile, ma partendo proprio dal piccolo. Dal nostro vicinato. Senza buonismi. Ma alzare muri porta all'isolamento; aprire le porte è molto più faticoso, comporta il rischio di mettersi in gioco in prima persona.. E mi chiedo se veramente voglio una vita "sulchivalà"..

Insomma, questi sono i primi pensieri immersa in questa nuova realtà e in attesa di sapere cosa vorrà dirci questo papa.. Qui in Africa, poco prima dell'inizio dell'Avvento e del Giubileo della Misericordia..lasciatemi fare la paolotta ogni tanto! :)

Adesso è tempo di andare. Sfidando la mia ostilità alle folle, e superando i ricordi delle incasinate GMG che mi hanno fatto dire "mai più!", vado a fare lo zaino. Domani la sveglia è alle 4, alle 5 si parte per questo luuuungo viaggio che sicuramente ci regalerà grandi emozioni! ;)

abbiamo anche la maglia ufficiale!!
                                         

Angela




lunedì 23 novembre 2015

Bolivia: forse un po' stona.. ma qui l'Avvento inizia e sembra piena estate!

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Meno di dieci minuti che racchiudono una giornata di servizio:
eccoci coinvolte nella Campagna di Avvento, a farci portavoci per questa iniziativa, nelle varie parrocchie in giro per la provincia!



Ebbene sì, come si vedrà dal video
qui fa molto molto caldo,
quindi è un Avvento un po' diverso da quello che sono abituata a vivere: ma ha un suo perchè anche così!


Ora mi limito a pubblicare solo un pezzettino del servizio di queste ultime settimane, quello inerente alla Campagna di Avvento, appunto
tralasciando molte altre cose:
la manifestazione contro la violenza verso le donne,
tralasciando Melga, Tiraque, Punata, Quillacollo (in questi giorni abbiamo viaggiato molto: chilometri e chilometri per raggiungere località abbastanza lontane, per portare avanti o iniziare i percorsi di formazione dei gruppi di Caritas Parrocchiale..)
tralasciando gli "hogar" che abbiamo visitato e che mi hanno interrogata molto su molte cose.

Ci vuole del tempo per "lasciar decantare" tutto ciò che si vive e si vede, soprattutto quando ogni giorno è così denso e particolare come lo sono stati i giorni di queste ultime settimane.
Ci vuole tempo per comprendere, per non rischiare di cadere nella necessità di farsi SUBITO un'idea, una propria opinione, uno schema, una visione.

Sperando di riuscire a darmi tempo, e a ritagliarmene un po' in questa settimana
per integrare il racconto..

Ora vi saluto,
preparo lo zaino,
e si parte per andare a fare un taller di sensibilizzazione in un posticino a un'ora e mezza da qui!

A prestissimo!
Luci


sabato 21 novembre 2015

Mi si è riempito il cuore

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                                                                                                               MELGA, 18 NOVEMBRE 2015.



A volte si vivono delle emozioni così forti e improvvise che non si riesce neanche a capire cosa sono, perché sono arrivate e come si chiamano.
Soprattutto per la maggior parte di noi, analfabeti emotivi, non abituati a parlare di ciò che si prova.
Ma non importa, perché già viverle è qualcosa, lasciano il segno.

Oggi mi si è riempito il cuore.

Andiamo con ordine. Nelle ultime due settimane un gruppo di ragazzi dell’Università Cattolica Boliviana si è impegnata a raccogliere viveri di ogni genere da portare alla comunità di Melga e proprio oggi siamo andati a consegnare il tutto.

Melga è un vasto territorio ubicato in mezzo alle montagne, a circa un'ora dalla città di Cochabamba. Ad accoglierci il Padre Ramiro, un grande uomo boliviano, calmo e silenzioso, ma con una forza d’animo che si percepisce solo guardandolo.
Un vero grande uomo.

Dopo aver scaricato una quantità di cibo apparentemente infinita per noi “operai” fuori forma, ci siamo sentiti in dovere di accettare l'invito di una suora polacca a bere un caffè, o meglio…ad abbuffarci in una seconda colazione!
Succede sempre così: “solo un cafesito!” e invece…pane , burro, marmellata, dulce de leche, formaggio! Tante, tante chiacchiere, moltissime risate, altrettanti spunti di riflessioni.

A pancia decisamente piena, il padre ha voluto portarci a conoscere un po’ il suo pueblo.
Siamo saliti in macchina e via! Campi coltivati,boschetti, lagune, tanta polvere, qualche casa, mucche e pecore. Una scuola.


Appare come una casetta in mezzo ad un vasto prato, in cima ad una collina.
Ad accoglierci, un bimbo, poco vestito, che gioca con l’acqua, vicino ad un canale.
Cerchiamo di capire se è solo o se i suoi genitori lavorano nei paraggi, ma parla solo quechua e ci accorgiamo che è piccolissimo.

Entriamo nella scuola: un edificio modesto, in pratica un’unica aula; 18 bambini, di differenti età, sono occupati nei test di fine anno. Sono divisi in tavoli, che rappresentano i diversi “livelli” scolastici: ci sono i bambini più piccolini di circa sei anni, occupati a disegnare; quelli di 7- 8 anni impegnati nel compito di matematica; poi i ragazzini di 9- 10 anni anche essi immersi nei calcoli e infine i più grandicelli di 12 -13 anni, che controllano la scena.
C’è un solo maestro, a cui, si vede , i bambini sono molto affezionati.






Ci fermiamo a parlare un po’ con loro.
Belen impiega circa un’ora di cammino per arrivare alla scuola; all’inizio le facevano male i piedi, ma ora non più.
Il bambino là fuori è il fratellino di un suo compagno: lo porta a scuola perché a casa non c’è nessuno, sono tutti nei campi a lavorare.
A Rodrigo non piace la matematica, perché è difficile.
In realtà non piace quasi a nessuno, povera matematica, sempre poco apprezzata ,ma di notevole utilità!
I più piccolini sono i più timidi, ma i più curiosi. Vorrebbero delle foto e si mettono in posa.

Tanti volti, tante storie.
È quasi ora per loro e per noi di andare, ma prima testano le nostre abilità col pallone! Naturalmente, vengo rimandata.


Ci allontaniamo tra saluti e sorrisi.
Ripartiamo e torniamo alla base, allungando però un po’ la strada.
Passiamo per altri campi, altri boschetti, altre lagune, tanta polvere, qualche casa, mucche e pecore.
I paesaggi sono mozzafiato, ma qualcosa mi pesa sul cuore e mi rattrista.




Arriviamo alla casa del padre che ci offre di pranzare insieme.
Come spesso accade, il menù propone sopa de mani: zuppa di arachidi, con pasta, verdure, pollo, patate lesse e patatine fritte, piatto unico.

Siamo nel comedor della parrocchia, dove le suore preparano da mangiare per i bambini che escono dal collegio.
Come ci spiega il padre, nella maggior parte delle famiglie, i genitori sono a lavorare nei campi tutto il giorno e spesso per più giorni, avendo più terreni da coltivare sia qui, sia più in basso, nel Chapare. I bambini rimangono soli a casa, senza però essere in grado di badare pienamente a se stessi. I più piccoli non sanno cucinare e rischiano di rimanere senza mangiare per giorni. Altri, semplicemente, non hanno abbastanza cibo.

Il comedor è aperto dal lunedì al sabato e accoglie tra i 30 e i 60 bambini al giorno.

Dopo un’ora abbondante, lo schiamazzare di qualche ragazzino ci fa capire che forse è arrivata l’ora di lasciare libera la tavola!
Ringraziamo le suore, salutiamo i bambini, ci dirigiamo verso le macchine, ma ad un certo punto, riconosciamo in lontananza la voce della nostra cara amica suora polacca che ci chiede: ” Gradite un cafesito?!?”.
Come rifiutare? Altro giro, altra corsa!

È arrivata proprio l’ora di andare. Ringraziamo, salutiamo, scattiamo le ultime foto e ci auguriamo buona fortuna con il solito : “Que te vaya bien!”.
Ma qualcosa pesa sul cuore.







prima che la sveglia suoni

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Mi sveglio quasi sempre prima che la sveglia suoni, questa sì che è una notizia degna di nota. Nessun gemito di disperazione, nessuna smorfia di fatica: non resto ad arrotolarmi tra le lenzuola nel tentativo di restarvi intrappolata. Ma nemmeno scatto in piedi canticchiando, certo. E' che qui il sole tramonta molto presto: la Luce giovane delle sei del mattino ha già avuto abbastanza tempo per camuffarsi in modo da sembrare un po' più vecchia di quello che è, ma per fortuna il Caldo non l'ha notata, non si pavoneggia e tarda ancora un poco. Diciamo che è un buon momento per alzarsi.
 
Arianna è già in piedi (dico in piedi, non sveglia) che traffica ai fornelli con la padella per il tè (dico padella perchè non abbiamo ancora trovato un pentolino, ma solo calderoni!) io mi avvicino, le biascico un buongiorno in quella lingua ibrida che ormai abbiamo cominciato a parlare e mentre taglio il pane mi chiedo se sia meglio mettere prima il pomodoro o il sale. Si, il pomodoro e sopra il sale, lo sanno tutti... ma guardate che non sono nemmeno le sei del mattino, che volete!?
 
Dopo aver armeggiato per un po' con i lucchetti del giardino riusciamo ad uscire: un saluto a Dolores, la vicina e uno a Josè Francisco, il guardiano dell'isolato, prima di svoltare l'angolo e trovarsi sulla strada che collega Managua a Ciudad Sandino. Gli autobus e i camion sollevano la polvere mentre alcuni cavalli brucano a bordopista e le pecore del serraglio qui vicino scampanellano mentre salgono la collina.
Nel frattempo il Caldo ha notato la sua signorina.

Arriva la ruta 133 e saliamo.
 
 
 
A destra, sul limitare di asfalto ed erba, un uomo pedala e spinge avanti una bicicletta scassata.
Alla sua sinistra lo supera un carro trainato da un cavallo grigiobianco, una moto lo affianca, gli taglia la strada e va oltre incurante d'essersi infilata nel mezzo del sorpasso di una camionetta nel cui cassone sonnecchiano sobbalzando alcuni operai.
All'estrema sinistra di questa matrioska di infrazioni passa il nostro bus: un vecchio scuolabus giallo smaltato decorato di scritte, preghiere ed adesivi. Ma lo sprint dura poco, la Cuesta del Plomo non ha mai risparmiato nessuno e non lo fa nemmeno la salita che porta fino a lì, così ci ritroviamo ad arrancare dietro al ciclista che ci eravamo lasciati alla spalle poco fa.

Raggiunta Ciudad Sandino scendiamo per cambiare con la 113, direzione Nueva Vida...la strada ora è sconnessa, devastata da buche e dossi.
Il paesaggio cambia. I muri delle case basse sono dipinti con i colori sgargianti delle pubblicità di biscotti, lubrificanti, compagnie telefoniche... alcuni bambini giocano scalzi per strada, fanno regate di sacchetti di snack vuoti nei rigagnoli di acque nere mentre altri vanno verso scuole e collegi, vestiti con le loro divise biancoblu e con i capelli raccolti in trecce e chignon o petttinati all'indietro con dosi massicce di gel, si attardano per comprare un fresco dal colore brillante e lo bevono mordicchiando un angolino del sacchettino di plastica. Dei polli razzolano legati a dei picchetti di legno, i cani randagi ciondolano da un lato all'altro della strada. Sotto l'insegna di un'officina di saldatura tre uomini forgiano barbecue e cancelli. Una signora cammina sotto una grossa cesta piena di tortillas, grida la sua merce ed elargisce sorrisi. Una giovanissima mamma spinge un'asse di legno a ruote su cui ha inchiodato una cesta, porta a spasso una bimba piccolissima che chiacchiera con un bambolotto. Alcuni ragazzi impigriscono appoggiati a un muro, probabilmente resteranno lì fino a sera.

Il complesso di Redes è un'oasi in mezzo a questa Nueva Vida, che dopo 17 anni tanto nuova non lo è più. Incontriamo Sergio che apre il cancello e spalanca un sorriso: Buenas Dìas Muchachas.
Danilo e Roger: salopette, cappellino con visiera e stivaloni di gomma, rastrellano il cortile e curano le piante: Buenas Dìas Muchachas. Dal despacho del Centro Escolar tuona la risata di Felix, il direttore: Buenas Dìas! E buongiorno a Brenda, a Catarina, a Marta, a Raquel, a Jasmina, ad Haydee e ad Armando.
Nell'ufficio di O.P.C. Marcel ed Edwjin hanno già preso posto davanti al pc: Entonces Muchachas? Que tal amaneceste hoy?
 
Come ci siamo svegliate questa mattina? Bene, prima che la sveglia suonasse, Arianna ha preparato il caffè, ma io l'ho scordato sul tavolo in cucina.
 
Elsa

venerdì 20 novembre 2015

Haiti: Chiacchiere TEMPOranee

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Un mese (e poco più) di Haiti.
Si oltrepassa una sottile linea immaginaria. Quella linea che - rispetto ad altre esperienze di servizio all'estero fatte in passato - prende il nome di continuità. Una parola che si fa piccolina, quasi inadeguata, se confrontata con la storia di alcune persone incontrate e conosciute durante questo primo periodo.

Basti pensare che abbiamo da poco salutato una Piccola Sorella della comunità di Port Au Prince che ha vissuto qui 22 anni.

Nonostante questo, mi sorprende il fatto di avere davanti a me altri mesi di presenza in questa terra così singolare e difficile da decifrare.
Sarà il fatto che di solito in queste esperienze le settimane a disposizione si possono contare sulle dita di una mano, sarà il fatto che uno è consapevole dei giorni a disposizione e cerca di concentrare tutto in quell'arco di tempo, provando a sfruttarne ogni momento...
Fatto sta che, oggi come oggi, posso solo essere felice di avere altro tempo a disposizione.


Il motivo è presto detto: mi è capitato più volte, una volta posato lo zaino in casa, di essere convito di aver capito qualcosa delle abitudini del posto, dell'essere pronto a sostenere una breve conversazione in creolo, di aver intuito quale potrebbe essere il nodo problematico in una determinata circostanza.

Tempo qualche manciata di ore per smentire sul campo tutte queste sbagliate convinzioni che hanno trovato posto nella mia testa. L'attimo successivo la presa di coscienza si è di nuovo al punto di partenza, piedi a terra e orecchie "stile bassotto".


Proprio quando meno te lo aspetti, invece, accadono cose semplici ma che hanno la capacità di riempirti il cuore. E' quella capacità di meravigliarsi all'interno della quotidianità che spesso mi auguro di avere ma che così tanto facilmente dimentico di praticare!


Il tempo però è dalla nostra parte. Sarà lui a rendere diverso l'incontro con "l'altro". Non annullerà le differenze. Per quel poco che ho capito finora, ce le farà vivere in un modo nuovo.
E allora provi ad indossare i panni del "blanc" anche se ti stanno un po' stretti. Potrebbero esse proprio quelle spalle che tirano un po' sotto la maglietta e il collo che stringe quando alzi la testa che ti aiuteranno a capire un pochino più in profondità cosa vuol dire "straniero".

Il resto...lo lasciamo al tempo!

Matteo

martedì 17 novembre 2015

LIBANO: Faccio cose, vedo gente

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Ovvero delle prospettive, dei punti di vista e della scrivania



"- Senti che lavoro – me ne ero dimenticato – che lavoro fai?
* Bè, mi interesso di molte cose… Cinema, teatro, fotografia, musica, leggo…
- Ehm… concretamente…
* Eh… non so cosa vuoi dire.
- Come non sai, cioè che lavoro fai?
* Nulla di preciso.
- Vabbè, come campi?
* Mah, te l’ho dddetto, gggiro, vedo gggente, mi muovo, conosco, faccio delle cose…”

                                                                                                                             Ecce Bombo 


Io e le tre carismatiche persone che vedete in foto - Megòn, Clodia e Micayella, assodata versione libanese dei loro nomi - ci troviamo a Beirut da un mese e mezzo oramai, in servizio civile ça va sans dire
Il nostro servizio – e cerchiamo di capire se sia possibile chiamarlo lavoro - sta coinvolgendo tre aree: due sono shelter per migrant workers, e il terzo è il campo palestinese di Dbayeh.



In tutti questi posti - ad ora - io credo di fare cose e vedere gente, motivo per cui rimando ad un prossimo post il raccontarvi nel dettaglio cosa ci faccio qua.

Per il momento, mi concedo un’altra riflessione sul mio esserci, che in realtà è questione di punti di vista. Prendiamo questi due scenari:
- Se dici “Basically I follow up this project involving migrant workers and refugees, you know…” solitamente la reazione è “Oh nice, that’s interesting” e vieni immaginato dietro una scrivania a tenere in mano le sorti di un progetto, per la serie “cooperante in carriera”.
- Se al contrario spieghi “I am a volunteer from Caritas Ambrosiana (Milan) and I am working with migrant workers…Ajajajajajaj, col “volunteer” crei già confusione, poi dove puoi essere collocato, davanti o dietro la scrivania?

Forse si pensa troppo spesso ad una dicotomia, per cui coloro che operano nel fantomatico mondo della “cooperazione” vengono divisi proprio da una scrivania: se rispetto a questa ti collochi dietro sei in ufficio a progettare, altrimenti sei davanti e quindi sul campo.
Dopo un mese di SCE mi torna in mente una parte del nostro progetto in cui si parlava di stili di presenza: il modo di porsi in altre parole, uno stile che cambia nel tempo e che si evolve, facendo sì (in teoria) che si possa entrare sempre più nel contesto in cui ci si trova.
In queste prime settimane, io sto apprezzando l’entrare “in punta di piedi” in tutto ciò che facciamo.
In punta di piedi nelle diverse tempistiche dietro l’organizzazione del lavoro, nella formalità a volte rigorosa e altre quasi impalpabile nei rapporti di lavoro, e ancora in punta di piedi nel valore che si dà al lavorare dietro una scrivania e nel valore che si dà a chi la scrivania la vede poco.
Ho dei miei personalissimi giudizi ovviamente, che cambieranno o si confermeranno, eppure ciò che apprezzo di più, e credo sia una peculiarità di questo SCE, è proprio il rimbalzare da tutti i lati della scrivania.

Peculiarità questa molto vantaggiosa. Per cui ti puoi trovare a seguire un progetto per una nuova cucina, e lì la scrivania ti serve per contattare ingegneri e fornitori, scaricare preventivi, planimetrie, bill of quantity (presto Team Libano vi svelerà anche questo arcano) ecc. Oppure ti puoi trovare seduta davanti alle scrivanie di persone che desideri conoscere, perché seppur non sia scritto da nessuna parte che queste facciano parte del “tuo” progetto, ci si rende conto possano essere una chiave di accesso a una realtà troppo nebulosa e ben venga il conoscerle e il confrontarsi.
E ti puoi trovare ancora dietro la scrivania, con le mani in fermento, e i cassetti che mentre sei lì si aprono e chiudono… magari non è nemmeno la tua, tuttavia diventa un laboratorio di idee per progettare una lezione di inglese, una tabella che organizzi le chiamate delle ospiti di un centro, un report da condividere coi colleghi o anche una tabella che organizzi la distribuzione degli abiti o annoti i compleanni.
Da quella scrivania ci passi alla fine e all’inizio del lavoro sul campo: sul campo quando si improvvisa una chiacchierata con un fornaio il cui forno è quasi nascosto sotto terra in un campo palestinese; sei sul campo durante un giro di saluti tra le camere delle donne che ti raccontano quante mutande hanno e perché si sentano frustrate; sei sul campo durante una ginnastica mattutina che ti lascia una sete pazzesca eppure ti avvicina col potentissimo linguaggio del corpo a delle donne un po’ annoiate, che riscoprono il bello di mettersi in gioco e in ridicolo. E – curioso no? – sei sul campo a parer mio anche quando usi la scrivania per ricordarti che c’è una lingua da imparare e tenere allenata, perché essere sul campo forse non è tanto essere a Beirut, ma parlare CON Beirut prima che DI Beirut.
Dove collocare tutto ciò, in progettazione, cooperazione, volontariato…?

Non so voi, io lo lascerei proprio serenamente in faccio cose vedo gente, perché in fondo anche questo è solo questione di prospettive e punti di vista.

Prospettive e punti di vista (0): la giusta misura
M: “Per me è dritto
C: “Per me è storto
A: “Per me è no! Lasciate perdere ragazze…”
Prospettive e punti di vista (1): il turbolento incontro tra passato e presente
Prospettive e punti di vista (2): il dolce incontro tra passato e presente
Prospettive e punti di vista (3): de gustibus = “bello mangiare libanese eh, ma a una certa…”[1]


Prospettive e punti di vista (4): la bellezza (ferita)
Prospettive e punti di vista (5): entrare in punta di piedi o dare nell'occhio

Prospettive e punti di vista (6): essere presbiti = guardare le cose da lontano per capirle meglio

Una piccola chicca dopo questa carrellata di PROSPETTIVE E PUNTI DI VISTA: quando ci si trova di fronte a qualcosa che è disorganizzato e confusionario, qua si usa tuttora dire “al’haq ‘alā-l-ṭilyān” cioè “è colpa degli Italiani”; questo perché nel 1912 la flotta italiana bombardò la zona del porto e i quartieri centrali di Beirut, causando così una grande disorganizzazione nella città a livello urbanistico[2]

[1] Immagini prese rispettivamente dai miei amici dei CdS 2014 e dal gruppo FB “Se i quadri potessero parlare”.
[2] Samir Kassir, 2009. Beirut, storia di una città, p. 163.


Belli i punti di vista no?

lunedì 16 novembre 2015

On the way to south

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Beautiful day in Tyre (Sur) today.

Despite the terrible events of Thursday evening last week in South Beirut, an area where Hezbollah enjoys wide support, my friend Megan had the brilliant idea to go on a trip to a city where the "Party of God" is equally as popular as the area affected by the bombings. No, it's not a joke. We casually decided to go.

And now that I'm home I can say I'm glad we did it. It turned out to be a fascinating and somehow interesting city to visit. The scars of the 2006 war against Israel and the memories of the civil war are still printed in people's mind and vivid in their words.

We got a van from Cola and together with 5 man, two soldiers of the army (one damn young, it was not even in his twenty), a woman with her hijab, the driver and us two, we started the journey to Tyre. Surprisingly, it only took us one hour and a half to reach the destination. After all Lebanon is a tiny country. It only takes about two hours to reach both its most southern and northern point.






This city is still one of the few places outside of Beirut labelled as "safe", so an area where I can finally go. Despite this apparent safety it wasn't hard to spot the military, their guns, tanks and so on..

 The thingsthat you notice the most when entering the city are two flags, yellow and green.

The former is the one of Hezbollah composed of the green logo (which incorporates several objects, namely a globe, a book, a sword, and a seven-leafed branch) of the Shia political military organisation upon a yellow background; the latter corresponds to the symbol of the Amal Movement, which is now the largest Shia political party in parliament whose militia has taken part in the Lebanese Civil War. Amal is also an Arabic noun, meaning "hope."





The entire city is marked by these flags; pictures of martyrs were at every light stand, same with those of the politicians. There is also a cemetery by the sea, calm and peaceful.







On top of this, Sur is also the UNIFIL zone.The United Nations Interim Force in Lebanon was established in 1978 to:
  • "Confirm the withdrawal of Israeli forces from souther n Lebanon.
  • Restore international peace and security.
  • Assist the Government of Lebanon in ensuring the return of its effective authority in
    the area"
After the 2006 war against Israel UNIFIL was also asked to (among other things)  monitor the cessation of hostilities and to help ensure humanitarian access to civilian populations and the voluntary and safe return of displaced persons. Its troops remain present till these days; that means more three decades of peacekeeping troops on the Lebanese soil... You can see the UNIFIL boundary marked by the light blue line in the map below.



I have probably seen no less than ten UN tanks moving on the road of Tyre today.
Such issue is an indicator of how delicate, complex and extremely volatile the situation is in this country.

Standing from the beach and looking at the horizon you can spot the Palestinian refugee camp Rashidieh on the left hand side (which hosts more around 30.000 people) and moving along the way to the center of the pic you can even see Palestine (or for some Israel)...

If you are interested in reading about the 12 official Palestinian camps across Lebeanon take a lot to this article from Al-Monitor. It's from 2012 but most of the information remains relevant to these days.

Till next time. Another busy week is knocking at the door.

Michi