mercoledì 27 settembre 2017

Nicaragua: ESSERE PIENI

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"Ehi ciao! Come è andata in Nicaragua?"
"Sono piena!"

Sono piena di me.
Sembra tanto l'esordio del diario di un egocentrico, e magari lo è. Ma in realtà in Nicaragua mi sono riempita anche di me. Della solita me buffa e impacciata che il più delle volte sembra un cartone animato. Ma anche di una me più decisa, più disposta a raccontarsi, più ferma sulle proprie convinzioni ma anche disposta ad ascoltare. Ho trovato me, ma ho anche scoperto una me che non conoscevo. Il Nicaragua mi ha ricordato che non sono ancora arrivata, che è tutto in fase di costruzione, anche la mia persona.

Sono piena di te.
Si proprio te, te che stai leggendo, te che hai seguito il mio viaggio e che mi hai anche raccontato cosa ne pensavi. Te che eri a casa, al lavoro o sui libri, o forse in viaggio, ma che un po' eri anche con me. Te che dalla tua casa hai camminato con me e hai scoperto questo nuovo mondo insieme a me. Te che sei stato il ricordo delle mie origini, il mio punto fermo, che mi ricorda sempre da dove vengo e chi sono.

Sono piena di lei e di lui.
Sono piena di quel ragazzo che mi chiama "chele", bianca, e mi fa sentire così strana e forse quasi sporca.
Sono piena di quel nonnetto incontrato per le strade di Nueva Vida che in due minuti mi ha raccontato la sua vita piena di fatiche e di dolore.
Sono piena di quella bambina giovane con una pancia grande che arriva troppo presto.

Sono piena di noi.
Sono piena di Anna, Filo, Ale, Mati e Ire.
I miei compagni di viaggio che hanno camminato al mio fianco e spesso anche davanti a me. Ma con cui ho vissuto e ho incontrato. Sono l'anima della festa, ma sopratutto il cuore pulsante del mio Nicaragua. Perché con loro scoprire e scoprirsi è stata tutta un'altra storia.

Sono piena di voi.
Sono piena dei bambini del Centro Escolar. Di quelle guanciotte piene sporche di terra e di quegli occhi quasi neri che viaggiano veloci posandosi su tutto ciò che li circonda. Di quella voglia matta di giocare, a pallone, a basket, a baseball, non importa a cosa, l'importante è giocare. Di quel ballare con i fianchi così sciolti da sembrare senza ossa. Di quei sorrisi pieni, ma anche di quei sorrisi stanchi e con qualche lacrima di troppo. Di quegli abbracci stretti stretti intorno alla mia pancia.

Sono piena di loro.
Di Felix, che ci ha guidati e accompagnati, facendoci sentire a casa, ma sopratutto una famiglia.
Di Oscar, che tra un passo di ballo e un dribbling a pallone, ci ha mostrato quanto è bello insegnare e sopratutto amare ciascun bambino per quello che è.
Di Stefi, che non ci ha mai fatto sentire soli, e ci ha accompagnati nella scoperta di Nueva Vida.
Di tutti i professori del Centro Escolar che sono una grande famiglia che sa volersi bene.
Di tutte le persone che lavorano a Redes che hanno dato colore e gioia alle nostre giornate.

Il Nicaragua mi ha riempito.
Di emozioni forti, di sentimenti contrastanti, di volti nuovi, di sguardi intensi, di rumori mai sentiti, di sapori a volte troppo piccanti per me. Ma sopratutto mi ha riempito di persone. Di persone che ormai sono parte di me, che anche se hanno fatto con me un piccolo tratto di strada, di sole tre settimane, è come se camminassero con me da una vita intera.

Ed ora io mi sento piena da scoppiare.
Ma non un pieno da post pranzo di Natale che l'unica cosa al mondo che vuoi fare è quella di morire sul divano finché non sarà ora di dormire. Ma un pieno straboccante che non può più contenersi che deve raccontare, che deve dire, che deve far sapere, che deve urlare più forte che può quello che ha visto e sentito.

Sono un pieno che non può più tacere.

Grazie Nica!
Giù


venerdì 22 settembre 2017

Grata

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"Nessun posto è casa mia, l'ho capito andando via..."

Così comincia la canzone di Chiara Galiazzo che sto ascoltando. Mi soffermo un' attimo su queste parole. Sì, posso dire che è stato così anche per me.
L'andare via è stato per me un'occasione di riconquista di quello che avevo lasciato, la mia vita in Italia.
è come con un quadro: non riesci a vederlo con chiarezza ed apprezzarlo in tutte le sue particolarità e nella sua complessità se lo guardi da troppo vicino, è necessario allontanarsi un po'.
Andare via per un' anno, immergermi in una realtà così diversa, mi ha permesso di riprendere coscienza della mia di realtà, riscoprendone tutta la ricchezza.

Mi ritrovo quindi grata della mia vita in Italia, della mia famiglia, dei miei amici, del mio cammino di fede, con tutte le fatiche annesse e connesse.

Così come sono grata dell'esperienza di quest'anno, delle persone incontrate e della pienezza vissuta.

Sorprendentemente mi scopro vogliosa e curiosa di ricominciare la mia avventura quotidiana.
Non ho paura di perdere tutto quello che ho guadagnato qui una volta tornata, perché un'esperienza così ti plasma e conforma, cambiandoti irreversibilmente. Così nella mia vita di tutti i giorni, nelle cose da fare e nei rapporti che mi saranno dati, proponendo me stessa sono certa che porterò anche questa esperienza, diventata ormai parte di me.

A confortarmi inoltre c'è la certezza che tornerò qui in Moldova, perché il legame con questo paese resterà vivo nei rapporti costruiti.
Così posso concludere come la nostra Chiara:

"Perché si torna sempre dove si è stati bene e i luoghi sono semplicemente persone."



martedì 19 settembre 2017

L’attesa di Irma: “L’uragano come un aquilone”

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Erano almeno dieci giorni che l’aspettavamo e alla fine è arrivata. Puntuale, molesta, indiscreta.
Soprattutto puntuale: una qualità piuttosto rara da queste parti. Qualcuno l’ha ribattezzata “il Mostro” ma ad Irma - una pancia grossa quanto mezza Italia - non è sembrato importare un granché. Del resto, una il cui nome significa “potente” non deve crucciarsi troppo degli appellativi.
Un giovane haitiano ne ha fatto l’effige sul muro della parrocchia. Un mare nero impastato di vernice sotto un cielo cinerino sbavato di rosso. Forse perché l’arte sbeffeggia le paure e a metterle su un muro pare metterle in prigione. Dopotutto ognuno, all’arrivo di un uragano, si prepara come può.
Qui a Mare Rouge, stamattina, ci sono quasi tutti: le peyizan coi loro fazzoletti di cotone, misye Fabien col suo cappello di paglia Josline, col suo sorriso perlato di sempre e col suo unico vestito color tabasco. Persino Anne, la signora che macina mais lungo la strada, ha deciso di continuare ad imbrattarsi con le sue nuvole di farina. Pure oggi. Oggi che viene Irma.
Janel e Peter, 7 e 8 anni, setacciano il paese alla ricerca di un sacchetto di plastica. Perché qui non ce l’hanno mica. E poco importa che stia arrivando Irma: loro vogliono farmi un aquilone. Qui, dove nessuno ti regala nulla e ti fa pagare di più per il colore dei tuoi soldi. Qui, dove flotte di bianchi hanno insegnato alla gente il ritornello del chiedere-ricevere quasi fosse una filastrocca. “Davvero è un regalo?” chiedo sorpresa brandendo l’aquilone. “Sì, è un regalo.” “Per me?” “Per te. Devi portarlo in Italia, così ti ricordi di noi…”
Gli Stati Uniti riceveranno Irma in pieno, si dice, Haiti verrà interessata solo di striscio. Il paese più ricco e quello più povero dell’emisfero, uno stato presente ed uno assente. Uno in cui si svuotano supermercati uno in cui la gente mangia a malapena, figuriamoci se può fare scorte per un uragano. Perché qui i contadini vengono avvertiti col megafono ed è il parroco a dire alle persone di starsene al sicuro. Se sicuro si può dire. Persino noi attendiamo Irma con un buco nel tetto.
Qui, dicono, la gente è abituata ad aspettare le tempeste. I venti tropicali non si sa mai dove vanno, spiegano tutti, possono colpirti ma pure andarsene altrove. Pa konnen, dicono, non si sa. Del resto,  proverbio haitiano vuole, “è solo il coltello a conoscere il cuore della patata”. Come dire che sono i tempi difficili a rivelare di che pasta sono fatte le persone. E qui tutti aspettano: placidi, stoici, impassibili. Si vede come sei dalla qualità della tua attesa.
Oggi è l’8 settembre e Irma si è spostata un po’ più su. Più su del previsto.
“Dio ci ha protetto” mi dicono tutti nonostante la paura. Qualche mese fa un ciclone meno forte aveva spazzato via tetti e piantagioni, ma stavolta Irma-la-potente li ha risparmiati. “Siamo tutti vivi. L’orto puoi ricostruirlo - mi dice il Responsabile della Caritas di Mare Rouge - ma la gente no.” Diversi ringraziano la Madonna, che ha protetto Haiti nel giorno della Sua festa. “L’uragano è come un aquilone - commenta con me il direttore di una scuola - È Dio che decide dove va, è Lui che tiene il filo”.
Janel è lì a due passi, che gongola sull’ingresso della sua casetta di marzapane. Non ho il coraggio di dirgli che il suo regalo si è rotto. Colpa mia, che non so guidare gli aquiloni nemmeno da fermi, e per mettere il mio al riparo l’ho solo danneggiato.  
 “Tieni - mi dice Janel allungando all’improvviso un braccio da dietro la schiena - Ti ho fatto un altro aquilone…”
Getto un’occhiata sorpresa ai campi attorno, pieni di fango e spazzatura: Irma-la-potente ha riempito le strade di sacchetti di plastica. Sorrido. Anche lei, infondo, ci ha lasciato qualcosa.


Muri con radici profonde

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La Red Jesuita con migrantes è una rete di organizzazioni gesuite disseminate in tutto il centro america che ha come obbiettivo quello di appoggiare e accompagnare le persone migranti in questa area attraverso tre tipi di azione: l’assistenza diretta alla persona migrante, un lavoro di ricerca ed investigazione sul fenomeno migratorio e l’appoggio a reti e organizzazioni di migranti che rivendichino i propri diritti.
Nell'ambito dei cantieri della solidarietà 2017 abbiamo avuto occasione di incontrare Lea Montes, la direttrice di tale organizzazione a Managua.

Qui un breve resoconto della sua esposizione sulla situazione delle migrazioni in Centro America e alcune considerazioni.

Si possono individuare tre fasi della migrazione in Centro America: negli anni ‘70 la migrazione è soprattutto dalla campagna alla città, negli anni ‘80 si verifica una ondata di migrazioni forzate dovute ai diversi conflitti nella regione, infine negli anni ’90 in concomitanza con l’inizio della globalizzazione si assiste ad una trasformazione e ad un aumento del fenomeno migratorio, cambiano le cause dello spostamento e cambia la composizione dei soggetti in particolare per quanto riguarda quella che viene definita una crescente feminizzazione delle migrazioni.

Risultati immagini per frontiera messico stati uniti
Con l’aumento delle migrazioni a partire dagli anni novanta, cresce in concomitanza l’effetto delle rimesse sul PIL nazionale dei diversi Paesi centroamericani. Ad esempio in Nicaragua le rimesse passano da rappresentare il 2% del PIL a rappresentarne il 9,6%.
Molte sono le famiglie che sopravvivono in Nicaragua grazie alle rimesse mandate dai parenti migrati in Costa Rica o negli Stati Uniti. E la possibilità di supportare un intero nucleo famigliare, spesso è la ragione che spinge donne e uomini a intraprendere lo spaventoso viaggio verso Nord o verso Sud, le infinite difficoltà e i rischi che la migrazione comporta.

Secondo alcuni dati riportati dalla dottoressa Montes sarebbero fra le 200 e 400 mila persone, quelle che ogni anno passano il confine messicano.
Il viaggio attraverso il Centro America è estremamente pericoloso e il 45,7% di coloro che attraversano il Messico diventano vittime del crimine organizzato. Considerando l’esponenziale aumento di minori non accompagnati e donne su questa rotta, alti sono i tassi di violenze e abusi ai danni di questi ultimi (64% delle donne migranti afferma di aver ricevuto abusi).
Si calcola che siano approssimativamente 2464 i migranti scomparsi nella rotta fra Messico e Stati Uniti. Negli anni si sono formati gruppi di madri che, come le madri di plaza de Mayo argentine, lottano per ottenere giustizia e ritrovare le proprie figlie e i propri desaparecidos. 

Nel film “Desierto” uscito nel 2015, viene rappresentato tutto l’orrore del passaggio della frontiera in una forma poco realistica, eppure in parte efficace nel permette allo spettatore di vivere in un ora e poco più di film un'ansia che può ricordare quella che vivono le migranti e i migranti durante tutto il percorso di attraversamento dell'america centrale. Nella pellicola un razzista nordamericano e il suo cane passano il tempo a dare la caccia ai migranti nel deserto on lo scopo di ucciderli; viene messa in scena una caccia all'uomo che ricorda la caccia agli schiavi fuggiaschi dalle piantagioni, battute che spesso e volentieri finivano con i fuggitivi raggiunti e poi sbranati dai cani addestrati, fine che faranno anche diversi dei protagonisti del film.

Risultati immagini per frontiera messico stati unitiStando all'analogia si potrebbe aggiungere che per lo meno gli schiavi, quando riuscivano a fuggire e raggiungere le montagne, erano liberi, i migranti di oggi quando anche riescano a passare il confine si ritrovano schiavizzati dal ricatto costante dei documenti, che nella maggior parte dei casi non otterranno mai e che li costringerà all'invisibilità e allo sfruttamento, spesso quasi schiavistico.

Significativo è anche il dato sul numero di espulsioni, che fra il 2014 e il 2016 ha visto un incremento soprattutto nei casi effettuati via terra, cioè direttamente alla frontiera, su quelle via aereo, evidenziando l’inasprimento dei controlli frontalieri.

La frontiera degli Stati Uniti è ormai in Messico” constata la relatrice, “grazie ad un processo di militarizzazione e securitarizzazione della frontiera che è ben precedente all'era Trump, che ha le sue radici nel rafforzamento militare delle frontiere nel 1994, anno in cui viene firmata la NAFTA (North American Free Trade Agreement) e in cui di contro si assiste al levantamiento zapatista".
Dal '94 in avanti diverse sono state le riforme e i provvedimenti di rafforzamento dei confini, in particolare a seguito dell'attentato del 2001, che ha portato nel 2002 una nuova politica per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti eccezionalmente restrittiva rispetto alla mobilità. E poi ancora riforme nel 2005 con un incremento della polizia di frontiera, nel 2008 con il trattato internazionale di sicurezza siglato da U.S.A. e Messico e ancora nel 2014 con un'ulteriore inasprimento dei controlli alla frontiera. Conclude Lea Montes: “il muro di Trump esiste già”.

Esattamente come in Europa il processo di apertura delle frontiere alle merci, viene immediatamente contrappesata da una chiusura e un controllo sul passaggio delle persone considerate un “rischio” per la sicurezza dei paesi coinvolti nei trattati di libero commercio e la conseguente militarizzazione dei territori.

Quello che la nostra interlocutrice ci fa capire è che il muro di Trump, non è la volontà di un folle che verrà costruito da un giorno con l’altro fuori da qualsiasi legge, ma un processo ben radicato nel tempo che pietra dopo pietra miete costantemente vittime in nome della libertà di pochi e dello sfruttamento di molti. Di tale processo  Trump non è altro che l’ultimo e più convinto portavoce.


giovedì 14 settembre 2017

L’incontro con l’altro, ovvero, Un tramonto inaspettato.

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Che cosa può cercare un ragazzo di trentanni da un' esperienza come il Cantiere? Una prova di fede? Una vacanza alternativa? 
E cosa è un incontro? E cosa c’entra con l’altro?

Per rispondermi e per rispondervi devo fare un passo indietro.
Io non so che cosa vi affascini quando incontrate questi bipedi dai capelli lunghi o corti che popolano la nostra terra..che cosa vi attiri, se uno sguardo, un volto o un modo di fare... io rimango affascinato dalle storie, soprattutto quando raccontate con trasporto, e da quello che raccontano gli occhi, piccoli segreti che lasciano un segno tale da sentire di doverli custodire. Talvolta mi capita di prendere qualcuno e la sua vita come esempio per una riflessione sulla mia, e se necessario, seguirne il modello.

La mia storia con il cantiere inizia anch’essa con un incontro e con una storia, quella di Stefie, ex-cantierista. L' incontrai circa due anni fa e, dopo aver attirato le mie attenzioni con le sue strabilianti doti canore, mi racconto' di sè e della sua esperienza finita da poco ad Haiti. Ascoltai il suo racconto con attenzione e dopo esser tornato a casa colpito iniziai a pensare di voler essere partecipe anche io di una simile avventura. 

Con questa premessa e avendo deciso il Libano come paese di destinazione, mi aspettavo di ritrovarmi immischiato in racconti di persone che avevano visto scene di guerra e sofferenza, di violenza, rabbia. Ascoltare, e farmi poi testimone una volta tornato.
Devo ammettere a voi e a me stesso, che al contrario delle mie aspettative l’incontro con l’altro si è vestito spesso di abiti umili e ordinari prendendo la forma di persone e vite semplici.
Certo, talvolta è stato insperato e stupefacente (riuscite ad immaginare sentir cantare Luigi Tenco da un chitarrista armeno?) ma il più delle volte le tanto attese parole hanno fatto spazio a timidi sorrisi, e sguardi abbassati. L' incontro è stato anche faticoso e incomprensibile, perchè oltre alla barriera, o, per riprendere il tema del cantiere, oltre al muro della lingua si è aggiunto spesso anche quella della incomprensione dei reciproci comportamenti. “Perchè queste donne negli shelter mi evitano se sono qui per  stare con loro?”, mi interrogavo. “E perchè lui si ostina orgoglioso ad avvicinarsi a noi”, si saranno domandate loro. Allora mi sono chiesto: quando incontri una persona con cui non è possibile o non è immediato stabilire un rapporto, ha ancora valore l’incontro? E badate bene che può valere sia per una donna chiusa nelle quattro mura di un centro che non ti guarda negli occhi e, a fatica, poggia il piede di fianco al tuo, che per una coordinatrice o un compagno cantierista.
A questo punto ho iniziato a capire che il cantiere mi dava la possibilità di  rinnovare un metodo partendo da uomo maturo, esattamente come il protagonista del film Benjamin Button. Come se dovessi reimparare a parlare con un nuovo alfabeto, vincere le timidezze e abbandonare la sicurezza delle convenzioni imparate fino ad allora. Ridiscutere le modalità di rapporto con le persone (sopratutto donne e bambini) che incontravo.

In conclusione, dunque, se state cercando un motivo per spendere le vostre vacanze lavorative in una esperienza simile, immischiatevi! Inizierete a chiedervi il perchè dei comportamenti delle persone incontrate, ed intuirete che il non capire era dovuta anche ad una vostra mancanza di sensibilità. Scoprirete il valore del rapporto e della sequela, piccoli passi quotidiani da fare giorno per giorno per avvicinarsi all' altro e farsi accettare. Imparerete la base di uno sviluppo umano fondato semplicemente sulla presenza. Sembra ovvio, come il fatto che il sole debba tramontare ogni giorno, ma non lo è. Se  darete per scontato l'incontro, il rapporto con l'altro non verrà nè coltivato nè approfondito. Se invece tornerete a stupirvi ogni giorno di un sole che cade, perchè ci è dato, riconoscerete la novità che è l' Altro.
Cari coetanei "vecchietti", in bocca al lupo.
Gianluca

martedì 12 settembre 2017

Incontrare l'altro

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Che vuol dire incontrare l’altro? 
Tutti noi ogni giorno incontriamo moltissime persone, o almeno questo é il modo in cui ci esprimiamo. In quest’anno ho capito che la maggior parte delle volte noi non incontriamo le persone, l’altro, noi semplicemente ci presentiamo all’altro (e l’altro si presenta a noi) di sfuggita, mostrando solo la nostra facciata; solo quella parte esteriore , ciò che vogliamo far vedere. Come quando si vede una chiesa, ci fermiamo a vedere la facciada senza entrare. Ci accontentiamo dell'esteriore.

Incontrare l’altro é entrare, condividere, é partecipare alla vita dell'altro ma molto spesso non riusciamo o non vogliamo farlo.

Quest’anno per me é stato un anno molto particolare, in un primo tempo, ho avuto abbastanza difficoltá nell’incontro con l’altro, nel voler comprendere l’altro, nel partecipare alla vita dell’altro. Questa, passatemi il termine, sofferenza ha fatto sí che io mi chiudessi, non volessi piú aprirmi all’altro, incontrarlo, per paura, per la delusione subita. Avevo il desiderio, e la necessità di rimanere con me stessa, per non soffrire piú; volevo evitare di esser parte di altre storie che alla fine mi avrebbero lasciato solo tanti vuoti e insicurezze.

Cosí quando mi é stato comunicato che avrei dovuto fare da referente a 8 ragazzi italiani che venivano in Bolivia per tre settimane io non avevo alcuna intenzione di accettare questo incarico. Il timore di poter soffrire ancora mi frenava ma una forza di responsabilità e di fiducia datami dai miei superiori mi ha permesso di accettare.
Al primo incontro con questi 8 ragazzi sono andata senza nemmeno sapere quali fossero le loro facce, conoscevo appena i nomi ma i nomi non ti dicono come sono le persone. Non avevo neppure un umore predisposto all'incontro; si potrebbe dire che ero nel mio mondo, senza il desiderio di conoscerli, di entrare nella loro vita. Questo mio atteggiamnto interiore ovviamente si rifletteva anche nel mio modo di comportarmi infatti durante l'incontro ero distaccata, fredda, avevo messo un muro di protezione tra me e loro, una "barriera protettiva". Il mio obiettivo non era conoscere queste persone, ma semplicemente compiere gli obiettivi del progetto Cantieri e fare in modo che potessero trascorrere tre settimane in Bolivia felicemente proprio come mi era stato chiedo da i miei superiori.

Non volevo conoscerli, non volevo aprirmi con loro ma non ci sono riuscita. Dopo alcuni giorni non potevo continuare a rimanere una statua inerme che non provava nulla per questi ragazzi. Non è il mio carattere, potevo continuare a forzarlo ma per quanto?! Altri due tre giorni e poi questa situazione non mi era naturale, sarebbe stata una forzatura per me è sarei risultata tutt'altro che una piacevole compagnia.
Mi sono rivista in loro, quando son venuta in Bolivia per la prima volta, tutti i miei dubbi, l'incapacita di adattarsi e le mille curiositá cosí con il tempo si è instaurato un bel dialogo tra noi, loro si sono aperti e io di conseguenza. Mi sono "entrati dentro", li ho sentiti come una mia responsabilita, come delle creature da proteggere ed é lí che é iniziato l’incontro. In tre settimane ho riscoperto la bellezza dell’incontro con l’altro. Un incontro di sguardi, un incontro di parole, di silenzi, o semplicemente di gesti che si impara a riconoscere, a capire, per il quale non serve nient’altro. Ho conosciuto delle persone vere, che si sono aperte e che mi hanno permesso di trascorrere delle settimane belle ed intense, tra le migliori del mio anno in Bolivia. 

Incontro con l'altro

Infine, quello che ho capito dell’incontro con l’altro é che non basta la buona volontá di mettersi nei panni dell'altro, non basta l'ascoltarlo, la comprensione, l'aiuto se necessario, ma serve anche la volontá del cuore, serve la predisposizione dell’altro a lasciarti far entrare nella dua vita, nei suoi problemi, nella sua intimità. Serve la reciproca predisposizione alla vera conoscenza senza giudizi o pregiudizi. Serve esser disposti a condividere una parte di voi stessi, gli sguardi, i gesti, le storia, i pomeriggi o intere settimane. Serve togliere tutte le maschere per esser autentici, per esser se stessi. Se da entrambe le parti c'è tale volontá all'incontro, beh che dire.. é una delle piú belle esperienze che si possano vivere!! E che auguro a tutti di poter vivere!

lunedì 11 settembre 2017

Vedere attraverso altri occhi

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In ogni viaggio una parte di noi si mette in gioco svelando un lato  del nostro carattere che non sapevamo di avere, riscoprendo noi stessi attraverso occhi sempre diversi; e quale migliore specchio se non quello dei bambini. Tutti diversi, alcuni cresciuti forse un po' troppo in fretta ma con la stessa voglia di giocare e di essere semplicemente felici, almeno per un po'.
In mezzo a loro ho notato una forza più grande sia per età sia per potenza della voce nelle esclamazioni di gioia. Un ragazzo a cui piaceva  vincere ma capace di perdere, che voleva semplicemente correre o meglio, avere le ali per riuscire a volare. Era il più grande dell'orfanotrofio, si prendeva la responsabilità su tutti i bambini ma nel suo sorriso si celava il desiderio di un abbraccio.
Quando negli articoli di giornale si legge che la Moldova scomparirà perché tutti se ne saranno andati ti viene spontaneo guardare i suoi grandi occhi marroni e pensare a quale sarà il suo destino, il suo futuro sperando almeno di potergli dare una risposta; ma lui lo sa che sei solo una comparsa nella sua vita.
Il suo nome è Edoardo.


Moldova: Corso serale di rumeno con Valeriu

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                                                                                                05/08 h.21:30, scuola russa di Hincesti

“Bună seara, sunt Valeriu: profesorul tău de limba română”

La lavagna nera a fiori (giuro!) recita queste parole e Valeriu ci guarda divertito.
Ci siamo appena sistemati nella scuola russa di Hincesti e abbiamo deciso di sfruttare l’occasione per farci dare lezioni di rumeno, che sì detto così fa un po’ ridere, ma anche riflettere sulla complessità culturale di questa terra, sulle sue contraddizioni e sulla sua storia.
Ma non distraiamoci: il nostro profesorul spiega veloce e dopo una settimana a Ratus dove abbiamo usato soltanto gesti, è meglio se non ci perdiamo nulla.
E’ strano trovarsi di nuovo dalla parte di chi impara, ma in fondo qua in Moldova abbiamo capito che le posizioni sono invertite: sono i bambini tutti i giorni a dare tanto a noi e non il contrario come avremmo creduto, sono loro con la loro gioia e spontaneità a salvarci un pochettino dai nostri mille e inutili problemi.

“CIAPA – cipolla
CARTOFI – patate
MORCOVI – carote
…”

Non è l’inizio di una ricetta moldava, ma quello che ha voluto insegnarci il nostro prof: chissà sarà che avrà ancora fame?
Non lo so, ma so che domani non riuscirò ancora a esprimere in rumeno tutto quanto mi frulla per la testa (a meno che non desideri una particolare bors!).
Questo mi fa sentire un po’ vulnerabile, io che ho sempre la frase pronta per tutto devo farne a meno e scoprire che c’è tutto un mondo di sguardi, di sorrisi e gesti da esplorare e che fa sì che quando ci sia l’intenzione si riesca sempre a comunicare (in caso contrario c’è sempre google translate!).
La lingua diviene così importante, ma non fondamentale: è importante perché dire qualche parola nella lingua dell’altro che incontro esprime attenzione e cura e poi le nostre pronunce bizzarre mettono di buon umore; non fondamentale perché sorrisi e gesti arrivano dove le parole non riescono.

Sì perché noi ci abbiamo provato e riprovato mille volte ma la i piccola che c’è in vulpi proprio non riusciamo a dirla, insomma si sente questa i o no?
Dopo mille risate ci siamo arresi, in fondo l’importante è saper dire mulțumesc!

E quindi un enorme MULTUMESC a tutti per questa esperienza unica


Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli

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Non è facile provare a riassumere in un singolo post quella che è stata la mia esperienza in Moldova. Al ritorno in Italia tante persone mi hanno chiesto di raccontare, di parlare, di provare a spiegare qualcosa di una terra che a noi italiani è pressoché sconosciuta. Anche il nome, spesso, ci viene difficile da ricordare. Si chiamerà Moldova o Moldavia? È uno stato indipendente o è semplicemente una regione della Romania? Queste e altre mille domande frullano nella testa di ciascuno che parla con me, come frullavano nella mia prima di partire per tre settimane verso quella terra, allora, sconosciuta. La verità è che per noi italiani la Moldova, se e quando significa qualcosa, ci ricorda solo le tantissime ragazze, e donne, che vengono nel nostro paese in cerca di un po’ di fortuna e sostentamento economico, scappando da una terra natia che non le può vedere protagoniste. Ma in realtà questa è solo una piccola parte del tutto. Ho provato quindi a raccontare un po’ di quello che è stata la Moldova per me partendo da una singola parola, una parola ambigua e ricca di contraddizioni come lo è la terra che mi ha accolto per tre settimane.

Moldova è povertà’. Ebbene sì, la Moldova è un paese poverissimo. Con un PIL di circa 7 miliardi di dollari, la Moldova è addirittura il paese più povero d’Europa. Il settore industriale è decisamente debole e tutta l’economia si sostenta, o almeno tenta di farlo, sul settore agricolo. Nella pratica, questo significa che il paese dipende per molti dei suoi fabbisogni- sia nutrizionali che energetici- dalle importazioni, e questo fa sì che la Moldova si trovi gioco forza legata all’influenza russa. Cosa significa però, e cosa ha significato per noi, questa povertà? Significa che il PIL pro capite a parità di potere d’acquisto (ossia considerando il valore dei beni che, con la somma in questione, possono essere acquistati in Moldova) è di circa 5000 dollari all’anno. Che, per noi italiani, vorrebbe dire poco meno di 350 euro al mese. Oltre ai freddi numeri, questa povertà era evidente in tanti momenti del nostro quotidiano. Vedevamo la povertà nei volti delle persone, spesso scoraggiati o diffidenti. Vedevamo la povertà nei piccoli supermercati, dove poche merci, e sempre le stesse, erano disponibili, e l’abbondanza di scelta che abbiamo noi nelle nostre città era solo un ricordo lontano. Vedevamo la povertà anche nei bambini che accoglievamo ogni mattina per la nostra “tabara”, una sorta di oratorio nostrano; bambini in grado di emozionarsi e rimanere stupiti da ogni singola cosa, anche la più semplice, perché sono stati cresciuti nell’assoluta mancanza di risorse.

Eppure i loro occhi, le loro mani, le loro menti non si fermavano lì. C’era qualcosa di più grande che dava un senso a quella povertà, qualcosa che è difficile comprendere realmente finché non lo tocchi con mano. Qualcosa che, però, è scritto a chiare lettere nel Vangelo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Questi ragazzi, come tante altre persone che abbiamo incontrato nella nostra esperienza di volontariato, ci hanno saputo realmente mostrare cosa sia la povertà di spirito. Una povertà che si manifesta nello stare bene con sé stessi, e con gli altri, a prescindere dalla propria ricchezza, a prescindere dalle proprie distrazioni e dalle proprie voglie. Una povertà che è anche capacità di riconoscere che si è parte di un disegno più grande, che il nostro io non è necessariamente al centro dell’universo, ma c’è un “Noi” molto più grande e molto più importante di cui noi siamo una semplice componente, per quanto essenziale agli occhi di Dio. Come ha ricordato Papa Francesco nel suo Discorso ai giovani per la XXIX Giornata Mondiale della Gioventù, è necessaria una conversione riguardo ai poveri, una conversione che riporti il valore della solidarietà al centro della cultura umana. Solo così è possibile vincere la cultura dell’indifferenza che fa sempre più parte del nostro quotidiano. Al tempo stesso, però, c’è da fare un ultimo, fondamentale passaggio, nel quale l’esperienza di questa estate si è rivelata cruciale. Le persone che abbiamo incontrato ci hanno fatto capire come i poveri non siano solo persone a cui è necessario dare qualcosa. Certo, molte volte è così e sicuramente questo aspetto è quello più appariscente ai nostri occhi. Ma c’è qualcos’altro, in sottofondo, che spesso ci sfugge. Infatti le persone più semplici, con meno mezzi, i poveri in spirito ma spesso anche materialmente, hanno in realtà tantissimo da offrirci. Il rispetto per la propria dignità, l’importanza dell’umiltà, il valore, anche simbolico, della generosità. Come la vedova che getta le sue uniche due monete nel tesoro (Lc 21,1-4), anche i bambini delle nostre tabare, come anche le ragazze disabili che abbiamo aiutato nella seconda settimana, erano capaci di donare con gioia tutto quello che avevano. Poteva essere poco, poteva essere sporco, poteva essere semplice, ma rappresentava in quel momento per loro- e per noi che ricevevamo- il bene più prezioso.

Questo è l’insegnamento più importante che ho portato a casa. L’insegnamento della povertà e della sua accettazione, non remissiva ma impregnata di voglia di fare e cambiare, quella che animava ad ogni ora del giorno i volontari moldavi con i quali abbiamo lavorato. La Moldova è un paese povero, è vero. E purtroppo è anche un paese con poche prospettive di rilancio economico e politico, almeno nel breve termine. Ma la povertà può e deve essere la base per una nuova crescita, che sia il più possibile sostenibile e a beneficio di tutti, perché le speranze racchiuse negli occhi dei nostri bambini non rimangano imprigionate ma possano, finalmente, prendere il volo. Perché anche i Moldavi hanno diritto a un pezzettino del regno dei cieli già su questa terra.



Francesco Gatti