Sono tanti gli incontri significativi che hanno arricchito
il cantiere, ma forse l’incontro che mi ha colpito più di tutti è stato quello
con “all black”, una donna siriana alta, bella, dal portamento elegante,
soprannominata così da noi ragazzi perché vestiva sempre di nero. Una figura
semplice, che nella sua essenzialità esprimeva grande dignità, fierezza e
tenacia, nonostante tutte le sofferenze subite. Una presenza silenziosa e
discreta, che da lontano seguiva i suoi figli con sguardo vigile ed affettuoso,
pronta ad intervenire se qualcosa fosse andato storto.
Ho conosciuto “all black” tramite i suoi tre meravigliosi
figli, che per qualche giorno sono stati i miei compagni di giochi.
Tra di noi non ci sono mai stati grandi discorsi anche
perché la comunicazione non era sempre facile e il tempo a disposizione per intavolare
un dialogo era poco. Così la parola ha presto lasciato spazio al linguaggio del
cuore fatto di sguardi, gesti e sorrisi che creano intimità molto più delle
parole….
Dai pochi discorsi fatti emergeva chiara la preoccupazione
di una madre per l’educazione dei propri figli, specialmente per il maschietto
che a tre anni non parla ancora. Dal suo tono di voce e dai suoi occhi si
percepiva la gioia di essere ascoltata più con il cuore che con le orecchie,
perché parlava troppo in fretta e non avevo il coraggio di frenare il suo
racconto chiedendole di parlare più lentamente. Traspariva il sollievo di
sentirsi presa per mano, anche se solo per pochi giorni. Trasparivano la
serenità e la soddisfazione nel vedere i propri figli giocare felici ed essere
stimolati con nuove attività.
Nonostante i pochi giorni passati insieme, le poche parole
spese per conoscerci e nonostante non abbia fatto pressoché nulla di concreto
per lei direttamente, giunto il momento di tornare a Beirut io l’ho salutata
con i soliti due baci convenzionali sulle guance, mentre lei mi ha subito
stretto a sé in un abbraccio, come se non volesse farmi andare via…come se
cercasse di restare aggrappata a me per prendere tutta la forza necessaria per
reagire alla solitudine, alla povertà, al dolore patito e tornare alla vita, ai
suoi figli con rinnovato vigore ed entusiasmo.
Quell’abbraccio stretto, lungo e tenero, denso di parole
rimaste ancora inespresse mi ha sorpreso, spiazzato e commosso al punto da non
riuscire nemmeno a rispondere al suo augurio “Allah yukhallik!” (che Dio ti
benedica)
In quel momento di profonda dolcezza, mi sono sentita
figlia, accolta da una madre diversa dalla mia, di un altro paese e di un’altra
cultura e grazie a quel gesto di tenerezza parte anche di quel mondo così
lontano eppure così vicino al mio. E allora una domanda sorgeva spontanea:
“Perché? Cos’ho fatto di così speciale per meritarmi tanto affetto e
riconoscenza?”
Poi guardando i suoi occhi neri e profondi
luccicare di speranza e di commozione mi sono tornate in mente le parole di
padre Ibrahim: “Hanno bisogno che qualcuno gli ridoni la speranza, l’umanità,
la dignità.” e in quel momento ho compreso che nella mia pochezza ero riuscita
a farlo. Missione compiuta.
Marianna
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