Il Libano è un Paese che ti fagocita nella sua storia e nelle sue contraddizioni fin dal primo sguardo. E’ possibile accorgersene già in aereo, guardando fuori dal finestrino, quando si ha l’impressione di atterrare quasi nel cuore della sua caotica capitale, Beirut.
Conoscere il Libano significa quindi farsi sorprendere non solo dalla bellezza del territorio, dai volti delle persone e dal fascino di una cultura millenaria, ma anche dai contrasti sociali e dalle ingiustizie economiche, che si possono intuire anche dopo pochi giorni di permanenza nel Vieux Pays [1].
Per attraversare 200 km di autostrada lungo la costa libanese, occorrono circa 5 ore a causa del traffico, puntuale, che si incontra ai frequenti security check-point, dove è sempre necessario rallentare, alzare i propri occhiali da sole, guardare negli occhi la guardia armata di fucile d’assalto e attendere per una frazione di secondo il suo via libera.
Lungo la strada è facile notare grattacieli
avveniristici, edifici abbandonati, pareti traforate da colpi di proiettile,
antiche chiese, eleganti moschee, ville da sogno, campi formali per rifugiati
palestinesi, fast food, persone ai lati della strada in attesa che qualcuno
offra loro un lavoro per la giornata, spiagge bellissime, spiagge ricoperte di
pattumiera, bandiere di Hezbollah issate lungo l’autostrada, innumerevoli
pubblicità di prestigiosi college universitari e profonde vallate, qualche
volta deturpate da case costruite senza rispetto per il prezioso paesaggio
libanese.
Sono arrivato qui, forse per dare un volto alle notizie sui giornali e incontrare storie lontane dalla mia quotidianità. Ho così conosciuto due storie: la storia dei rifugiati siriani e iracheni, che fuggono dalla guerra, e la storia di donne migranti, che arrivano in Libano per lavorare come domestiche e si ritrovano però in un incubo di violenza domestica e sfruttamento.
Ho incontrato queste storie all’interno degli shelter, centri di accoglienza per persone in condizione di fragilità, creati e gestiti da Caritas Lebanon. Qui gli operatori di questa organizzazione, lavorano per dare supporto a queste persone nel corso della loro permanenza negli shelter, assieme anche al contributo di tre ragazze italiane, che in Libano svolgono il proprio servizio civile e che mi hanno guidato e accompagnato nel corso di questa entusiasmante esperienza.
Sono arrivato come volontario, senza sapere
esattamente cosa queste persone si aspettassero da me e mi sono quindi messo a
loro servizio con gli strumenti che avevo: la mia storia, il mio volto, il mio
sorriso, la mia energia e, forse soprattutto, la mia presenza.
Ma quale presenza? In che modo avrei dovuto
“esserci”? Che tipo di relazione avrei dovuto instaurare con i beneficiari
dello shelter?
Con il passare dei giorni ho capito che volevo
essere una presenza discreta: desideravo entrare nella loro vita con
delicatezza con il solo obiettivo di far loro sapere che nel mondo esistono
altre storie e altri volti pronti ad accoglierli.
Oggi mi auguro quindi non tanto che si
ricordino di me, ma che resti solo il ricordo di un gioco, di uno sguardo, di
un sorriso o di una carezza, nella speranza di aver lasciato un segno di
presenza, interesse e amore, a persone che spesso hanno conosciuto solo
indifferenza, dolore o persino violenza.
Sono entrato negli shelter per qualche ora o
per qualche giorno e quando sono uscito mi sono accorto di un recinto attorno a
queste strutture, fatto di mura più alte e più spesse di quello che sembravano
all’inizio.
Penso di aver visto la prigione che separa,
talvolta, le persone fragili dal resto del mondo.
Prima di andarmene, ho provato a guardare
negli occhi le persone che ho incontrato, un’ultima volta, con sguardi veloci,
con inquadrature sfuocate sui loro volti. Questo è stato il mio tentativo, per
l’ultima volta, di accogliere le loro storie e la loro prigione.
Enrico
Enrico
Nessun commento:
Posta un commento