domenica 29 ottobre 2017

“E se fosse tutta residenziale?”

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La formazione di Caritas Ambrosiana tra attività e divertimento (parecchio)


Rho, Casa Betel, ottobre 2017. Alla fine della prima giornata di formazione residenziale prevista da Caritas Ambrosiana, i nostri OLP ci lasciano e noi iniziamo ad organizzarci per preparare la cena. Durante il giorno, abbiamo svolto attività per conoscerci, iniziare a fare gruppo e ragionare su cosa significa l’incontro con l’altro – che può risultare alquanto bizzarro, soprattutto quando l’altro si saluta con un bacio sulla spalla e grida come un matto se non fai lo stesso, se gesticoli o se gli parli senza toccarlo (con il gioco I derdiani, abbiamo simulato infatti l’incontro con una cultura portatrice di comportamenti sociali abbastanza curiosi). Anche se siamo in quattordici, riusciamo incredibilmente a coordinarci senza problemi e, soprattutto, a metterci d’accordo su cosa comprare da mangiare. Quando le ragazze tornano con la spesa, la cucina sembra trasformarsi in un formicaio pieno di operose formiche: chi pela patate, chi taglia carote e zucchine, chi prepara il soffritto, chi lava pentole e coltelli. Il risultato è un gran pentolone di minestrone che viene messo a cuocere su un fornello un po’ fiacco. Mentre aspettiamo – all'inizio apparentemente in vano – che l’acqua inizi a bollire, apriamo qualche bottiglia di vino e cominciamo a lavorare sul “compito” che ci è stato dato per la mattina seguente: creare una scultura, con i materiali presenti in casa, che rappresenti la nostra “cultura”. Così, c’è chi inizia a tagliare ed incollare, chi a disegnare e colorare, chi in pochi abili mosse crea la propria opera d’arte e si dedica al vino, chi incomincia tardi e resterà a lavorare con dedizione fino a notte inoltrata. I risultati del nostro lavoro sono sorprendenti, ed anche il minestrone non è poi così male, forse abbiamo solo esagerato un poco con la quantità (i resti ci accompagneranno durante tutti i giorni seguenti). 

La mattina dopo presentiamo le nostre s-culture, ragioniamo sull'idea stessa di cultura ed i suoi limiti, e tra una spiegazione e l’altra c’è anche chi si emoziona. Poi, prima di pranzo, ci viene assegnato un altro incarico. Poiché ognuno di noi ha portato un ingrediente a lui caro, che fosse rappresentativo della sua personale cultura o della sua storia, ci viene dato il compito di preparare un pranzo che contenga tutto quello che è stato portato. Gli ingredienti comprendono: mele, pere, farina e lievito, lenticchie, patate, riso, zucca, sale, parmigiano reggiano, basilico, pomodorini, vino, riso soffiato al cioccolato, cacao. Dopo una breve consultazione, decidiamo quale sarebbe stato il menu e ci mettiamo all’opera. Come la sera prima, la collaborazione viene del tutto naturale e noi stessi ci sorprendiamo di come tutto funzioni organicamente. La cucina ridiventa formicaio e, senza regole o ruoli stabiliti, senza che nessuno si imponga, ognuno trova la sua occupazione. C’è chi prepara un piatto e chi l’altro, chi si dedica ai primi, chi ai secondi e chi ai dolci, c’è chi apparecchia, chi scrive il menu con arte ed eleganza, chi prepara i sotto-bottiglie facendo origami. Il risultato, ancora una volta, è sorprendente. Il menu “Impronte golose 2017” include: antipasto di gocce di parmigiano, focaccia con i pomodorini, bruschette e vino; risotto alle lenticchie come primo e patate e zucca al forno come secondo; torta di mele come dolce, insieme a deliziose fettine di pere ricoperte di cioccolato e riso soffiato. Sedersi a tavola dopo tanto ed accurato lavoro è proprio un piacere, ed anche gli OLP sembrano parecchio soddisfatti.









Con le pance piene riprendiamo le attività del pomeriggio, che prevedono la visione di un film, il vento fa il suo giro, ulteriore modo per riflettere sulle dinamiche di incontro con l'altro. Il film è controverso ed intrigante, tant'è che, interrotto a metà per limiti di tempo, decidiamo di guardarne la fine dopo la cena, preceduta da un abbondante aperitivo. Durante il film facciamo scommesse sul finale, ipotizziamo il peggio, scherziamo sui personaggi, ma la fine ci lascia talmente scossi ed amareggiati che dopo i titoli di coda inizia una lunga discussione sul film, su quello che ci ha trasmesso, sui suoi significati. Poi la discussione passa a temi più leggeri, e con le persone che resistono fino a notte inoltrata passiamo a revocare i momenti della selezione di gruppo a cui avevamo dovuto partecipare per essere lì in quel momento, ricordiamo le figuracce fatte, scherziamo sui nostri comportamenti e su quelli delle altre persone che avevano partecipato.

L’ultimo giorno è dedicato alle dinamiche del lavoro in gruppo, lavoriamo a coppie su un foglio, sperimentando con un gioco dinamiche di collaborazione e conflitto. Quando ai due membri della coppia è dato come compito quello di disegnare due cose completamente diverse, ma sullo stesso foglio e con una sola penna, alcune cercano di comunicare senza l’uso della parola, altre riescono a collaborare disegnando una casa-elefante, c'è chi cerca di imporre a tutti i costi il suo disegno calcando la mano, chi passa un po’ troppo tempo a cercar di comunicare e quasi si dimentica del disegno. Lavorare in gruppo non è certo facile, e questo esercizio ci permette di riflettere sulle problematiche, le sfide e le strategie del lavoro in equipe. 

Quanto a noi, fino a qualche giorno prima perfetti sconosciuti e sconosciute, è chiaro che in pochi giorni un po’ gruppo lo siamo già diventati (e che gruppo!), malgrado le partenze imminenti verso paesi completamente differenti e lontani migliaia di chilometri tra loro. Quando ci chiudiamo alle spalle la porta di Casa Betel, siamo tutti e tutte entusiaste dei tre giorni appena passati, tanto da rimpiangere il fatto che essi siano già finiti. Qualcuno addirittura sospira, "Ah se la formazione fosse tutta residenziale!"


Caritas Ambrosiana: una chiamata (in)aspettata

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Casa delle Culture di Scicli, estate 2017. È mattina e sono appena entrato al centro, una casa che ospita ragazze migranti, perlopiù nigeriane. In cucina sto aiutando l’operatore di turno a preparare la colazione per le ragazze, chiacchiero con lui e con l’altra volontaria, ancora un po’ assonnati ci prepariamo un caffè. Sono i primi giorni di questa nuova esperienza, e come mi è capitato spesso nei due anni appena trascorsi mi devo ancora abituare ad un contesto tutto da scoprire:  è la prima volta in Sicilia, vivo con ragazze e ragazzi appena conosciuti, ancora mi muovo impacciato negli spazi del centro e non conosco bene le sue ospiti. Vivo comunque a pieno l’entusiasmo del nuovo, malgrado la timidezza e le incertezze iniziali. È una sensazione che ho provato spesso nei due anni precedenti a quest’ultima esperienza: il master in cui mi sono laureato, solo pochi giorni prima della partenza per la Sicilia, mi ha infatti permesso di saltare da una città all’altra del Mediterraneo, di cambiare continuamente contesto, università, lingua, squadra di basket, di vivere intensamente per qualche mese città affascinanti come Barcellona, Venezia, Meknes, Montpellier, Firenze. Ora che scrivo queste righe, mi rendo conto di come il tempo negli ultimi due anni sia vorticosamente accelerato, lasciandomi poco spazio per digerire tutto quello che è successo. Poi il cellulare squilla, un numero sconosciuto compare sullo schermo. Quando rispondo, lo stupore è totale: dalla Caritas Ambrosiana mi chiamano per chiedermi se sono ancora interessato al servizio civile in Libano, per cui avevo svolto i colloqui di selezione poco tempo prima. Il tono di Alberto, il nostro futuro Operatore Locale di Progetto (OLP, sigla che in Libano potrebbe essere alquanto ambigua), è amichevole e scherzoso, lontano dalla formalità che lo caratterizzava durante il colloquio. Quando riattacco, ci metto qualche secondo a realizzare l’importanza di quella chiamata così inaspettata, dell’impatto che avrà sul mio futuro immediato: il servizio civile in Libano, fino a quel momento possibilità remota, diventa certezza, l’ennesimo viaggio si concretizza all'orizzonte, investendomi della felicità euforica che contraddistingue l’idea della partenza. 

sabato 28 ottobre 2017

Domande e risposte

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Henri Cartier-Bresson ha scattato questa foto nel 1961 in Grecia, sull'isola di Sifnos. È un’immagine a cui sono particolarmente affezionata perché spesso mi sono trovata ad immedesimarmi nella 
bambina della foto che, dopo aver affrontato di corsa una scalinata, sta per girare un angolo dietro al quale non sa cosa troverà. Eppure continua a correre. Nella mia mente ho sempre pensato che se dovessi dare un nome all'istante immortalato, lo chiamerei “curiosità”. E la curiosità è uno degli aspetti che sento far parte del mio essere in modo profondo e onnipresente. 

La curiosità è anche ciò che più di tutto spinge la mia testa a fare domande, a farmi delle domande, a sapere il cosa, il perché, il come di ciò che accade. E in questo preciso momento – ora che manca una settimana alla mia partenza per il Libano – sento che la mia mente è diventata quasi come un contenitore pieno fino all'orlo ma che vuole continuamente essere riempito, nonostante non ci sia più spazio: più domande ci verso dentro e più vorrei versarne.  

Baricco è sicuramente più bravo di me ad esprimere le sensazioni che sto provando. In “Castelli di rabbia” scrive infatti che nella vita accadono cose che sono come domande. Che passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.

Mi piace pensare che sia così. Mi piace pensare che le risposte alle infinite domande che ora ho sulla realtà in cui mi immergerò per un anno, prima o poi sazieranno la mia curiosità, senza il bisogno di cercarle ora con tanta fretta.  

Forse alcune risposte le ho già trovate ancor prima di partire. Mi sono resa conto che la sensazione di smarrimento che a volte ho provato era dettata semplicemente dal venir meno di quelle barriere invisibili che spesso non ci rendiamo nemmeno conto di avere ma che, in realtà, costruiscono il nostro modo di vivere la quotidianità e di relazionarci. Mi sono anche detta che spesso, però, le risposte non sono il punto di arrivo nella scoperta di se stessi.  
Ho realizzato, quindi, che uno dei desideri che ho per questo viaggio che deve cominciare, è che sia un tempo traboccante di domande che abbiano la capacità di condurmi verso una riscoperta, qualunque essa sia. 

Vorrei riscoprire il senso del rumore e della quiete. Quello della parola e quello del silenzio. Vorrei riscoprire la contraddizione. È lei che porta a metterti in discussione, ad analizzare e comprendere le scelte a cui a volte non si riesce a dare una direzione precisa; è ciò che ti porta a cambiare. Non posso dirlo con certezza ma, in questo momento, ho la sensazione che il Libano possa e voglia regalarmi tutto questo. 

Non pretendo che le strade, i palazzi, i colori e i volti di Beirut mi diano delle risposte a tutti i costi. Vorrei che riuscissero però a far crollare quelle barriere invisibili di cui parlavo e avere così la possibilità di immergermi completamente, senza vincoli, in una realtà nuova caratterizzata da relazioni e legami incontaminati. 

Perciò, dopo aver affrontato di corsa e un po’ a fatica la scalinata, mi trovo anche io a dover girare l’angolo; ciò che mi aspetta dietro è il Libano e io sono la bambina della foto. 

Giulia

-7 a Cochabamba: gli ultimi passi per la Bolivia!

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-      L'inizio di un viaggio con radici lontane


Un passo, poi un altro, ed ecco, sono qui. Quando cammini con il gusto del viaggio arrivi anche a dei momenti di sosta, dove hai bisogno – o decidi – di fermarti. Ti vuoi riposare, ammirare quanto ti sta intorno o vedere meglio dove stai andando.


Mi trovo adesso in uno di questi momenti, ferma, ma carica di quell'energia di chi è sul punto di saltare: sento di aver camminato tanto per arrivare a questo punto, ma allo stesso tempo di avere davanti a me orizzonti ancora sconfinati. La decisione di saltare l’ho già presa: ha richiesto tempo e forza, ma adesso sto prendendo la rincorsa per lanciarmi!



Se provo a ripensare a cosa mi ha portata fino a qui, ecco che una matassa lunghissima comincia a srotolarsi e a correre da tutte le parti, piena di nodi e ingarbugliamenti, apparentemente senza né capo né coda. Da piccola volevo fare la missionaria, poi girare il mondo come medico, poi … quanti cambiamenti!


I più importanti non sono mai stati né semplici né indolori, ma se cerco di rileggerli mi sembrano un po’ il frutto di un movimento tra due vette, le mie paure e quello che veramente desideravo, che mi faceva sentire viva. E di questo fanno parte il desiderio di scoprire, di viaggiare, di aprirsi al mondo.
Ma anche di agire nel mondo, sporcandomi le mani, cercando di capirlo, di maneggiarlo, lasciando un segno. 

Confronti politici, volontariato, la scelta degli studi: tutto questo si amalgama nella pasta di cui sono fatta oggi. Ma che forma ha? Sapere in quale direzione vuoi andare è già difficile, ma per farlo diventare realtà devi poi tradurlo in scelte, percorsi: a volte li intraprendi di tua volontà e a volte semplicemente ti affidi.

Il Servizio Civile all'Estero è stata per me una scoperta che ha avuto origine quasi per caso: avevo 19 anni, volevo partire e il mio don mi ha consigliato – ormai tanto tempo fa!- di chiedere in Caritas. Ho scoperto così i Cantieri della Solidarietà –esperienze di volontariato all'estero organizzate da Caritas Ambrosiana- e sono partita per la Moldova. Lì ho incontrato un ragazzo che stava facendo il Servizio Civile.

Cos'era il Servizio Civile? E chi lo sapeva! L’ho scoperto allora, e da quel momento l’ho come messo in tasca e tenuto lì, continuando la mia strada. Quell'idea, quel sogno mi ha aiutata ad orientarmi: sono partita altre volte, viaggi vicini e lontani, ho cambiato università, casa, città, e in tutto questo sono cambiata tanto anch'io! Ma quel sogno bruciava sempre in tasca, finché non ho deciso di tirarlo fuori e di provare finalmente a coltivarlo. E adesso …. Uno Dos Tres Cuatro Cinco …. –7 a Cochabamba! Tra sette giorni saremo in Bolivia.


Chissà che frutti nasceranno durante quest’anno … In questo blog magari riusciremo a condividerne il sapore, ma state attenti: i sogni sono contagiosi!

Chiara

Torni a casa?

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Venerdì 29  Settembre 2017 durante il mio ultimo giorno di lavoro come operatrice  presso un centro di accoglienza per richiedenti  asilo si è consumato un delitto.
Nel  bel mezzo dei saluti ai colleghi, agli ospiti della struttura con cui ho condiviso gli ultimi due anni, un volontario incuriosito dal momento toccante e straziante mi chiede perché mi sia licenziata; la risposta è semplice , la so, la accendo; rispondo che  un paio di mesi di prima avevo fatto domanda per il servizio civile internazionale  e stavo per partire per la Moldova con Caritas Ambrosiana!

Ed è a questo punto che accade il fattaccio! Augurandomi  in bocca al lupo, il volontario, mi chiede che effetto mi faccia tornare a casa, tornare a casa in Moldova? Rimango basita ed incredula  cerco lo sguardo complice di qualcuno, ma si sa che quando sei nel momento del bisogno c’è sempre quel fuggi fuggi generale e ti tocca fare i conti con te stessa e le tue risorse. Decido di rimanere in silenzio in un primo momento poi  di sorridere ed infine ringrazio per l’augurio.
La prima reazione è  quella di guardarmi il dorso della mano,  non si sa mai magari ho subito una mutazione genetica , magari ho pure perso una taglia…ma no…sono sempre io! e sono ancora nera! è chiaro allora che sto per partire per un posto più esotico di quanto possa immaginare e difficile ai più da collocare geograficamente. Figata!


Una reazione anomala l’avevo vissuta qualche settimana prima quando avevo comunicato la mia partenza agli ospiti del centro che mi avevano chiesto perché mai mi fosse anche solo balenata l’idea di andare in Moldova.  “Faustina…”,  mi dice Sekou  scherzando, “ le persone normali  vanno in America, in Europa ma non in Moldova!” 
“ Ca…  Sekou  almeno tu…la Moldova E’ in Europa!!”.


È il 26 di Ottobre e la prossima settimana parto per Chisinau per un anno, il progetto è corposo, ben costruito e la parte che più mi affascina  è il lavoro con le donne che incontrerò che sono anche il motivo principale per cui ho aderito.  Spero davvero  di  sentirmi  un po’ a casa come mi ha augurato il volontario… BENTORNATA A CASA FAU! 

Per le donne che incontrerò:

Deve essere a scelta.
Cambiare, purché niente cambi.
È facile, impossibile, difficile, ne vale la pena.
Ha gli occhi, se occorre, ora azzurri, ora grigi,
neri, allegri, senza motivo pieni di lacrime.
Dorme con lui come la prima venuta, l’unica al mondo.
.
Gli darà quattro figli, nessuno, uno.
Ingenua, ma è un’ottima consigliera.
Debole, ma sosterrà.
Non ha la testa sulle spalle, però l’avrà.
Legge Jaspers e le riviste femminili.
Non sa a che serva questa vite, e costruirà un ponte.
Giovane, come al solito giovane, sempre ancora giovane.
.
Tiene nelle mani un passero con l’ala spezzata,
soldi suoi per un viaggio lungo e lontano,
una mezzaluna, un impacco e un bicchierino di vodka.
.
Dove è che corre, non sarà stanca?
Ma no, solo un poco, molto, non importa.
O lo ama, o si è intestardita.
Nel bene, nel male, e per l’amor di Dio.

Ritratto di donna, Wislawa Szymborska.

venerdì 27 ottobre 2017

DA TCHERNIVTSI A MANAGUA

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 Breve storia di una migrazione


    Valigie pronte, formazione quasi terminata, biglietti aerei prudentemente custoditi in un libro. Ci siamo. Sembra tutto pronto. La mente divaga, abbraccia ricordi, salta barriere spaziotemporali e mi rispedisce dritta su quell’altalena scomodissima che da bambina mi faceva girare la testa, ma allo stesso tempo, mi faceva sognare altri mondi.



"Catapultata in una scuola in provincia di Caserta a cantare “Jamme jamme, ‘ngoppa jamme ja”


      Correva l’anno 2002, conducevo una tranquilla vita a Tchernivtsi, una cittadina vivace e multietnica nel Sudovest dell’Ucraina. Durante un pomeriggio di fine estate, mentre con un gruppetto di amiche scrivevamo una lettera ai Backstreet Boys (in un improbabile inglese) e litigavamo su quale nome doveva comparire per primo nel saluto finale della lettera, apprendevo la notizia che avrebbe cambiato la mia vita: si parte per l'Italia!

   Come potete immaginare, ero triste di separarmi dalla mia gang, capitemi, il capitalismo musicale americano stava pian piano raggiungendo l'Est e noi avevamo grandi progetti insieme! L'obiettivo era chiaro: diventare le Spice Girls made in Ukraine. Non potevo di certo immaginare che di lì a poco sarei stata catapultata in una scuola in provincia di Caserta a cantare “Jamme jamme, ‘ngoppa jamme ja”. Sì, avete capito bene. Sono stata inserita nel coro scolastico e ho dovuto imparare tutte le canzoni tradizionali napoletane a memoria, prima ancora d'imparare l'italiano. Non era esattamente ciò che mi aspettavo, ma mi sono abituata abbastanza in fretta.
   Inutile stare qui a raccontare delle simpatiche angherie dei miei compagni di classe (nessuno ha un buon ricordo delle medie) e tralasciamo anche lo shock culturale di un’adolescente in piena crisi con il mondo. Infondo, sono solo dettagli di una lunga e intensa “integrazione”, non così diversa da tante altre storie dei figliissus de l’immigration.

    
    Crescendo, mi sono resa conto di appartenere sempre di più ad una certa napoletanità che oggi difendo orgogliosamente. A Napoli ha avuto luogo la mia formazione, è qui che ho tessuto legami forti, è qui che mi sono avvicinata alla politica, è qui che ho imparato a fare un ottimo caffè!  Ora, però, Managua mi aspetta e continuo a domandarmi quale delle due culture, che mi porto gelosamente dentro, emergerà nel contesto nicaraguense. Litigherò con il cameriere quando mi porterà una pizza troppo cotta, oppure ricorderò con nostalgia i varenniki che, nonostante l’insistenza di mia madre, non ho mai imparato a cucinare?


Luego veremos!

"...A coloro la cui umanità è troppo preziosa per essere distrutta
da muri, da sbarre e case della morte.
E soprattutto a coloro che continueranno a lottare
finché il razzismo e l'ingiustizia di classe
non saranno banditi per sempre dalla nostra storia"

Angela Davis






Rotolando...Verso est.

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Sono Lisa e ho una gran fame di mondo!

Sono nata a Schio, una cittadina ai piedi delle piccole Dolomiti.
Le montagne, nella mia storia, hanno sempre scandito ogni ritorno, durante gli anni dell’università, dai viaggi, dai tempi trascorsi lontana da casa.

Le vedo all’orizzonte spuntare piano dal finestrino del treno o dall’autostrada ricoperte di neve, avvolte dai colori dell’autunno, alle volte simili ad ombre cinesi quando una nebbiolina si alza dal basso fino a farle sembrare quasi disegnate o verdeggianti come in questa foto.
Salutare le montagne é un po’ come salutare casa... L’ho sempre vista un po’ così. Sono sempre state il segno di un legame quasi viscerale con le mie radici.  
Insomma, a breve saluterò per un po’ le mie montagne per arrivare in un paese in cui di montagne non ne vedrò proprio. Tra poco, infatti, inizierò una nuova avventura in Moldova, (un piccolo stato che si trova tra la Romania e l’Ucraina)  dove la “punta” più alta raggiunge i 430 metri!
Partire per la Moldova é stata una possibilità che si é presentata all’improvviso, scombinando i piani che mi ero in qualche modo prefigurata, cosa che che, per l’ennesima volta, mi ha insegnato a ritarare e ad accogliere quello che si presenta, senza rimanere troppo ferma nelle stanze dei miei castelli mentali!
La possibilità di partire per un anno, in un paese allo stesso tempo così vicino e così lontano dall’Italia, mi ha da subito, incuriosita ed elettrizzata. Un paese di cui anch'io so molto poco ma che sono certa abbia tanto da dirci e darci, e con cui siamo (forse inconsapevolmente e profondamente) legati nel quotidiano, anche se in modo silenzioso e alle volte volutamente svalutante... Basti pensare a quante vite, nelle nostre famiglie italiane, siano affidate alla cura di donne moldave.
Cercare di capire il contesto e la vita di tutte quelle persone che invece stanno "dall'altra parte della medaglia", di chi resta nella propria terra e cercare di comprendere anche i legami con chi invece é qui, é stato fin dall’inizio per me una spinta ad incuriosirmi ancora di più, a voler capire con i miei occhi quello che è realmente questo paese “sballottato” tra una visione filo-russa e una più filo-europeista, frutto di una storia faticosa, ancora molto recente e "fresca".
Parto con tanti dubbi e tante domande per la testa, con la paura di non sapere gestire le storie che incontrerò, con la consapevolezza di fare un pezzettino in un percorso già iniziato da qualcun altro e che qualcun altro poi continuerà, ma con la voglia di conoscere e capire, di immergermi in un mondo e in delle storie nuove che sapranno mettermi alla prova e che sapranno aprire nuove riflessioni, nuove visioni e nuovi percorsi.
Parto con gli occhi carichi di tutte quelle persone che mi sostengono nel quotidiano e senza le quali, probabilmente, non sarei partita.
Il mio percorso è sempre stato accompagnato da un’instancabile voglia di andare, capire, spalancare gli occhi sul mondo e sulle persone che incontro: frutto un po’ della genetica, un po’ degli eventi… 
"Questa è una storia
da raccontare.
Può andare bene,
può andare male,
ma non si sa 
qual'è il finale.
Bisogna andare,
comunque andare
a camminare
sulla terrazza
con vista mondo,
dove ogni alba
è anche un tramonto.
Si va si va,
ma dove si va?
Chissà chissà,
paura non ho.
E questa vita mia
è tutto quel che ho,
più breve lei sarà
e più forte canterò" 

(L'arca di Noé, Mannarino)
Ora mi guardo attorno e vedo di fianco a me i miei compagni di avventura e saperli vicini nei pensieri, nelle sensazioni e nelle emozioni, anche se a breve saremo un po’ tutti sparsi per il mondo, mi carica. 
Voglio immaginare l’anno che mi si prospetta davanti proprio come una bella camminata in montagna: certa che tra gli alti e i bassi dei sentieri che ci troveremo a percorrere riusciremo ad essere capaci di scorgere nuove prospettive, nuovi pezzi di mondo e nuovi sguardi.
Profondamente grata di poter essere qui, a scrivere con tutti voi un nuovo capitolo... E allora si va, rotolando verso est!


Lisa

VERSO BEIRUT

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VERSO BEIRUT

La notizia che stessi partendo un anno per Beirut ha suscitato in alcune persone a me vicine stupore, sbigottimento, persino paura. Negli occhi di altre ho invece letto il fascino che una sola parola – “Libano” – poteva innescare.
Tre ore di volo separano Milano da Beirut, la capitale di questo paese poco più grande delle Marche e quasi dimenticato del Medio Oriente. Un paese con cui condividiamo lo stesso mare. Eppure da noi si sente parlare solo di Siria e di Iraq, Talvolta di Giordania e Israele, ancora meno di Palestina. Tuttavia il Libano non viene normalmente citato a casa nostra. C’è chi si ricorda della guerra civile del 1982 e poi del conflitto con Israele nel 2006.
Per chi si interessa di Medio Oriente, invece, il Libano evoca un’immagine esotica, talvolta mitizzata. Chi ha studiato arabo – come me – ha ben presente il ruolo di protagonista che il Libano occupa sulla scena politica, sociale e culturale araba. Noi, studenti o ex studenti, abbiamo sempre sentito citare Beirut come culla della letteratura araba contemporanea, una città vivace e brulicante, quasi un’isola felice racchiusa nella polveriera mediorientale.

In realtà credo di sapere ben poco del Libano. Ne parlo spesso, in queste settimane. Con i miei colleghi, con i responsabili del progetto, con le ragazze appena tornate da un anno di Servizio Civile a Beirut. E l’immagine che si sta creando nella mia testa è quella di una delicata scultura di cristallo, in bilico su qualcosa di instabile. Un oggetto bellissimo e precario.
Il Libano è da sempre stato un crocevia di comunità diverse che quasi mai hanno convissuto in maniera pacifica. Cristiani maroniti, cattolici, ortodossi, armeni, siriaci, caldei. E ancora musulmani sunniti e sciiti. Drusi. E molti altri.
Poi, nel 1948 è stato fondato lo Stato di Israele. E numerosi palestinesi hanno cominciato a fuggire verso il Libano, quel paese dei cedri così vicino, ma in cui hanno incontrato difficoltà e porte chiuse. Una sorte analoga è toccata ai siriani, sessant'anni dopo.

Non conosco così bene il Libano. Ne parlo spesso, ma continuo a non afferrarne l’essenza. Allo stesso tempo mi interrogo su cosa sia questo paese. Mi chiedo su cosa potrò fare lì, partendo da ciò che mi è stato spiegato. Ho sentito parlare di attività educative con bambini siriani, donne scappate da situazioni di abusi e violenza. E mi chiedo cosa potrò mai fare io per queste persone. Io, che non so cosa sia una guerra. Io, che non so quanto pericoloso sia appartenere a una certa comunità e ritrovarmi nel quartiere sbagliato.
Ciò nonostante, credo di aver colto una piccola parte di ciò che forse rappresenta il Libano: una terra che accoglie tutti. A volte malvolentieri. A volte vendicandosi brutalmente di chi, scappando da una guerra, cerca rifugio all'interno delle sue frontiere. Però accoglie. Per il momento, è tutto ciò che so.

giovedì 26 ottobre 2017

Sospingi la tua barca

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Sono Marianna e mi piace il mare. Lo dice anche il mio nome  -abbreviato -  “Mari” , che è come mi chiamano le persone quando si sentono  già in confidenza. A questo punto uno si aspetterebbe che io viva in una città marittima come Genova, Napoli, Rimini… No. Abito a Milano, ma il mare mi accompagna da quando sono piccola, dalle lunghe estati passate con i miei nonni a Livorno, dove ho imparato a nuotare molto presto a suon di bevute d’acqua, addii struggenti ai braccioli,  e incoraggiamenti vari.
Allora sorge un’altra domanda:  “parti per una città di mare?”. No. Vado in Bolivia, il “corazon del Sud America”, che essendo appunto un  “corazon”  non ha sbocchi sul mare. E allora che c’azzecca il mare? 
Il mare lo porto con me, perché in questo momento mi sento un po’ come una piccola barchetta. Sono sulla riva, pronta a partire: sto spiegando le vele, preparando i rifornimenti, il salvagente (sì, serve anche quello!) e sto salutando parenti e amici al molo. 
Parto per un anno di servizio civile all’estero, l’ho deciso tempo fa, ma come ogni decisione importante che ho preso nella mia vita, ho avuto bisogno di tempo per concretizzarla. 
La mia barchetta è piccola e (spero)  resistente,  è pronta ad affrontare le onde e a farsi trasportare dalla bonaccia; farà un lungo giro e incontrerà tante isole nel suo percorso e in ognuna si fermerà, anche solo per poco, e  ogni terra toccata sarà per me importante.
Nonostante la mia sia una piccola barca monoposto, appena giro lo sguardo vedo che sul molo ci sono tante altre barchette… ben tredici! Sono tutte differenti e ognuna è bella a suo modo. Tutte, come me, si stanno preparando per affrontare il mare. Non abbiamo la stessa meta, eppure qualcosa di forte ci lega: lo spirito con cui partiamo sembra un enorme e unico soffio di vento che già inizia a sospingerci.  E allora, eccomi, sono pronta, preparo la bussola, apro il diario di bordo, aggiusto il timone e intanto, comunque vada,  in questo inizio di viaggio non mi sento sola. 

Ai miei compagni di avventura voglio quindi dedicare una poesia che mi è stata donata da una persona molto cara. Inutile dire che parla di barche… e mari.

Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.

Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.

Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

Conosco delle barche talmente incatenate
che hanno disimparato come liberarsi.

Conosco delle barche che restano ad ondeggiare
per essere veramente sicure di non capovolgersi.

Conosco delle barche che vanno in gruppo
ad affrontare il vento forte al di là della paura.

Conosco delle barche che si graffiano un po'
sulle rotte dell'oceano ove le porta il loro gioco.

Conosco delle barche
che non hanno mai smesso di uscire una volta ancora,
ogni giorno della loro vita
e che non hanno paura a volte di lanciarsi
fianco a fianco in avanti a rischio di affondare.

Conosco delle barche
che tornano in porto lacerate dappertutto,
ma più coraggiose e più forti.

Conosco delle barche straboccanti di sole
perché hanno condiviso anni meravigliosi.

Conosco delle barche
che tornano sempre quando hanno navigato.
Fino al loro ultimo giorno,
e sono pronte a spiegare le loro ali di giganti
perché hanno un cuore a misura di oceano.
                                                    
                                                       [Jacques Brel]


Appunti, ponti e partenze

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Anno 2009. Milano. Una mattina qualsiasi. 
L’odore di smog appena fuori dalla metropolitana si avverte subito – eh sì che non abito poi così lontano! Son proprio una piccola provinciale abituata all’aria delle campagne di Ozzero. 
Quattro passi a piedi e arrivo in via S. Bernardino. Cerco la sede di Caritas Ambrosiana. Ho un appuntamento e una voglia matta di partire. Arrivo convinta, mossa da un ingenuo entusiasmo, tipico di una diciannovenne che, nel tentativo di trovare la propria strada, inciampa nell'illusione di potersi realizzare salvando il mondo: “Ciao, sono Greta e voglio andare in Africa!”.
Di certo quello che poi udirono le mie orecchie non me lo aspettavo. Non era quel che avrei egoisticamente voluto. Mi diverto a semplificarlo con una distorsione: “Bene, grazie, ma adesso vai a studiare”. 

Anno 2016. Nairobi. Una mattina d'inverno.
Gli odori, la polvere, il fumo, i colori e i suoni si avvertono subito - e, poi, non te li stacchi più di dosso, portandoli iscritti nella memoria, sulla tua pelle bianca. 
Quattro passi a piedi e arriviamo in un campo da calcio ritagliato nel mezzo di Mlango Kubwa. Cerco di godermi ogni momento. Sono qui con gli altri volontari di Amani. Un'associazione che ho conosciuto attraverso il concorso "In un altro mondo" di CEI e Caritas Italiana, a cui ho partecipato spinta dal desiderio di allargare i miei confini e il mio sguardo.
Di certo quello che poi ho sentito nel cuore non me lo aspettavo. Non era quel che avevo precedentemente ipotizzato. Mi piace semplificarlo con queste parole: "Feel free, feel at home".

Anno 2017. Milano. Una mattina di luglio. 
Il caldo estivo in città si avverte subito – eh sì che in montagna era così fresco!
Quattro passi a piedi e arrivo in via S. Bernardino. Ricordo dove si trova la sede di Caritas Ambrosiana. Ho un appuntamento per le selezioni del Servizio Civile. Arrivo tranquilla, mossa dalla curiosità di verificare un interesse, un desiderio “antico” e a tratti anche un po’ inspiegabile: “Mi piacerebbe tornare in Kenya, per più tempo, per mettermi a servizio, per imparare, per capire…”.
Di certo quello che poi è successo non me lo aspettavo. Ed è quel che avevo desiderato e lentamente si è realizzato. Potrei semplificarlo così: “Ciao mamma, vado in Africa”.

Son passati 8 anni. Qualcuno direbbe: “Ne è passata d’acqua sotto i ponti”. 
Sì, in effetti, la vita è cambiata. Greta è cambiata: son cresciuta – forse non solo perché ora ho 27 anni. Non so di preciso quanti chilometri ha percorso il fiume; ma il tempo dell’Università, gli incontri, il discernimento, i distacchi, il lavoro, le avventure, le cadute e le ripartenze hanno intrecciato una storia, variopinta e piena d’Amore.

E oggi ... oggi son qui, all’imbocco di un ponte: si parte!


Il ponte si slancia “leggero e possente” al di sopra del fiume. Esso non solo collega due rive del fiume. Esso non solo collega due rive già esistenti. Il collegamento stabilito dal ponte – anzitutto – fa si che le due rive appaiano come rive. È il ponte che le oppone propriamente l’una all’altra. L’una riva si distacca e si contrappone all’altra in virtù del ponte. Le rive, poi, non costeggiano semplicemente il fiume come indifferenziati bordi di terra ferma. Con le rive, il ponte porta di volta in volta al fiume l’una e l’altra distesa del paesaggio retrostante. Esso porta il fiume e le rive e la terra circostante in una reciproca vicinanza. 
[Heidegger]


Ci vediamo a Mombasa, sul Nyali Bridge!

SERVIZIO CIVILE: come ci si arriva?!

1 commento:

In Cammino verso la scelta del Servizio Civile


Ciao a tutti!

Mi presento, sono Chiara, per gli amici, Chiara Galla. 
Da una settimana ho compiuto 28 anni e tra qualche giorno prenderò un aereo che mi porterà in Kenya, precisamente a Mombasa, per iniziare un anno di Servizio Civile con Caritas Ambrosiana.
Aspetto la partenza con gioia e trepidazione, curiosità e voglia di mettermi in gioco, vorrei che fosse già domani, ma prima ci sarà bisogno di un mese intero di formazione qui a Milano.
Anche se, ripensandoci, il mio cammino di formazione inizia ormai qualche anno fa.
Infatti quello che mi ha spinto a fare domanda per il Servizio Civile sono state le esperienze di volontariato che da sempre ho vissuto nel mio Oratorio, a Castelleone e che negli ultimi quattro anni ho fatto in diversi paesi del mondo, sempre con Caritas Ambrosiana.


L' Oratorio è il luogo in cui sono cresciuta e dove è nata ed è stata coltivata la mia passione per il servizio agli altri… la lista delle attività è lunga: dall'animatrice all'educatrice, da catechista a responsabile del Grest e attrice della compagnia teatrale. Insomma, il pacchetto completo. Ma c'è di bello che ognuna di queste attività mi ha insegnato a lavorare con gli altri, spendermi per loro e sentirmi parte di una comunità che poi è quella cristiana.



A un certo punto, però, in me è scattato qualcosa, volevo vedere se tutto ciò che avevo imparato a  casa era valido anche da qualche altra parte, in altri contesti, lontani, magari anche più difficili… e allora da lì è nato il desiderio di partire e di cercare un'associazione che mi permettesse di farlo rispettando l'idea che io avevo dello stare con e per gli altri.
E' stato così che ho incontrato la Caritas Ambrosiana e ho  partecipato ai "Cantieri della Solidarietà".
Mi ricordo che una delle frasi che mi aveva colpito di più agli incontri di presentazione era lo "STILE DELLO STARE", un'espressione con cui si teneva a sottolineare come Caritas intendeva lo stare in mezzo agli atri, in un contesto straniero, diverso e che ospita… uno stare rispettoso, in punta di piedi, uno stile che predilige l'incontro, il dialogo, il vedere l'altro come persona, come una ricchezza e come un fratello. 
Era così che Caritas proponeva ai giovani di partecipare ad un Cantiere della Solidarietà, che, nel concreto, consiste in 3 o 4 settimane di servizio, in contesti di povertà, vulnerabilità e disagio.

Ed io a 23 anni sono partita per il mio primo cantiere.
E' stata la Bolivia la prima terra che mi ha accolto, nel 2013, dove ho prestato servizio in una comunità per minori orfani e abbandonati, la "Ciudad de los niños". Li si giocava, si aiutava nei compiti, si condivideva tutto, dagli spazi al cibo e ho avuto anche la fortuna di lavorare ogni mattina nella panetteria che preparava il pane per tutta la comunità. Questa esperienza per me è stata come amore a prima vista...dopo, infatti, non sono più riuscita a farne a meno.
Nel 2014 sono stata in Nicaragua, dove mi ha accolto la comunità di Nueva Vida, nella periferia di Managua. Qui studiavano e trovavano un luogo sicuro i bambini e i giovani di strada, così come le donne vittime di violenza, veramente molte in quel quartiere.

Nel 2015 Haïti, nella zona rurale del nord dell'isola, lontana da Port-au-Prince, dove abbiamo organizzato con un gruppo di giovani Animatori haitiani, due "Grest" per i bambini dei villaggi e aiutato in una comunità di monaci benedettini.

Dopo Haїti ho preso un anno di pausa dai Cantieri per partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia, in Polonia, con Papa Francesco e 2.500.000 giovani cristiani da tutto il mondo. Mi ricordo che nonostante tutto quell'anno mi era spiaciuto moltissimo non partire e che le parole del Papa che invitata i giovani all'accoglienza dell'altro, all'essere costruttori di ponti e non di muri, a "scendere dal divano" e a mettersi in cammino verso l'altro, io le sentivo proprio dirette a me e non potevo ignorarle.


Dunque dopo un anno intero di servizio in Oratorio, quest'estate sono ripartita con Caritas in Serbia, nel campo profughi di Bogovadja. Lì ho vissuto per due settimane e ho condiviso sorrisi, giochi, storie e pensieri con 250 profughi provenienti da Iran, Afghanistan, Pakistan, Iraq,Siria, Cuba, Africa e Macedonia. Oggi se ripenso a quello che ogni anno mi ha spinto a ripetere questa esperienza lo trovo nel profondo senso di comunità, rispetto, fratellanza, unità e riconoscenza che ogni volta si creava con i ragazzi che partivano con me e con le persone che incontravamo ogni giorno.



Durante ognuno di questi Cantieri si è fatto, per me, sempre più chiaro, visibile e palpabile cosa significhi essere TUTTI delle persone, TUTTI fratelli, TUTTI figli di Dio; ho vissuto la grande famiglia della Chiesa che è presente in tutto il mondo, ho sperimentato il grande potere dell'Amore che si manifesta nei piccoli e grandi gesti o semplicemente nell'essere a fianco di chi ha bisogno.
Dopo aver vissuto tutto ciò non ho potuto non lanciarmi in questa grande scuola di vita e di amore che è il servizio per gli altri... e dunque nel Servizio Civile, proprio con Caritas!
Quindi dite una preghiera per me...e...ci sentiamo dal Kenya!
Chiara