lunedì 2 novembre 2015

Quando Piove Bianco

Quante le prime sensazioni ed emozioni del primo mese di servizio civile; bellissime, belle, alcune un pochino meno belle, a volte più semplici, altre volte un po’ più difficili. Quello che è certo è che ogni settimana e ogni giornata sono sempre segnate da nuove scoperte: nuove parole rumene, nuove abitudini moldave, nuovi sapori, nuove percezioni e nuove domande; per le risposte c’è sempre tempo.

Quando ho saputo che sarei partita per un anno in Moldova, ho sentito di aver raggiunto una meta, ma mi sbagliavo: questo è tutto un inizio. Quello che è venuto prima è bellissimo, per me importante e necessario, ma non è abbastanza. E meno male.



Quante cose ci sono in questa primissima parte di.. inizio.

C’è la meraviglia, che è fatta di sei giovani ragazze con sorrisi bellissimi e una dolcezza incredibile, che hanno conosciuto quella sofferenza che proprio nel mondo non dovrebbe esistere mai; che ogni volta che le abbraccio le stringo più forte, come se così potessi trasmettergli per osmosi almeno un po’ di tutto quell’amore e quella gentilezza che a me non sono mai mancate.

È la tenerezza di un centinaio di uomini che ogni giorno si mettono in fila per aspettare con ordine e dignità un pasto caldo; quante emozioni e quante lezioni dietro quei volti che mi guardano in silenzio.

C’è anche l’arte dell’arrangiarsi, quando voglio parlare della neve, ma non so proprio come si dice; e allora improvviso con un: “quando piove bianco”, perché quello incredibilmente lo so dire.

È l’affetto di un’associazione che mi accoglie, che fuori fa freddo e la temperatura è già sotto zero, ma poi mi basta un sorriso o una parola gentile e come per magia sento che alla fine anche al ghiaccio mi ci posso pure abituare. (Spero!)

C’è il provare ad accettare il mio silenzio, quando vorrei tanto raccontare qualcosa, spiegare il mio pensiero, ma la lingua è diversa e proprio non lo posso fare. E questo mi mette con le spalle al muro, perché devo trovare un altro modo, che non sia la parola, per far capire agli altri quello che sono.

È vivere la trafila per ottenere il permesso di soggiorno, e per quanto per me non sia poi così complicato (resto comunque un’italiana), capisco quanto siano stretti gli abiti, quando provo a mettermi nei panni degli altri.

C’è la conferma della consapevolezza che mi porto dietro da sempre e che è la mia forza: la mia famiglia. Che possiamo essere lontani migliaia di chilometri, ma siamo sempre stretti stretti tra noi.

E’ tornare a casa la sera, vedere un cielo che toglie il fiato con la luna là in alto che mi accompagna in silenzio nel tragitto verso casa; allora alzo gli occhi al cielo e so che per ora bastano solo tre parole: andrà tutto bene.


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