sabato 25 novembre 2017

Tre storie di (stra)ordinaria follia

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Il diritto alla salute, questo sconosciuto


Milano, giorno di settembre 2017. “Buongiorno, vorrei prenotare una visita oculistica” “Va bene l’8 novembre alle 10.30?” “eh no, guardi, partirò i primi di novembre per andare un anno all’estero, non c’è un’altra data?” “Signora, 8 novembre 2018”. Ah.
E qui sono partiti gli insulti al Servizio sanitario nazionale italiano.

Cochabamba, 17 novembre 2017. Passo davanti all’Hospital Viedma, zona centrale della città. Davanti all’ingresso del pronto soccorso c’è una distesa di persone sedute, in piedi, sdraiate, accasciate, che aspettano. Uomini, donne, anziani e bambini. Qualcuno è steso su un telo super colorato come se ne vedono tanti in giro, altri mangiano qualcosa mentre aspettano, qualcuno piange. Ambulanze? Ne vedo due e pure scalcagnate. Mi si stringe lo stomaco…  io nel frattempo sto facendo il “farma-tour”, ovvero sto andando in differenti farmacie della città a chiedere quanto costano dei farmaci per un signore che ha chiesto aiuto alla Caritas. Ed è incredibile! Ogni farmacia propone prezzi diversissimi per gli stessi identici medicinali: si passa da quasi 800 boliviani (100€) a 400. In ogni caso, troppi. Il signore in questione non ce li ha. Forse si riuscirà ad attivare un aiuto per il mese di dicembre. Ma poi? Suo figlio ha una malattia psichiatrica, se non prende quei farmaci diventa violento. E dopo dicembre che si fa? Non c’è risposta.

Cochabamba, 16 novembre. Viene in Arzobispado (all’Arcivescovado) un giovane uomo, professione fotografo. Si è fratturato l’ulna e il radio, deve essere operato. Costo dell’operazione: 15.000 boliviani (circa 1800€). L’uomo piange. Quei soldi non ce li ha! Adesso che ha il braccio rotto non sta neanche lavorando… forse potrebbe tenerselo così, aspettare che guarisca solo con la fasciatura. Non si può. Il dottore ha detto che bisogna agire tempestivamente altrimenti il suo braccio non tornerà più come prima. Il giovane uomo ha sentito di un centro privato dove lo opererebbero con 2000 boliviani (250€), potrebbe andare lì? Non è sicuro! Esiste gente che lucra su questo sistema sanitario inesistente e si improvvisa medico pur di guadagnare dei soldi. Cercheremo di trovare una soluzione ma lei non vada lì, per favore. Hasta luego, ci rivedremo. Si ma intanto che ne sarà di lui e del suo braccio? Non c’è risposta.

Cochabamba, 14 novembre. Ruperta, dell’Abds (Associazione donatori di sangue boliviani) ci racconta di un signore che ha avuto bisogno di sei sacchette di sangue per operarsi. In cambio i familiari dovevano restituire il doppio delle sacche di sangue richieste (trovatevi dei donatori), e pagare 300-500 boliviani (40-60€) per ogni sacca. Il signore purtroppo è morto in sala operatoria. Niente sacche di sangue allora? Ehnno! Le ha comunque utilizzate, tutte e sei! Quindi? Quindi la famiglia non può seppellirlo se non ripaga il suo debito. Signori e signore, corpo in ostaggio: o 12 sacche di sangue e 2000 boliviani o il vostro caro defunto rimane qua. La famiglia ce l’ha fatta? Sì, l’Abds li ha aiutati a recuperare le sacche e il signore alla fine ha ricevuto la sua degna sepoltura. Caspita, ma almeno i donatori di sangue, qualora dovessero averne bisogno, hanno delle agevolazioni? Magari, che so, non pagano i 300 boliviani per sacca… Agevolazioni?  No di certo! Bravi loro che donano, ma qui c’è il 2X1 al contrario: prendi una sacca e ne devi riportare due, sempre. E la sacca conquistata comunque la devi pagare, sempre. Ah.

Quando torno in Italia richiamo per prenotare la visita oculistica, e quando me la danno, me la danno.


NB: secondo l'Ine (Instituto Nacional de Estadìstica), nel 2015, il 38,55% della popolazione viveva sotto la soglia di povertà, ovvero con meno di 3€ al giorno nelle aeree urbane e meno di 2€ al giorno in quelle rurali.

Il Kahawa West che non so descrivere

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Primissimo giorno di servizio effettivo a Cafasso House.
Sveglia alle sette e mezza, colazione preparata di Giacomo mentre io, con la solita calma frettolosa che solo chi mi conosce bene e ha vissuto qualche tempo con me può capire, cerco di prepararmi in tempo per l’uscita che ci eravamo prefissati. Nemmeno a dirlo, non ce la faccio. E così usciamo con qualche minuto di ritardo da casa, tutti trafelati, in spalla lo zainetto con acqua, cambio completo (non so ancora se i miei vestiti del mercato riusciranno a resistere al lavoro nei campi), scarpe di ricambio perché gli stivali da lavoro a noi sembrano costare troppo al supermercato qui vicino e ci stiamo rifiutando di comprarli fino a nuovo ordine. Il cellulare in un piccolo marsupio nascosto sotto ai vestiti per non dare tropo nell’occhio e le chiavi di casa al collo, ci avviamo di buon passo verso Kamiti, il quartiere carcerario.
Il cancello più vicino a noi dista da casa solo pochi minuti a piedi, ma poi da li dobbiamo camminare ancora una ventina di minuti all’interno della recinzione per raggiungere Cafasso, la comunità educativa per giovani ex detenuti dove lavoreremo quest’anno.
E’ strano il nostro quartiere: Kahawa West. Mi piacerebbe riuscire a descriverlo, ma come ci ha detto anche Maurizio, il nostro responsabile, è davvero difficile spiegarlo a chi non è mai stato in una periferia di città africana. E’ una via di mezzo tra la città ultra moderna e la baraccopoli. Ok. Ma questo dice tutto e non dice niente. Dice che nelle vie è spesso un brulicare di gente...ma solo dopo le nove di mattina. Prima la gente sembra avere altro da fare qui, e i bambini non girano ancora molto nelle vie. Dice del traffico caotico e sregolato, come Milano, come Roma, come Napoli...ma di più. Molto di più. Dice dello smog che si respira e della polvere che si mescola a questo e del fatto che entrambi ti entrano dentro ad ogni respiro tanto da non desiderare altro che natura incontaminata per un pò. Dice delle voci che si mescolano, delle case che si ammassano e dell’edilizia che tende a riepire i pochi terreni rimasti vuoti lungo le vie. Dice delle strade sterrate, ma non di quelle che una volta erano asfaltate e che ora sono un cumulo di macerie sopra alle quali si snoda indifferente il mercato. Non dice dei ragazzi che ti invitano coon insistenza a salire sull’autobus (una pecie di “buttatdentro” all’italiana...di quelli che da noi ci sono fuori dai ristoranti del centro di Milano. Ecco, uguali. Solo che invece che essere vestiti di tutto punto e cercar di convincerti a mangiare una pizza a colazione o degli spaghetti all’amatriciana e una cotoletta alla milanese a merenda sono vestiti come noi e cercano di convincerti a prendere autobus per raggiungere ogni angolo della città). Non dice nemmeno che il servizio di bus e taxi è privato, non pubblico, ma che è estremamente efficiente. A qualsiasi ora tu voglia prendere un bus è sufficiente che tu ti faccia trovare alla fermata giusta: un matatu ci sarà sicuramente. Orari? Non servono: si parte non appena i posti sono stati riempiti,e poi via a ruota il successivo, già fermo in coda alla stazione di partenza. Non dice di un’app che permette di chiamare taxi in tutta la città di Nairobi a qualsiasi ora del giorno, scegliendo anche la dimensione dell’auto, ed eventualmente valutando e selezionando come preferiti i tuoi conducenti di fiducia. Esiste persino un tasto per la sicurezza da premere in caso di pericolo.
Non dice nulla nemmeno di quella parte del quartiere nascosta dietro al mercato, fatta di vie strettissime e di baracchini che ne costellano i lati: parrucchieri e negozi di vestiti a non finire. A non finire mai. Non dice nulla nemmeno della quantità di persone addette alla sicurezza che piantonano armati ogni ingresso di ogni attività commerciale grande più di due metri per tre: che tu vada al supermercato, alla banca, in un bar, in un qualsiasi posto in cui girino dei soldi, lì ci saranno delle guardie pronte a perquisirti e a garantire la tua sicurezza. Protezione e ansia allo stesso tempo.
Non dice nulla nemmeno della sporcizia che si trova lungo le vie, di tutta quella maledetta plastica che inquina e non si decompone e resta nell’ambiente per anni e anni rovinando paesaggi che altrimenti sarebbero bellissimi.
Non dice nulla soprattutto di quella sensazione di pace e di tranquillità che si prova non appena si varca il cancello del quartiere carcerario di Kamiti. Quella pace che stride così tanto con il significato del suolo che si sta calpestando, ma che inspiegabilemente ha sapore di libertà.
Libertà dal caos cittadino, dalla frenesia di ogni giorno, da quella fretta di fare tutto e subito prima che il tempo scappi.
Ecco, mettere piede a Kamiti significa immediatamente rallentare, respirare a pieni polmoni, sospirare.
Una guardia all’ingresso saluta svogliata ma incuriosita, il traffico sparisce, i rumori della città si fanno lontani, le case si diradano e davanti a te compare un paesaggio naturale insolitamente bucolico, di quelli che propro non ti aspetteresti li. Campi coltivati, piccole colline di terreno attraversate da sentieri in terra battuta che si snodano fitti tra le carceri e le case dei lavoratori, accogliendo guardie, detenuti in divisa che lavorano sotto sorveglianza, bambini che giocano a costruire argini robusti alle pozzanghere di fango, galline che dopo aver trovato qualcosa da mangiare tra i cumuli di spazzatura poi ritroveranno la strada di casa...e noi. Due giovani ragazzi bianchi che inspiegabilmente si trovano li.


Alice V

domenica 19 novembre 2017

Kenya: Suor Rachel, Kibe e la banconota stropicciata

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Mentre Kibe parla, il gruppo non fa che seguire il suo inglese fluente ma ottimamente scandito. Sono rari i cali di attenzione, nonostante la freschezza dell’aria e del paesaggio sullo sfondo quasi magnetizzino l’ambiente: il mais, germogliato da qualche settimana, si affaccia al mondo in ordinate file parallele equidistanti; un albero dal tronco molto storto ci protegge dal sole, facendosi carico di uccelli rumorosi; in mezzo al cerchio è pieno di legnetti, fili d’erba ormai secca, filamenti di spago, che di tanto in tanto qualcuno prende in mano per giocarci; dal campo da calcio provengono le grida eccitate di bambini che si rincorrono per qualche loro gioco.

Nonostante questa bellezza, dicevo, Kibe riesce a mantenere su di sé un’attenzione quasi ipnotica. Forse il luogo dell’incontro non è stato nemmeno scelto a caso, la sua figura di anziano prorompe quasi poeticamente sotto l’ombra dell’albero. Ma trasaliamo tutti quando dalla tasca, con la mano, estrae una banconota ben stirata da 200 scellini. Non sembra avere senso, ecco. Tutto il bello che sino a questo momento si è creato cozza incredibilmente con l’immagine di lui che esibisce sorridente quella banconota.

Suor Rachel parlava davanti alla comunità della parrocchia, riunita nella chiesa che vedete alle vostre spalle. Come me, quel giorno, prese in mano una banconota come questa. Avevano tutti la stessa faccia che avete adesso voi guardandomi. Rivolgendosi a loro disse: «Qualcuno di voi vorrebbe questa banconota?» e allora tutto il pubblico esplose in un mormorio di approvazione. «Bene», disse, e detto questo mostrò di nuovo la banconota alla platea, e stringendola forte nel pugno iniziò a sfregarsi freneticamente le dita, stropicciandola in modo deciso, riducendola a quella che poteva sembrare una pallina di carta.”

Kibe racconta l’aneddoto in modo così vivo da confonderci, da farci immaginare di essere seduti anche noi lì su quelle panche in quella chiesa, a mormorare insieme a tutti in risposta alle provocazioni di Suor Rachel. La sua risata squillante a tratti ci fa trasalire. Accompagna i gesti alle parole: in mano ora stringe la stessa banconota di prima, ridotta ad essere un piccolo pezzo di carta straccia.

Al che continuò: «Qualcuno di voi vorrebbe questa banconota?». A questa domanda, tutti continuarono in coro a ribadire che sì, tutti avrebbero comunque voluto quella banconota. «Bene», disse ancora, e detto questo mostrò di nuovo la banconota al pubblico, e questa volta la gettò a terra. Con la scarpa, poi, iniziò a calpestarla più e più volte, con i presenti divisi tra risate sommesse e brontolii di disapprovazione. Poi si chinò, raccolse quello che rimaneva della banconota e lo mostrò al pubblico: ormai stropicciata, sporca e con piccoli tagli, pareva essere un pezzo qualsiasi di carta straccia. Poi ripeté con la stessa voce calma di prima: «Qualcuno di voi vorrebbe ancora questa banconota?».”

Iniziamo tutti a guardarci intorno, a cercare di spiare le reazioni degli altri. Sappiamo tutti dove sta andando a parare. Ci stiamo commuovendo tutti. Distolgo lo sguardo dal volto di Kibe, e inizio a fissare le foglie della pianta di mais mentre vibrano sferzate da un vento leggero ma tenace. Ma continuo ad ascoltare, non mi perdo una parola. Kibe sembra accorgersene, il suo sorriso si allarga, e continua il racconto con più forza di prima.

Il brusio si fece sempre più forte, ma alla domanda di Suor Rachel la risposta fu ad ogni modo affermativa: chiunque in quella stanza avrebbe comunque voluto quella banconota. «Se persino un pezzo di carta come questo mantiene il suo valore in condizioni come queste», incalzò lei, «come possiamo non considerare il valore di questi ragazzi? Non importa quale sia stata la storia di una persona, quali siano le crisi che ha affrontato, quante volte sia caduta, quanti problemi abbia alle spalle: ognuno di questi ragazzi ha un valore inestimabile che non possiamo non considerare.»”

Torno a guardare Kibe. L’incontro finirà molti minuti dopo.

Partirò da me stesso, forse perché è più facile o forse perché effettivamente mi sembra il modo più utile per iniziare una riflessione in tal senso. Qual è il mio valore? Sono cresciuto in mezzo a persone che per mia fortuna hanno sempre cercato di spronarmi e, appunto, valorizzarmi. Mai come oggi, mai come stasera, riesco ad essere grato a tutte queste persone. Mi vengono in mente mille esempi, mille aneddoti, mille volti, e soprattutto mille motivi per non citarne neanche uno in questo scritto. Ma sappiate che vi sono davvero riconoscente.

Pensando ai ragazzi, invece, mi viene il magone. Non compassione, pietà, pena: proprio il magone, quello che ti stringe la gola con un nodo stretto. Il primo obiettivo, il primo sforzo, vorrei fosse verso qualcosa che riesca a far sì che i ragazzi si percepiscano come portatori di valore. Che riescano loro, per primi, a realizzare di non essere carta straccia. Siamo somma di esperienze, che aggiungono valore a quello che siamo; che possono ferirci, ma che non possono mai annullarci. Il primo passo verso il reinserimento nella società civile, nella battaglia contro la stigmatizzazione, nella lotta contro l’occhio torvo del pregiudizio, è quello che bisogna fare verso sé stessi.

Credo con forza nelle potenzialità del progetto in cui svolgo il mio servizio. Una grande lezione che mi voglio portare a casa l’ho imparata già oggi, a soli 4 giorni dalla partenza: vorrei saper guardare ogni persona negli occhi e riscoprirla nel suo valore inestimabile.

a presto,

Giacomo Centonze

giovedì 16 novembre 2017

Kenya: riscoprirsi fragili e felici

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Foto scattata dopo il primo incontro conoscitivo coi ragazzi della Cafasso House.

Diciamo che ancora non ho capito se son già arrivato o se ancora sto arrivando. Non credo il mio cervello sia in grado di elaborare efficacemente tutte queste informazioni, avrò bisogno di tempo per organizzare mentalmente tutti questi stimoli. Diciamo anche che mi sento indiscutibilmente felice. Ma penso che la felicità sia un po’ come la rabbia: raramente capisci subito cosa la stia provocando. Quindi prendo tempo anche per questo, godendomi la sensazione ed aspettando periodi più quieti per tirare qualche somma. Il progetto e gli impegni mi tengono completamente impegnato, corpo e mente, dalla sveglia sino a quando arrivo a sdraiarmi stanco sul letto. E stanco davvero: non dormivo così da anni. 

Ma prima di chiudere gli occhi, il pensiero va sempre inevitabilmente a Legnano. Non so se in futuro questa cosa cambierà, non so nemmeno se voglio che cambi, per ora è un dato di fatto e in quanto tale occorre conviverci assieme. Oggi abbiamo visitato per la prima volta la casa dove io e Alice vivremo per un anno. Kahawa West mi piace, è decisamente più tranquilla di Nairobi, e siamo alloggiati a circa 25 minuti a piedi dal posto in cui lavoreremo. Sul muro della sala da pranzo campeggiava una frase, che poi ho scoperto essere di John Steinbeck: “Le persone non fanno viaggi, sono i viaggi che fanno le persone”. Sì, lì per lì mi ha colpito molto, anche tornando a Nairobi ho continuato a pensarci. Ma qui sul letto, mentre rifletto e scrivo, mi accorgo che sono proprio le persone a fare le persone. 

Quello che mi manca, mancherà, o smetterà di mancare di Legnano sono veramente tante persone. E più ci penso e più mi spavento. Il Giacomo che è partito 2 giorni fa non tornerà mai indietro così come è partito, questo lo sappiamo tutti e la ritengo una cosa soltanto positiva. Realizzo soltanto da così lontano il mio essere somma di esperienze. E quando mi accorgo di essere lontano da tutte quelle persone che mi hanno reso, nel bene o nel male, quello che sono, accuso momenti di fragilità. Una fragilità che però stimola, rendendomi proattivo e ricettivo. Una fragilità di cui non ci si può vergognare. Una fragilità che riesce a renderti felice. L’ho detto: non dormivo così da anni. Ma nemmeno mi ci svegliavo.

a presto,

Giacomo Centonze