domenica 31 agosto 2014

Ethiopia Dalle nostre stalle alle loro stelle

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Prima di partire per i Cantieri della Solidarietà, è facile gasarsi pensando di arrivare in Etiopia e “salvare il mondo” in tre settimane. E’ facile però che le aspettative vengano stravolte e che sia la gente del posto a venire in tuo aiuto a dimostrarti quanto, lavorando in silenzio, gli africani diano anima e corpo per la loro comunità.
E’ quello che abbiamo capito noi cantieristi quando, sulla strada verso la missione di Getche, a 40 chilometri dal primo centro abitato, siamo rimasti fermi in mezzo alla strada per colpa di un guasto alla mitica jeep di suor Lucia.

 Appena scesi dal veicolo, ecco venirci incontro una dozzina di bambini e un’anziana signora che, invece di chiederci soldi o caramelle come al solito, ci dispensano grandi sorrisi e canna da zucchero da sgranocchiare. Così, gratuitamente, senza chiederci nulla in cambio, per il semplice fatto di dimostrarci la loro ospitalità. Esattamente nello stesso modo in cui, in meno di un’ora, suor Francesca  è accorsa a caricarci sul suo pullmino e a portarci dritti fino a Getche. Ma ancora più sorprendenti, oltre all’enorme disponibilità con cui siamo stati accolti dalle sorelle della missione, sono stati i racconti di suor Francesca e suor  Marta di come riescano praticamente da sole a gestire una clinica a disposizione di circa 12000 abitanti nei 4 paesi circostanti. I servizi sanitari in Etiopia sono tutti a pagamento; le suore di Getche invece, finanziandosi esclusivamente con le donazioni che ricevono, hanno tirato in piedi questa struttura in cui, nonostante a causa di un guasto alla corrente l’ elettricità manchi ormai da tre mesi (e sembra che nessuno abbia intenzione di restituirgliela), riescono ad offrire supporto e assistenza alla loro gente.
Ti sorprende la grande forza d’animo che traspare dai comportamenti delle “sisters”, la consapevolezza di quanto la salute sia un diritto fondamentale dell’essere umano e di quanto stia loro a cuore che la gente venga educata al rispetto anche delle più banali norme igieniche. Certo, le possibilità che le condizioni di vita offrono in quella terra sono assai limitate, ma questo non basta a evitare che queste donne si spendano gratuitamente e senza mezze misure per dare un significativo contributo a favore dei loro fratelli.
Un servizio straordinariamente importante ma svolto nel massimo silenzio, che può essere un esempio da seguire per tutti noi, ognuno impegnato a modo suo nel dare una mano e a mettersi in gioco nei confronti di chi ci sta accanto.

Ali,Marti,Fedea,Babi,Andre,Ele,Fedeo,Giuli

Ethiopia Ottavo giorno

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Ancora il wi-fi non è stato trovato, le comunicazioni tra la nostra guest house e il resto del mondo appaiono sempre più utopiche. Finalmente stasera è tornata la corrente, per quanto riguarda l’acqua nel nostro bagno non ci siamo ancora, ma ci stiamo lavorando. Il tanto temuto “cagotto” sta iniziando a mietere vittime, ci sono stati i primi caduti, ma per fortuna si stanno eroicamente riprendendo. Le nostre valigie non sono ancora state avvistate, attendiamo con ansia la mitologica “Tin Sai” che, stando a quanto dice il nostro comandante suor Delia, sta per portarcele. A dirla tutta, doveva arrivare “domani” esattamente sei giorni fa ma, si sa, siamo in Africa del resto. Qui bisogna dimenticarsi di orari, appuntamenti e tempi precisi (anche perché è difficile, se si tiene conto che per il calendario etiope siamo nel 2007 e le nostre 6 di mattina corrispondono alla loro mezzanotte!).

Eppure è anche in questo che risiede il fascino del nostro cantiere. 

Il fatto di “staccare la spina”, in senso metaforico e letterale, dal mondo a cui siamo abituati e dalla routine e immergersi completamente in questo mondo affascinante in cui un caffè che si rispetti, per essere consumato, richiede almeno un’ora di rito e dove per attraversare la strada devi stare attento a non scontrarti con asini, cavalli e “bajaj” (una sorta di trashissimo apecar all’africana, il top per un giro in città).
 Il cellulare poi ti serve poco se ti ritrovi disperso in mezzo alle campagne dopo due ore di cammino sulla strada sbagliata! Fortuna che almeno con noi c’è sempre un corteo di almeno 30 bambini che ci segue ridendo, dandoci la mano e intonando “una sardinaaaaa” con l’accento più improbabile che si sia mai sentito.  Per loro siamo indiscutibilmente le star del momento,ci seguirebbero in capo al mondo.. Ehm, un momento, però alle 18,30 qua inizia a fare buio, e il nostro gagliardo seguito non è comunque una grande difesa da quello che potrebbe aspettarci nella notte africana.
Ma niente paura gente: perché preoccuparsi, quando c’è un camioncino di boscaioli lungo la strada, pronto a caricarci insieme alla  legna e riportarci in città sul tetto, mentre all’orizzonte possiamo gustarci lo spettacolo della famosa super luna che si staglia nel cielo etiope?

Una tranquilla gita fuori porta, insomma. Ma ne è valsa la pena per un’immersione in questa assurda e affascinante realtà. E poi, meglio un’avventura del genere o passare il pomeriggio a guardare il documentario di Santa Barbara che Suor Delia sta ancora cercando di propinarci???
Ebbene sì, otto giorni fa è iniziato il nostro cantiere. Prima di partire, si sa, ogni “cantierista” ha delle aspettative e quella più comune è che il cantiere sia una grande avventura;  e se dopo solo otto giorni i presupposti sono questi ... altro che grande avventura!!

Ali,Fedea,Fedeo,Marti,Babi,Ele,Andre,Giuli

Etiopia: 24 ore dopo

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Atterrato da poco più di ventiquattro ore, mi ritrovo su un treno a pensare al cantiere appena concluso e a tirare le somme di quello che abbiamo vissuto.
È strano tornare alla vita di tutti i giorni, sembra tutto diverso, eppure tutto è come l’avevo lasciato.

Seduto davanti a me c’è un bambino con in mano un tablet, non ha ancora alzato gli occhi e forse non si è nemmeno accorto di me; solo due giorni fa a quest’ora ne avrei avuti almeno quattro o cinque attaccati alle mani, entusiasti per il braccialetto dell’armadillo.
È proprio grazie ai bambini che quest’esperienza è diventata così importante, difficile da immaginare e che io stesso avevo immaginato diversa; vedere la povertà fa effetto e soprattutto se questa colpisce i più piccoli.
Le attività erano iniziate con una cinquantina di bambini che si erano uniti a noi durante il primo giro per Wolisso e l’ultimo giorno le 180 fantastiche “spille regalo” erano bastate a malapena per tutti.



È comodo non sobbalzare ogni 200 metri nei tragitti in macchina, non sporcarsi le scarpe nel fango o nell'erba, avere il proprio posto sui mezzi di trasporto e non avere timore di quanto sia marcia la banconota che ti daranno di resto; però era anche questo a rendere vive le piccole cose.




Ripenso alle passeggiate notturne con Fede per andare a buttare (o meglio bruciare) la pattumiera e a recuperare quello che serviva dalle sister, ed al ritorno si commentava la perla quotidiana di suor Delia.

La sera esco con gli amici di sempre, ma è normale che il pensiero vada alle serate con quelle che sono diventate le amiche di quest’avventura (Fede siamo troppo in minoranza per poter parlare al maschile); le immagini un po’ da casa di riposo con coperte, camomilla, giochi da tavola, film e seven-minutes; perché, non credevo di arrivare mai a dirlo, in Africa fa freddo e piove, ma basta mezzora di sole per ritrovarsi la faccia e il coppino ustionati.

Rivedi tutte le persone della tua quotidianità e ti passano davanti agli occhi le facce di chi ha riempito le ultime tre settimane, quelle a cui ti sei più affezionato: le compagne di viaggio, suor Francesca, il guardiano, John Cena, il Boss, Buruk e i medici del CUAMM.

Davanti ho il mare, dietro le colline toscane (=D) e le case intorno sono in cemento, e come non ripensare al lago Wonchi e al suo battello, a quelle fantastiche alture di Gogore Bora in cui ci siamo prima persi e poi impantanati, alle capanne di fango e paglia, o lamiera per i più ricchi.



So già che quando a fine settembre tornerò a fare lo studente di medicina non potrò non ricordare i pomeriggi fatti di bolle di sapone, palloncini e macchinine, e i sorrisi dei bambini che pian piano si riprendevano grazie alle cure.

Una notte alzo gli occhi al cielo ed eccomi lì a Getche a cercare stelle cadenti, grandi, medi e piccoli carri, costellazioni improbabili (triangoli, rombi), ma d'altronde se non c’è la corrente devi trovare qualcos’altro da fare.
Rivedo la luna e mi ricordo che l’ultima volta l’avevamo guardata da un camion di taglialegna; la guardo bene, ma mi rendo conto che è tutt’altro che Super (=D).



Sono atterrato da ormai una settimana, ma i momenti in cui ripenso all'Etiopia mi continuano a capitare; è vero che noi otto ragazzi italiani non abbiamo cambiato le vite dei bambini, che continuano a lavorare, mangiare falso banano, correre a piedi nudi sulla ghiaia, vestirsi con quello che capita e lavarsi nel rigagnolo davanti alla guest house; però, forse, queste tre settimane avranno per sempre cambiato il nostro modo di vedere il mondo.

Ali, Fede A, Fede O, Ele, Barbara, Marti e la Boss…Amesegenallo =)




venerdì 29 agosto 2014

Haiti: stare in punta di piedi

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Ci sono tanti modi di “stare”. E le Piccole Sorelle del Vangelo hanno il loro stare a Citè Okay. Uno stile discreto di presenza, di accompagnamento (e non di imposizione), di collaborazione con la gente locale (e non di direzione), oltre che di rispetto profondo per quelle che sono le tradizioni e persino i cliché di Haiti. Esempio: la festa finale del Kan dètè è stata un susseguirsi di singole esibizioni di balli e canti da parte dei bambini più talentuosi. Noi avremmo voluto far festa e giocare con tutti i bambini, anziché farli assistere a uno spettacolo da seduti, ma in Haiti è questa la festa, si fa così. E i bambini si sono divertiti comunque: si sta seduti per ore a guardare qualcuno danzare, se si sogna il proprio turno!
Non per forza le Piccole Sorelle condividono la scelta finale, ma la rispettano: la decisione presa insieme ha la precedenza, proprio perché discussa da tutti.

La presenza “in punta di piedi” della Comunità di Charles de Foucault ha formato un gruppo di animatori volontari che a Kay Chal trovano un luogo dove si sentono importanti e possono esprimersi. E’ strano a pensarci bene, perché diversi di loro a volte non hanno neanche la possibilità di mangiare, ma dedicano il loro tempo ai progetti del centro.
Sempre per far crescere la comunità, le Piccole Sorelle investono molto nella cultura, all’interno di Kay Chal: andando “contro” la mnemonicità del sistema di apprendimento haitiano. A Kay Chal il canale preferenziale dell’educazione,  della conoscenza e dell’apertura culturale non è altro che l’esperienza. È qui che si inserisce anche la nostra avventura: abbiamo condiviso con 6 animatori l’esperienza di un campo estivo a Mole st. Nicolas, nel nord dell’isola. Per alcuni è stato il primo vero viaggio, ricco di novità, sorprese e sorrisi. E anche se per loro è stata un prima volta e per noi un’ennesima, l’entusiasmo, la voglia di fare e di mettersi in gioco sono state le stesse per tutti.

Sarà anche uno stile “in punta di piedi”, ma le orme che lascia si vedono eccome!




P.S.
Oh Davide, per salutarti
abbiamo un altro poema da dedicarti!!
quattordici ore da sardine abbiamo passato
ma il bus in un paradiso ci ha poi lasciato!
per prepararci al viaggio non ci siamo fatti mancare nulla:
una stanza con muri di rhum ci ha fatto da culla.




Stefania, Francesco, Elena, Letizia, Marta


giovedì 28 agosto 2014

CDS NICA 2014: ¿Qué te gusta màs de Nicaragua?

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Una domanda semplice, in teoria, ma nel momento in cui te la pongono ti vengono in mente mille immagini, suoni, odori, colori e la semplicità del dover rispondere si trasforma nella difficoltà di non poter scegliere una cosa specifica da dire.


Vediamo… mi piace svegliarmi ogni giorno pensando alla giornata che mi attende con tutte le cose da fare programmate o non che tanto con gli orari nicaraguensi vengono sempre stravolte e perciò escono eventi sempre più belli, entrare nel Guis che ti accoglie con un pugno di colori, come una ventata di aria fresca e aspettare i ragazzi che arrivano già con le braccia aperte e con un sorriso a trentadue denti, la bellezza di tornare a dormire alla sera sapendo di aver fatto un passo in più ricco di sorrisi, abbracci, carezze che hai ricevuto durante la giornata e che ormai fanno parte di te.




Qui il tempo scorre in due modi diversi: uno lento, che ti permette di assaporare a pieno quegli istanti di vita che passi insieme a tutti gli altri, quello fatto di tanti momenti da riempire di mille cose e che per quanto siano pieno sembra non bastino mai. Invece l’altro più veloce, che alla sera vai a letto e ti domandi: “ ma come è già passato un altro giorno?!” ciò non significa che sia meno bello, anzi ti permette di vivere al meglio tutto quello che deve ancora venire.




Bè che dire, tutto sommato la risposta a questa domanda potrebbe essere… questo Nicaragua è proprio Tuani!

Stefania

NICA CDS 2014: Una porta sempre aperta

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Un paese straniero, un gruppo di persone che si conoscono appena, poco meno di un mese di tempo da trascorrere insieme… un’unica parola… CANTIERE.

Cantiere è lavoro di squadra, è condivisione, è incontro, è scambio, è fatica, è sostegno, è rinuncia, è affetto, è creatività, è emozione, è … FAMIGLIA!




CANTIERE e FAMIGLIA, due parole che in un dizionario avrebbero definizioni differenti, ma non qui, in Nicaragua!

Perché quello che si percepisce quando arrivi e che ti accompagna per tutto il viaggio è proprio questo… un’aria di casa e l’affetto di una famiglia.











Una famiglia dove i componenti hanno storie diverse, provenienze diverse, personalità diverse, modi di pensare diversi, ma dove la diversità unisce tutti in un legame, che non è quello di sangue, ma quello dell’esperienze e delle emozioni vissute insieme...




Una famiglia dove i sorrisi e gli abbracci non mancano mai e dove, puoi star certo, la porta di casa è sempre aperta!



Francesca 

NICA CDS 2014: Ma per noi il Nicaragua che cos’è?

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Nicaragua per noi è colore: il colore del mercato e delle bancarelle, è il colore delle case che non seguono un ordine ben preciso.
… è musica, che ti dà una spinta in più durante il giorno.
… è essere chiamati “Gringos” mentre si cammina per le strade (termine usato per descrivere gli americani).
… è cercare di farsi intendere con gesti e parole italianizzate a causa del precario spagnolo (Ma sempre ci siamo riusciti!!).
… è il sorriso di Gabriela e di tutti i ragazzi del Guis che trasmettono una vitalità e un’ allegria infinita.

… è lottare con le mosche durante i pasti.
… è il contagio dei MEGA della Chiara “Mega Bellllo!!”.
… è la comida tipica nicaraguense, gallo pinto, tajada, pollo fritto ecc..
… è sentire Lorenzo canticchiare improvvisamente “Notte, che notte quella notte” durante la mattina.
… è diventare dipendenti dalla Fresca e berne litri in quantità.
… è la gioia di farsi una doccia la sera e sciacquare via il sudore e la polvere.





… è orientarsi per il barrio seguendo le indicazioni “ desde el Ranchon media cuadra arriba y dos cuadras a lago
… è vedere la Ste chiudere OGNI sera gli armadi a chiave e spostare qualsiasi cosa appesa @_@
… è vedere TeoSce addormentarsi su ogni superficie e mezzo di trasporto non importa come sia in viaggio.
… è assistere agli spettacolari tuffi sulle persone di SteSce che potrebbero competere con una campionessa olimpionica di tuffi.
… è ascoltare le lezioni di vita di Lele che ogni volta ti fanno comprendere qualcosa di più sul mondo, mentre cerca una pepita.
… è sentire la voce allarmati di Fede di notte per paura di ladri immaginari e gatti malvagi.




Ma Nicaragua non è solo questo, è il semplice abbraccio di un bambino che forse è tutto quello che ha per ringraziarti.
… è la forza di mettercela tutta ogni giorno, dare il meglio di se per gli altri e trasmettere qualcosa.
è la voglia di alzarsi e spaccare il mondo ogni mattina.
… è l’emozione che trasmettono i giovani promotori di Rèdes, il loro impegno e la loro voglia di fare per cambiare e migliorare il barrio.
… è vedere volti di innocenti bambini già segnati dal tempo e dalla fatica




...è credere e sperare in un futuro migliore per tutti gli abitanti di Nueva Vida.

… è svegliarsi con il sorriso essendo felici e soddisfatti del lavoro che si svolge e di tutte le esperienze e persone che ti ricaricano di ottimismo e di vita.





E ricordatevi che alla fine per tutto in Nicaragua è … DONATELLA1

NicaCantieristi

mercoledì 27 agosto 2014

Il profumo di una terra da scoprire...Bolivia!

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La prima cosa con cui mi sono scontrata atterrando in Bolivia è stato l’odore.

Un odore forte, pungente, un po’ dolciastro e sicuramente a primo impatto fastidioso.
E’ stato così che mi sono effettivamente resa conto di essere stata catapultata dall’altra parte del mondo, in un posto effettivamente diverso dalla mia quotidianità. Un posto ricco di diversità in cui io ho deciso di impegnarmi “non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo. Per amare anche quello che non possiamo accettare, anche quello che non è amabile”.
E così ogni mattina quando la sveglia delle 6.15 suonava mi alzavo, pronta per scoprire quello che la giornata mi avrebbe regalato.

In Bolivia siamo riusciti a godere delle meraviglie della natura ritrovandoci in posti estremamente interessanti, tutti da scoprire.

Il candido salar della comunità di Vacas,
                                              
                                   

il forte Inca che con i suoi 4000 metri di altitudine mi ha letteralmente tolto il fiato,


l’afa della foresta amazzonica, resa più leggera dalle risate dei bambini nel Rio del Chapare,
                                      
                             
 
la città di Cochabamba con le vedute mozzafiato, l’esplosione di colori della cancha e dei suoi abitanti.

                                      
                                 
Ma tutto questo non sarebbe stato niente se non fosse per le persone che ci hanno aiutato a capire un po’ di più questo paese pieno di paradossi. Le tante “Hermane” e i Padri che abbiamo avuto la fortuna di incontrare mi hanno aperto gli occhi sul cosa vuol dire donare veramente la vita per gli altri, per i più piccoli e i bisognosi. Mi hanno fatto capire che pur essendo consci di non cambiare il mondo e le dinamiche che lo governano, sanno che il loro lavoro è indispensabile e la loro perseveranza è davvero ammirevole. Venendo qui mi sono resa conto che per aiutare gli altri bisogna essere consapevoli che quello che si fa lo si fa prima di tutto per se stessi, perché è così che si riesce a dare di più. Ma fare cosa?
Mi sono ritrovata di fronte i lavori più diversi: aiutare i bambini e giocarci insieme, fare il pane, aiutare in cucina, stendere i panni, zappare la terra, dipingere una casa e persino abbattere un muretto di pietre che pesavano quanto me per costruire una cappella!

                                        
                                                                                                                                                                                                                 

La gratitudine mescolata ai pensieri più diversi era dipinta sui volti delle persone che ho aiutato, o forse che ho creduto di aiutare e ciò mi ha sempre riempito di gioia: l’espressione divertita dei campesinos che mi guardavano lanciare pietre…a due centimetri dai miei piedi, il sorriso di Fernando nel vedere che le pagnotte che impastavo più che cerchi sembravano macchie di colore!
Gli occhi più espressivi sicuramente li ho trovati nei bambini: quando mi prendevano in giro perché con il mio spagnolo risicato cercavo di fargli capire quale fosse la differenza tra + e x, quando tutti concentrati mi fissavano mentre cantavo “girogirotondo”, quando ridevano per il solletico o quando scappavano arrabbiati perché erano stati “pescati”, orgogliosi nel mostrarmi i loro orti o il dormitorio pulito, curiosi, pieni di forze e sempre pronti ad aiutarsi.





Questo viaggio è stato un riscoprire la felicità ogni giorno sempre di più; di sorriso in sorriso, di gracias in gracias, di stretta di mano in abbraccio, l’odore che mi ha accolto è penetrato dentro di me, impregnando i vestiti e soprattutto il mio corazon e sono sicura che mille docce non riusciranno a cancellarlo anche da lì.



Grazie BOLIVIA!

Paola

lunedì 25 agosto 2014

C'è un post...o in Libano!

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C’è un posto, in Libano, dove ad accoglierti c’è così tanta nebbia che nemmeno a Milano in pieno novembre.

C’è un posto, in Libano, che al primo impatto assomiglia ad una prigione e ti prende un po’ alla gola.

C’è un posto, in Libano, che sembra un limbo: ci sono tante donne che aspettano e aspettano ognuna con un passato troppo vicino e un futuro che rimane sempre troppo lontano. Allora sembrano tristi, ma forse sono solo delle esuli. Troppo lontane.

C’è un posto, in Libano, dove c’è sempre un gran via vai e ci sono donne che arrivano, donne che partono e donne che scappano perché non ne possono più.

C’è un posto, in Libano, dove ascolti storie che avevi letto solo in quei libri sugli stranieri che ti fanno leggere a scuola e ti fanno esclamare “Assurdo!” ma poi restano sempre un po’ troppo lontane.

C’è un posto, in Libano, dove i bambini non hanno una mamma, bensì 80 e non piangono di certo se una sconosciuta li prende in braccio. Ma è anche il posto dove si sente di più la mancanza di un “papà” con la barba e i muscoli per sollevarti fino al cielo.

C’è un posto, in Libano, dove il concetto di “mio” e “tuo” è un po’ diverso perché se ci si deve accontentare allora anche un “nostro” è meglio di qualsiasi cosa. Invece ci sono anche volte in cui non si tollerano sbagli e bisogna andare a sedare un litigio in piena notte perché “si era seduta sul mio letto”.

C’è un posto, in Libano, dove di sera si prega Dio davanti a una statuetta della Madonna e lo si fa con canti che vengono dal profondo dell’anima e dal profondo dell’Africa fatti di una religiosità a noi incomprensibile, ma che parlano sempre e solo di gioia.

C’è un posto, in Libano, dove se stai male ti passano la Bibbia sul corpo che guarisci prima.

C’è un posto, in Libano, dove se parte La Colita si balla tutti quanti e tutti insieme e posso solo dirvi che hanno reso speciale questo ballo anche per me.

C’è un posto, in Libano, in cui ci sono donne che vogliono solo sentirsi donne e così una volta tirati fuori fili, perline, trucchi e macchina fotografica non ti puoi più tirare indietro.

C’è un posto, in Libano, in cui apri il frigorifero e ci trovi solo chili di cipolla e le tipiche “piadine” utilizzate per fare il “rotolino” e vi giuro che alle 23 quando avete fame vi piange il cuore. Eppure adesso, che sono a casa, quando apro il frigor e vedo tutti questi colori, tutta questa abbondanza, tutte queste scatole e scatolette di marca diversa il cuore piange, ma perché non trovo un senso a quest’opulenza.

C’è un posto, in Libano, in cui l’ultima sera senti le donne urlare “I love Italia and I love you!” e allora ripensi ai primi giorni quando bisognava pregarle per farle alzare dalla sedia e venire a giocare con te e pensi che di strada ne hai davvero fatta.

C’è un posto, in Libano, dove vedi tanti sogni per il futuro che si scontrano con la realtà e allora “Mia figlia ha ottenuto i permessi per andare in Danimarca da suo padre. Io no. Io ho un tumore e devo restare qui. Ma forse più avanti riuscirò a raggiungerli. Però sono contenta: mia figlia è tutto ciò che ho.”

C’è un posto, in Libano, dove gli occhi ti parlano e sono occhi induriti da quello che hanno visto, occhi in cui intravedi le foreste pluviali del cuore dell’Africa, occhi dolci di una madre che consola il figlio che piange, occhi che non hanno un paese perché nel loro paese non ci possono più tornare e ci sono occhi stanchi che vorrebbero solo posarsi su un cuscino morbido e chiudersi, ma sanno che non possono. Non ancora.

C’è un posto, in Libano, dove basta un bimbo che si sbrodola di bolle di sapone insieme a te per farti sentire più leggera.

C’è un posto, in Libano, dove non è tutto facile come sembra e ci sono giorni in cui bisogna lottare per le cose, ma chi ha detto che nello sporcarsi le mani, i piedi, la faccia e il cuore, nel far fatica non si riscoprano le cose semplici e buone di noi e dell’altro che si erano date per scontate?

C’è un posto, in Libano, in cui io ti sorrido e tu mi sorridi perché non abbiamo altra idea sul come comunicare, ma così facendo il cuore mi si scalda un po’ di più.

C’è un posto, in Libano, che ti opprime quando ci sei dentro perché non puoi scappare da te stessa e cerchi sempre di uscirne, ma quando sei fuori non riesci a togliertelo da dentro e quella parte di te che è rimasta lì si sveglia presto, al mattino, perché magari può ancora dare una mano a preparare la colazione.

C’è un posto, in Libano, dove restare 2 settimane sui 365 giorni che ci sono in un anno assomiglia molto a voler riempire con un secchio un mare troppo grande.

Eppure c’è un posto, in Libano, dove non vai per cambiare il mondo o la vita di alcune donne perché di certo non puoi aiutarle a tornare nei loro paesi o a riabbracciare i loro cari.

È il posto in cui non è tanto importante se 2 settimane sono troppo poche perchè quando te ne vai la nebbia che ti ha accolto resta sempre, ma questa volta solo fuori e nel cuore brilla un po’ di sole in più.
 
Martina P.
 
 

"Appoggiati a me che se ci dovesse andar male insieme sapremo cadere."

"Chiudi gli occhi e sogna, Amore mio"


"Ci sarà una lontananza che diverrà la tua nuova casa"

"Balliamo sul mondo!"

Bolivia: Gratuitamente avete ricevuto...

2 commenti:

Lavoriamo un sacco sul donare gratuitamente, su quanto sia bello donare e su quanto questo sia arricchente, ma siamo capaci di ricevere? Siamo veramente capaci di ricevere gratuitamente? O il ricevere ci è scomodo e ci infastidisce? Oppure nella nostra infinita arroganza pensiamo di non aver mai bisogno di ricevere e che abbiamo solo da donare?

Il ricevere è molto scomodo, ci fa sentire piccoli, ci da l’impressione di dipendere dalla persona che ci ha fatto il dono, ci fa sentire in debito nei suoi confronti e non ci piace sentirci in debito, ci fa vivere con l’ansia di ricambiare, di liberarci. Il debito, nella nostra testa, ci lega all’altra persona e per noi “occidentali”, per la nostra cultura, il sentirci legati a qualcuno, che magari non conosciamo bene o che non ci sta troppo simpatico, non ci piace. O peggio, il dono potrebbe venire da una persona che noi riteniamo “inferiore”, dalla quale noi crediamo di non avere nulla da ricevere. Scusate il politicamente scorretto, ma nelle nostre teste esiste il concetto di “inferiore”, anche se facciamo di tutto per mascherarlo, anche se abbiamo inventato mille modi e mille altre parole per camuffarlo e anche se grazie alla ragione stiamo facendo di tutto per dirci che siamo tutti uguali, nella nostra testa, nel nostro subconscio che deriva dalla nostra parte più profonda, dove ancora si annidano i nostri più antichi e biechi istinti animali, esiste il concetto di inferiorità. Come “inferiore” ora identifichiamo: i bambini, gli anziani, gli “sfigati”, le persone con handicap fisici e/o mentali, i poveri, i bisognosi…insomma le persone che stanno ai margini della società.

Donare a queste categorie ci fa sentire grandi, importanti, buoni, ci fa sentire dei super eroi e ci da prestigio a livello sociale. Ci piace farci belli dicendo: “Sono andato in missione in… (aggiungete voi il nome del paese più povero e più sfigato che vi venga in mente), e ho salvato vite, ho costruito scuole, ho costruito ospedali gratuiti per tutti, ho lottato contro malattie impossibili… Quando raccontiamo queste cose le ragazze o i ragazzi (a seconda di chi parla e di chi ascolta) sospirano, le nonne ti fanno lo sganascino sulle guance e dicono: “và che bravo fiö” (chi ancora parla o scrive queste antiche lingue nordiche che sono i dialetti del nord Italia mi scuserà per come l’ho scritto)i sindaci ci premiano con chiavi della città e riconoscimenti che andranno su di una mensola a prendere polvere, il nostro ego si allarga a dismisura e a volte entriamo in competizione per chi dona di più: “io ho donato 100!”; “io 1000!”; “io DI PIU’ !”. Così donando, a volte, calpestiamo la persona che vorremmo aiutare. Non lo facciamo più per lei, ma lo facciamo per noi, solo ed esclusivamente per noi, e manchiamo il nostro obbiettivo.

Allora io dico: impariamo a ricevere, a ricevere gratuitamente, a fare tesoro di quello che riceviamo. Capiamo che chi ci dona qualcosa lo sta facendo per la semplice gioia di donare, che non si aspetta nulla in cambio, a volte neanche la nostra riconoscenza. Impariamo a lasciare da parte la nostra fretta di ricambiare, il momento in cui l’altra persona avrà bisogno di noi si presenterà e semplicemente, per coglierlo, basterà stare con gli occhi e il cuore aperti.

Perché questa riflessione? Perché il week end del 16 y del 17 Agosto sono successe due cose. La prima è la camminata della notte di Urkupiña, durante la quale Caritas Cochabamba ne approfitta per raccogliere monete per finanziare una sua campagna, quest’anno a favore della lotta alla tratta e al traffico di persone. La seconda è stata domenica la visita ad una comunità rurale, dove siamo stati invitati in casa di una famiglia.

Venerdì notte, da mezzanotte alle sei, noi volontari di Caritas Ambrosiana siamo stati coinvolti nella raccolta di monete organizzata da Caritas Cochabamba. Una delle cose più interessanti fu vedere come la gente partecipava alla raccolta. C’erano persone che ti donavano la moneta solo per far si che tu li lasciassi proseguire il cammino, altri che lo facevano per abitudine, altri ancora perché lo facevano tutti. Poi c’erano quelli che lo facevano perché presi dal momento, quelli che lo facevano per devozione alla Madonna quelli che lo facevano perché ti ascoltavano e capivano l’importanza del tema della campagna. A donare partecipavano tutti i tipi di persone, ricchi e poveri; giovani e vecchi. Di fronte a persone, che ai nostri occhi europei non hanno un centesimo da donare, che lasciano giù non una, ma magari quattro o cinque offerte, ci viene in mente la domanda perché? Beh al di la della convinzione di alcuni, dello spirito caritativo di altri e delle altre mille motivazioni che ho detto prima ce ne è una quasi più profonda: “io dono perché ho una dignità. Sarò povero, non guadagnerò molto, farò fatica ad arrivare a fine mese però comprendo quello che stai facendo, so che è una cosa buona e voglio contribuire anch’io, con quel poco che ho, donandoti magari quello che non posso permettermi di donarti, però siccome ho una dignità e mi guadagno da vivere voglio partecipare anch’io”.

Seguendo questo filo conduttore arriviamo al secondo episodio. Domenica, invitati (noi e il gruppo del centro missionario di Bergamo) in casa di David e della sua famiglia, ci è stato offerto da mangiare. Questo perché eravamo ospiti e qui l’ospitalità è ancora sacra. In Bolivia ci sono tanti problemi, si ha ancora molto da lavorare sulla gratuità, però l’ospitalità rimane sacra e all’ospite si offre il meglio che si ha, senza fare calcoli (come facciamo noi) di quanto questa visita ci viene a costare o che magari se offro a lui poi non rimane più niente in casa. Così di fronte al catino di mais (mote) e di uova che ci veniva offerta, che sicuramente era più di quello che si sarebbero potuti permettere, noi, europei ci siamo sentiti a disagio e abbiamo sentito il bisogno di placare le nostre coscienze. Di fronte a tanta generosità, di fronte all’orgoglio di David che ci stava mostrando casa sua, la sua famiglia e il suo stile di vita. Di fronte ad un “povero” che con orgoglio ci offre più di quello che può, noi ci siamo sentiti a disagio. Di fronte al nostro disagio abbiamo reagito nella peggiore delle maniere, dando un valore in denaro a quello che ci veniva offerto e lasciandoli quindi un’offerta en plata. Il valore materiale dell’offerta superava di molto il valore materiale di quello che ci veniva offerto e sicuramente quei soldi faranno comodo a questa famiglia; ma ciò non toglie che li abbiamo offesi, abbiamo offeso la loro dignità, anche se abbiamo spiegato che non lo facevamo per fare l’elemosina, alla fine è quello che abbiamo fatto.

Non siamo stati capaci di ricevere, abbiamo pensato solo a noi, solo al nostro disagio di europei, non abbiamo saputo vedere l’orgoglio che queste persone avevano nel donare a noi e nel mostrarci casa loro. Abbiamo solo saputo pensare che siamo noi quelli che sono qui per salvare, che non siamo qui per ricevere. Così abbiamo offeso la dignità di queste persone e il disappunto e l’imbarazzo sulla faccia di David era tangibile.

E’ incredibile la nostra arroganza e di come salti fuori anche quando cerchiamo di fare del bene (il gesto di lasciare l’offerta non è stata fatta in cattiva fede ma semplicemente senza considerare l’altro).

Impariamo che il donare e il ricevere sono due atti di amore, che entrambi sono gratuiti e che non esiste una contropartita per un gesto del genere.

Vorrei chiudere con un pensiero di Hermana Cherubina: noi non salviamo nessuno, non siamo qui per salvare qualcuno, non hanno bisogno di essere salvati, ma siamo qui per salvare noi stessi.