martedì 10 aprile 2018

Una Pasaka africana

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Insieme alle tante aspettative che hanno accompagnato la mia partenza c’è stata, fin da subito, una grande curiosità: desideravo vedere, osservare e conoscere quale esperienza di fede e di cristianesimo vivono qui, a Mombasa. In modo particolare la mia curiosità era rivolta al Santo Natale e, ancor di più, alla Pasqua. 
Ora che l’ho vissuta (o almeno ho cercato di viverla) a tratti, per via del caldo sofferto (in questi giorni davvero indescrivibile per via della percentuale altissima di umidità), per le tempistiche e per l’incomprensione di tutte quelle parole in Kiswahili, mi verrebbe da dire che sono un po’ folli … che è stata una vera “passione”. 
Eppure il mio sguardo e il mio cuore oltre alla fatica hanno visto e vissuto qualcosa di grande e bello. 

Il “tour de force” è iniziato mercoledì mattina, in Town, in una Cattedrale stracolma per il Chrism day, la Chrism Holy Mass. Quella mattina nessuno è rimasto in ufficio a lavorare … tutti in Cattedrale per la messa con il vescovo e la benedizione del sacro crisma!


Poi la celebrazione del giovedì santo. Forse è il momento che mi ha “preso” più di tutti, con quel silenzio, insolito, intenso, davanti al Corpo di Cristo riposto. A Kongowea - che ormai è a tutti gli effetti la nostra parrocchia - la chiesa non è mai abbastanza grande (la domenica ci sono forse 5 diverse messe, a partire dalle 6,30 del mattino: a qualsiasi ora, è piena). Anche giovedì è stato così; ma qui sanno far posto a tutti, anche a costo di divedere mezza sedia o stare stretti stretti (o in piedi) tutto il tempo e doversi inginocchiare in 3cm per terra. Già, perché qui son sempre tutti pronti a mettersi in ginocchio, anche al contrario sull’inginocchiatoio delle panche, quando serve. La Reposizione dell’Eucaristia è avvenuta nella piccola navata laterale, in un angolo accuratamente addobbato con festoni gialli e bianchi (molto più eleganti degli addobbi tamarri di Natale, per fortuna!). Così in silenzio, rivolti all’altare della reposizione, scomodissimi, al contrario sulle panche, ci siamo messi in adorazione, con il capo chino e il cuore in preghiera. In quell’istante ho sentito la gioia dell’essere tutti figli di Dio, con lo stesso desiderio di Bene e Bello che ha annullato, per qualche minuto, il mio essere musungu in una folla di africani. Ho perso il mio colore in quel silenzio; ho sentito la natura e la forza del cuore, che non conosce razza o cultura; ho assaporato la bellezza dell’essere fratelli, fatti ad immagine e somiglianza. Sono stati davvero preziosi per me, come se d’un tratto, finalmente, fossi stata di nuovo capace di pregare e mettermi davanti a Gesù insieme e come tutti i fratelli e le sorelle intorno a me (e fidatevi è un’esperienza che a volte manca dentro un mix di Kiswahili e inglese che ha ritmi e suoni diversi dal tuo pensare e pregare italiano).


Certo venerdì quasi ho dimenticato tutta questa tenerezza in quei momenti di caldo e fatica che hanno tentato di oscurare la gioia del cammino … ma che giornata! Venerdì Santo, il giorno della “way of the cross”. Appuntamento alle 10 del mattino. Si finisce alle 15 del pomeriggio (quando inizia la celebrazione). Si parte dalla chiesa. Ci si mette in cammino per le strade del quartiere. Posti sconosciuti e nuovi, posti conosciuti e comunque nuovi. Cerco di tenere il passo di qualche amico, giusto per sapere di aver accanto qualcuno che possa segnalarmi la pagina giusta del libretto dei canti o eventualmente tradurmi qualcosa perché io possa capire (capire … che pretesa! Ancora …!!!). Poi succede che … non siamo neanche alla prima stazione (in totale ce ne sono 16, giustamente) e un bimba si mette al mio fianco. Inizia a tenere il mio passo, senza timore di accostarsi. È attenta e seria, canta, partecipa. Porta con se una borsetta di stoffa da cui spunta il tappo di una bottiglia d’acqua. Mi sorprende, continua a star con me … Penso sia perché abbia voglia di leggere le parole dei canti, così allungo il libretto, in modo tale da condividerlo. Lei, con dolcezza, sfoglia le pagine e con un dito mi indica a che punto siamo. Mi sorprende, continua a star con me … Penso sia il caso di chiederle almeno come si chiama e presentarmi. Sara. 


Sara ha camminato con me tutto il giorno. Mi sono chiesta perché mi sia stata mandata. Sara è stata il mio Simone di Cirene e la mia Veronica. Sì, in effetti, mi ha aiutato a portare la mia croce con la sua tenera e premurosa compagnia. “Mi ha asciugato le lacrime”: quando ha pulito la mia gonna sporca per la terra, quando ha soffiavano sulle mie braccia di un rosso sempre più acuto per via del sole, quando ha sistemato il fazzoletto con cui cercavo di riparare il coppino già troppo ustionato, o quando ha retto l’ombrello nel momento in cui ho avuto bisogno di liberare una mano e prendere dell’acqua. Sara mi ha tenuto per mano. Silenziosa e attenta Sara mi ha dato forza, mi ha fatto tenere lo sguardo alto e il cuore aperto, impedendomi di bloccarmi alla fatica, al caldo, al sudore, alla polvere, al tempo, alla follia, alla mia umana spossatezza e debolezza.


Poi è stata la volta della veglia pasquale. Arriviamo alle 21 di sabato sera. Il popolo di Kongowea è radunato nel grande campo della parrocchia. Sta per essere acceso il cero pasquale e tutti stringono in mano una candela. Davanti all’ingresso della chiesa la luce del cero raggiunge tutte le piccole candele: è un tripudio di fiammelle. Poi … la corsa. Incuranti del pericolo di quelle piccole fiamme tutti spingono con forza per cercare di avere un posto. Questa volta la chiesa è davvero stracolma. Decido di sedermi per terra, senza farmi troppi problemi. Evidentemente per loro è un problema … Rifiuto l’invito della sicurezza di sedermi sulla panca, al posto di due ragazzi che son stati fatti alzare (perché mai? con quale ragione dovrei prendere il posto di due ragazzi? Solo perché sono una madame bianca?). Rifiuto un secondo invito a sedermi sull’angolo di una panca togliendo la comodità ad un padre di famiglia che tiene in braccio il suo figliolo. Arriva il signore della sicurezza, di nuovo; questa volta non posso rifiutare: ha portato una sedia solo per me. Così mi siedo, nell’angolino, sulla mia sedia e ascolto. La stanchezza si fa sentire. Gli occhi si chiudono. Le candele si spengono. Fatico a seguire. Mi addormento un po’. Poi ritorno. Le lancette scorrono. Usciamo alle 2:30 passate dopo una danza di gioia e festa al ritmo del coro da stadio: “Happy easter, shalalala. Happy easter, sha…lalallala. Happy easter, shalalala. We Wish u an happy easter! Sha…la..la!”


Pensate sia finita? Eh no! Domenica mattina alle 8 ci aspettano i giovani per la messa. Ci avrebbero chiesto di arrivare alle 7:30 per provare i canti, con il coro. Arriviamo puntuali per l’inizio della messa, che per fortuna inizia con una ventina di minuti in ritardo (ogni tanto ci sguazziamo proprio in questi tempi africani). Bello sedersi e cantare nel coro con i giovani … è un po’ sentirsi a casa, è qualcosa che rende felici! E come ha detto il nostro amico Ooga alla fine della celebrazione: “quando uno è contento sente meno la fatica”.

Così si chiude questo intenso triduo africano. Si torna a casa pronti a celebrare la Pasqua con un tuffo in mare e in piscina, prima di rilassarsi all’ombra delle palme. Si torna a casa con un cuore coccolato, ancora proteso ad afferrare la gioia di questa resurrezione tenendo in mente la domanda che Father Mwashigadi ha lasciato aperta alla fine della sua animata omelia: da quale sepolcro esci? Da quale morte risorgi tu, oggi, con Cristo? Si torna a casa avendo in mente quegli angoli nascosti di Mombasa che abbiamo attraversato a piedi durante la via crucis, perché Gesù risorto viene a dire a tutti, soprattutto a loro che vivono in mezzo alla spazzatura, che lottano ogni giorno per sopravvivere e trovare un pezzo di pane, che sono amati, voluti e desiderati, ovunque! La croce è amore e messaggio di salvezza che ti dice: “tu non sei spazzatura!”


Che ogni giorno sia Pasqua, 
che ogni giorno il suo Amore 
ci aiuti a risorgere e risplendere! 
Pasaka njema a tutti 😊