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lunedì 4 settembre 2017

La mia presenza in Libano

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Il Libano è un Paese che ti fagocita nella sua storia e nelle sue contraddizioni fin dal primo sguardo. E’ possibile accorgersene già in aereo, guardando fuori dal finestrino, quando si ha l’impressione di atterrare quasi nel cuore della sua caotica capitale, Beirut.

Conoscere il Libano significa quindi farsi sorprendere non solo dalla bellezza del territorio, dai volti delle persone e dal fascino di una cultura millenaria, ma anche dai contrasti sociali e dalle ingiustizie economiche, che si possono intuire anche dopo pochi giorni di permanenza nel Vieux Pays [1].

Per attraversare 200 km di autostrada lungo la costa libanese, occorrono circa 5 ore a causa del traffico, puntuale, che si incontra ai frequenti security check-point, dove è sempre necessario rallentare, alzare i propri occhiali da sole, guardare negli occhi la guardia armata di fucile d’assalto e attendere per una frazione di secondo il suo via libera.
Lungo la strada è facile notare grattacieli avveniristici, edifici abbandonati, pareti traforate da colpi di proiettile, antiche chiese, eleganti moschee, ville da sogno, campi formali per rifugiati palestinesi, fast food, persone ai lati della strada in attesa che qualcuno offra loro un lavoro per la giornata, spiagge bellissime, spiagge ricoperte di pattumiera, bandiere di Hezbollah issate lungo l’autostrada, innumerevoli pubblicità di prestigiosi college universitari e profonde vallate, qualche volta deturpate da case costruite senza rispetto per il prezioso paesaggio libanese.


Sono arrivato qui, forse per dare un volto alle notizie sui giornali e incontrare storie lontane dalla mia quotidianità. Ho così conosciuto due storie: la storia dei rifugiati siriani e iracheni, che fuggono dalla guerra, e la storia di donne migranti, che arrivano in Libano per lavorare come domestiche e si ritrovano però in un incubo di violenza domestica e sfruttamento.



Ho incontrato queste storie all’interno degli shelter, centri di accoglienza per persone in condizione di fragilità, creati e gestiti da Caritas Lebanon. Qui gli operatori di questa organizzazione, lavorano per dare supporto a queste persone nel corso della loro permanenza negli shelter, assieme anche al contributo di tre ragazze italiane, che in Libano svolgono il proprio servizio civile e che mi hanno guidato e accompagnato nel corso di questa entusiasmante esperienza.

Sono arrivato come volontario, senza sapere esattamente cosa queste persone si aspettassero da me e mi sono quindi messo a loro servizio con gli strumenti che avevo: la mia storia, il mio volto, il mio sorriso, la mia energia e, forse soprattutto, la mia presenza.

Ma quale presenza? In che modo avrei dovuto “esserci”? Che tipo di relazione avrei dovuto instaurare con i beneficiari dello shelter?
Con il passare dei giorni ho capito che volevo essere una presenza discreta: desideravo entrare nella loro vita con delicatezza con il solo obiettivo di far loro sapere che nel mondo esistono altre storie e altri volti pronti ad accoglierli.

Oggi mi auguro quindi non tanto che si ricordino di me, ma che resti solo il ricordo di un gioco, di uno sguardo, di un sorriso o di una carezza, nella speranza di aver lasciato un segno di presenza, interesse e amore, a persone che spesso hanno conosciuto solo indifferenza, dolore o persino violenza.

Sono entrato negli shelter per qualche ora o per qualche giorno e quando sono uscito mi sono accorto di un recinto attorno a queste strutture, fatto di mura più alte e più spesse di quello che sembravano all’inizio.
Penso di aver visto la prigione che separa, talvolta, le persone fragili dal resto del mondo.

Prima di andarmene, ho provato a guardare negli occhi le persone che ho incontrato, un’ultima volta, con sguardi veloci, con inquadrature sfuocate sui loro volti. Questo è stato il mio tentativo, per l’ultima volta, di accogliere le loro storie e la loro prigione.

Enrico



[1] Vecchio Paese, con questo nome gli emigrati libanesi rievocano la patria lontana.


giovedì 24 agosto 2017

CAPITOLO 4 LIBANO: Odori e Colori

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 “E` li che ho sentito l`odore dei poveri. Sapete: non mi ha piu lasciato il puzzo della miseria, si è attaccato ai vestiti, alla pelle, mi ha inseguito dopo che ne sono uscito, ho gettato via i vestiti che indossavo...e` rimasto li, mi e` entrato dentro, mi insegue e mi perseguita....che cos`e` l `odore dei poveri? ”
Questa è la testimonianza di Domenico Quirico, giornalista de La Stampa al ritorno da un viaggio nei centri d`accoglienza libici.
E` questo l`odore dei poveri?  E’ quello che ci siamo chiesti mentre i bambini ci si arrampicavano addosso.
Pungente, come un profumo troppo dolce che non si adatta all`eta` del bimbo che hai davanti.
“L`odore di shelter” è un odore misto di polvere terrosa, di mani sporche, l`odore umido della doccia, gli odori forti e speziati dei cibi che vengono preparati fin dal mattino, l`odore del pianto.
Ma tutti questi odori spesso celano dei colori di una bellezza inaspettata.


Azzurro,  quello del cielo che si confonde all’orizzonte con quello del mare, e quello degli occhi espressivi e trasparenti di Lamar.
Bianco, come il contrasto che si crea con il nero negli occhi dei bambini, e come la polvere che si alza quando si corre insieme a loro.
Nero, come il quotidiano vestito che Fatima riusciva a indossare con cosi tanta eleganza; nero come il caffe denso e robusto che con il suo profumo ti risveglia.
Rosso, come tutti i checkpoint che abbiamo oltrepassato nei nostri spostamenti  per il Libano, e come i pomodori che ogni giorno vengono serviti a pranzo negli shelter.
Arancione,  colore che esplode nel cielo ogni sera in un tramonto sorprendente.
Ma anche il grigio, come il cemento dell’edilizia che deturpa le meravigliose valli verdi e che rinchiude anche gli ultimi cedri rimasti liberi, come lo smog che aleggia sempre sopra Beirut, e come i campi da gioco dedicati ai bambini. 
Che odere e colore ha uno shelter? Ora che abbiamo visto, vissuto, respirato, non possiamo piu dire “ignoravo tutto”, “credevo”, “mi avevano detto”.


mercoledì 23 agosto 2017

CAPITOLO 3 : M-O-L-D-O-V-A

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Facciamo un gioco?
Mettersi in gioco in questi giorni è stato sicuramente indispensabile per incontrarsi (o meglio scontrarsi) con una cultura, un altro diverso da noi.Non vogliamo smettere di farlo neanche ora, mentre stiamo riflettendo su cosa siano state per noi queste settimane.Ci eravamo lasciati con una domanda: si dirà Moldova o Moldavia?Per scoprirlo vogliamo ricomporre lettera per lettera il nome di questo paese e le mille emozioni che ci ha trasmesso.
Giocate con noi?



Multumesc:
Parola semplice che a volte viene data per scontata, ma che aiuta moltissimo quando non conosci una lingua. In moldavo 'multsumesc' si scrive e si pronuncia in modo completamente diverso dall italiano, ma al contrario di altre parole piu semplici noi cantieristi italiani lo abbiamo memorizzato subito. È stata una soddisfazione vedere come i volontari moldavi apprezzassero lo sforzo di rispondere nella loro lingua anche ai gesti semplici.

Occhi:
In Moldova in un paio di occhi vedi sincerita voglia di giocare e sorridere. in un paio di occhi azzurri o verdi trovi una comunicazione molto piu efficace di mille parole ma soprattuto vedi la realtà attraverso quello specchio per comprendere come sia diversa la vita anche solo a due ore di aereo da noi. perché alla fine un viaggio non è cercare nuove terre ma avere nuovi occhi ed è quello che è successo a noi



Dono :
Il valore del dono è centrale nell'esperienza umana. La vita di ognuno di noi è dono, l'educazione che riceviamo è dono, il tempo che gli altri ci dedicano è dono.
La capacità di donarsi agli altri è il sale della vita dell'uomo, è quel qualcosa in più che riesce a dare un senso alla quotidianità. Solo così il messaggio che c'è più gioia nel dare che nel ricevere può prendere corpo in mezzo a noi. Il volontariato è una delle mille espressioni in grado di mostrare la forza potente del dono, e così è stato per noi cantieristi in Moldova. Ogni giorno passato a programmare, pianificare e mettere in pratica ciò che era stato precedentemente deciso è stato il nostro piccolo dono quotidiano. Quello che abbiamo ricevuto, però, è molto più grande e compensa ogni fatica di questi venti giorni. Si tratta di risposte, sorrisi, abbracci e tanta riconoscenza. E questi sono i doni più belli di tutti.


Oportunitate:
l'Italia, osservata da un'altra prospettiva come quella moldava, sembra essere il paese delle opportunità. Per questo noi, gruppo di ragazzi italiani, siamo venuti qui per portare, nel nostro piccolo, un'occasione di benessere per i locali. Eppure, alla fine di questo viaggio, ci rendiamo conto di quale grande opportunità ci abbiano offerto in cambio la Moldova e la sua gente. Con la loro accoglienza, gratitudine e diversità ci hanno fatto emozionare, arrabbiare e stupire, contribuendo a una nostra crescita non soltanto formativa, ma anche e soprattutto personale. Infine, ci hanno permesso di dare vita ai ricordi più belli di queste due settimane, quelli che ti rubano un pezzo di cuore.

Valore:
Il valore di questa esperienza in Moldova è stato indescrivibile. Un valore che ti cambia senza che te ne accorga con piccoli gesti e poche parole. Abbiamo riscoperto come ogni parola ogni sorriso ogni abbraccio sia davvero importante e significativo per questi piccoli bambini. Grazie a loro abbiamo riscoperto questo valore.
Le emozioni che abbiamo provato sono davvero forti, e dritte al cuore.Il significato che abbiamo dato ad ogni singolo gesto è stato diverso, ma sempre ricco di emozioni forti e pensieri sinceri.
Questo viaggio in Moldova è stato proprio un vero valore aggiunto al nostro essere: ci ha sicuramente cambiati ed aiutato a crescere.

Acuma:
E adesso? Sono partita convinta di trovare le risposte che stavo cercando e invece torno con più domande di prima. Però in fondo sono proprio le domande a darti un nuovo slancio, una nuova spinta. Questo è il bello: quando pensi di essere arrivato è proprio allora che inizia il viaggio.

CAPITOLO 2: Piccola raccolta di aforismi moldavi

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1) che ti piaccia la bors o la pasta ai biscotti non potrai mai dire basta ;
2) rimanda la dieta a settembre... a verza cetrioli e pomodorini abbinarai sempre i cioccolatini ;
3) vai a messa digiuno recupererai in itinere con dolci (e non solo uno);
4)risparmia sulla crociera c'è sempre la rutiera ;
5) impara a svegliarti con il sorriso nonostante la cassa sopra il viso.... https://www.youtube.com/watch?v=uKl4s4tPrR0;
6) altro che vino del parinte si sboccia solo chai ferbinte;
7)quando piove, piove sempre e solo biokill;
8 ) ma un'angelina l'abbiamo ?;
9) se non avere l'acqua può sembrarti una sciagura quella che sa di uovo,fidati, fa più paura;
10)a chisinau stai linisctito se non vuoi essere investito;
11) e la scedinza paura non ci fa !!!!;
12) altro che " mi fa volare", impinge il podu ci farà sognare;
13) non Sarai Carla dream ma la quantità di autografi firmati sarà extreme ;
14) dopo 15 anni scoprirai che dragostea Din tei non fa solo Numa Numa iei ;
15) se pensavi di curare la gastrite in ospedale hai capito male... il miglior rimedio che ci sia è l'omeopatia;
16)bandierina rubata ed è subita foxata;

Ma la vera domanda è :
"cosa fa ci fa un pop corn in una padella"???
E allora
POPPY!
E POPPY POPPY POPPY!
E POPPY POPPY POPPY!


martedì 22 agosto 2017

CAPITOLO 3 NICARAGUA: Felix

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La nostra esperienza in Nicaragua sta oramai giungendo al termine. Sono stati 26 giorni di incontri, fatica, sorrisi, viaggi e legami. Legami che si sono creati tra di noi e al di fuori del nostro gruppo di "italiani" allargandosi e includendo all'interno di esso persone nuove con il loro vissuto e il loro carattere.

Persone nuove che hanno condiviso con noi interi momenti della nostra esperienza, lavorando con noi all'interno del barrio e del centro escolar, vivendo con noi momenti di viaggio e di scoperta, ridendo e raccontandoci le loro esperienze. Il personale di Redes, le nostre coordinatrici, Stefania, i professori del centro escolar, i bambini hanno condiviso con noi singoli momenti che nell'insieme hanno rappresentato la nostra esperienza.

Però, una persona è rimasta nel cuore di tutto il gruppo, una persona che fin da subito ci ha accolto con una risata e una battuta sulle nostre enormi e pesanti valigie.
Felix, il direttore del centro escolar. Immaginatevi il classico latino - americano: capello ricciolo lungo gellato, pelle color cafè, camicie coloratissime aperte fino al terzo bottone, collanina d'oro con anello annesso, pantaloni larghi, calzino bianco di spugna che incalza dei mocassini bianchi a punta.
Un omone di 1.75 muscoloso con una versatilità sportiva propria di pochi (calcio, pallacanestro e sopratutto baseball, abbiamo visto frantumare più di una palla con quella mazza) e con una grazia nel ballo da far innamorare tutta la pista.
Un direttore e un padre di 35 anni innamorato dei propri figli ed innamorato del proprio lavoro.
Un amore paterno che traspare anche ogni mattina quando al suonare della campanella aspetta all'ingresso ogni bambino salutandolo come se fosse unico.
Uno sguardo amorevole, pieno di simpatia e di battute che si fonde con il suo ruolo da direttore: serio e duro quando serve, tenero e dolce all'occorrenza. 
Un uomo nato e cresciuto nel barrio, con tutte le sue difficoltà e le sue problematiche.
Un uomo che rimboccandosi le maniche e studiando ha riempito il suo animo di valori che ha deciso di condividere con la sua stessa terra diventando un esempio e punto di riferimento.
Sia per i "suoi" bambini sia per noi.
Punto di riferimento per le nostre attività e per il servizio ai piccoli, ma non solo.
Per noi é diventato qualcosa di più.
Per noi é diventato l' amico a cui confidare segreti, dubbi  e storie di vita.
Per noi é diventato il papá che dolcemente prima di cena ci insegna a mangiare tutti i frutti più svariati.
Per noi é diventato quella persona da cui ci siamo sentiti presi per mano e voluti bene fin dal primo giorno.
E che ci mancherá.


Ale, Anna, Giu e Filo (o meglio "cabron!")


lunedì 21 agosto 2017

Georgia: "romanzo Georgia", capitolo 3

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Collage di emozioni georgiane

INNO ITALIANO IN GEORGIANO
INNO GEORGIANO IN ITALIANO

 Ara kartuli ar vizi
me minda zkali ludi
kvino khachapuri

Erti ori sami
scemo cazzo modi
patara didi lodi

Rit 1. Anu, anu, anu...
pirdapir sasamtro  (x3)
memgoni ki, memngoni ara

Tzrela burti tashi
kinkali sce madloba
tamashi gamarjoba 

Italiuri ati Vale 
Arali Kutaisi
mashrutka Tbilisi

Rit 2. Zapi, zapi, zapi
stapilo zavedit (x3)
Irene ki, Giuseppe ara


TRADUZIONE

No, non parlo georgiano
voglio acqua birra
vino e focaccia

Uno, due, tre
entra uomo, vieni
piccolo grande sasso

Rit 1. Quindi, quindi, quindi
direttamente auguria (x3)
forse si, forse no

Caldo palla applauso
ravioli tu grazie
gioco buongiorno

Italiani dieci Vale
Arali Kutaisi
Pullmino Tbilisi

Rit 2. Corda, corda, corda
carota andiamo (x3)
Irene si, Giuseppe no


IL CIELO E' DI TUTTI 
Poesia di Gianni Rodari, rivisitata in chiave georgiana

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi,
di ogni occhio è il cielo intero.


È  mio quando lo guardo.

È del vecchio e del bambino,
dei romantici e dei poeti,
del re e dello spazzino.


Il cielo è di tutti gli occhi
e ogni occhio, se vuole,
si prende la Luna intera,
le stelle comete, il sole,

la notte serena.

Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.


Spiegatemi voi dunque,

in prosa o in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la Terra è tutta a pezzetti.


Ditemi ora invece,
miei cari bambini,
se non sarebbe bello
che la Terra, come il cielo, 
non avesse più confini,
così che, tendendo la propria mano, 
il bambino italiano 
possa abbracciare 
quello georgiano.

lunedì 14 agosto 2017

CAPITOLO 2 NICARAGUA: 9 novembre 1989

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Qui, a Nueva Vida, camminando per le strade del barrio oltre al fiume di acqua sporca che scorre a lato della strada cio’ che salta all’occhio immediatamente sono le barricate di lamiera, filo spinato e mattoni che delimitano e rinchiudono le case e la quotidianita’ delle famiglie che vi abitano. Un muro fisico che talvolta lascia scorgere solo il tetto. Un muro che per noi pare essere gia’ sufficientemente alto, ma che per loro non lo e’ ancora abbastanza. Un muro che nasce per “asegurar” la casa, renderla sicura dalle minacce e dalla violenza del barrio, ma che in fondo porta solo a un isolamento delle persone stesse, le une dalle altre. Sono muri che accostati l’uno all’altro sembrano formare due muraglie cinesi ai lati delle strade che si guardano l’una con l’altra formando un corridoio tra le stesse: corridoio che e’ simbolo di tutto cio’ che e’ “altro” rispetto al nucleo famigliare. Un qualcosa che per noi e’ liberta’, mentre per loro e’ un luogo di “pandillas” e “vagos”. Un corridoio da evitare e da cui proteggersi. Cio’ che differenzia la muraglia cinese dalle barricate di Nueva Vida e’ che se la prima era nata per dividere due popoli, questa esiste per dividere la comunita’ stessa.


Continuando a camminare tra i corridoi delle cinque etapas si incontra, poi, il muro di Redes de Solidaridad, un’ associazione che, dal passaggio dell’ uragano Mitch (1998), si impegna a lavorare con la popolazione di Nueva Vida cercando per quanto possibile di rispondere in modo efficace e democratico alle esigenze locali. Questo muro divide tutto cio’ che e’ il barrio da quella che, invece, e’ un’ isola felice: non e’ da intendere come un muro di totale separazione, ma come un muro che di giorno si apre ai bisogni e alle necessita’ della popolazione tendendo diverse mani pronte all’ aiuto e che, pero’, di notte si chiude con i quattro guardiani simile a un fortino per proteggersi, da un  lato, dalle problematiche di delinquenza locale e, dall’altro, da quelle che possono essere bisogni urgenti della comunita’, come un farmaco o una richiesta di assistenza per vari motivi. Questo muro lascia, quindi, intravedere il barrio e i suoi problemi, proprio come in aluni punti del muro del Messico in cui si vede aldila’, oltre.


I muri che si incontrano in Nueva Vida non sono pero’ solo strutture fisiche, ma anche metafora di idee e riflessioni. Esiste il muro di razza che separa il bianco dal nero e che suscita in noi alcune domande. Perche’ nei manifesti propagandistici il presidente della Repubblica Ortega appare piu’ bianco? Perche’ Francisco, ragazzo del barrio, si vanta di essere piu’ bianco rispetto ai suoi compagni? Il bianco in Nicaragua viene visto come lo status a cui ambire in quanto status di coloro che “vivono bene”, che hanno piu’ tutele famigliari e personali e piu’ possibilita’ di successo in generale.


Esiste anche il muro di genere che divide la donna dall’uomo. Perche’ io, donna, dopo una certa ora non posso piu’ uscire di casa in totale sicurezza? Perche’ io, donna, mi ritrovo spesso da sola a dover svolgere quotidianita’ domestiche? Dove e’ l’uomo e che ruolo ha all’ interno della famiglia?


I nostri sono solo pensieri e domande nati in noi in questo cammino fisico e mentale nel barrio, tra dialoghi e scambi con le persone locali e l’ultimo pensiero che vorremo lasciare e’ la nostra speranza. Speranza che tutti questi muri cadano come e’ caduto il muro di Berlino, speranza che al loro posto nascano ponti. Ponti per unire, aprire e crescere. 

Filippo, Anna, Ale, Giulia

giovedì 10 agosto 2017

Milano: L'INCONTRO CON L'ALTRO (capitolo 4)

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Incontri, sensazioni, esperienze, volti e storie dal "Cantiere Meneghino"





« Un nome, un volto, una grande fragilità. M. è seduto a un tavolo e ha davanti a lui un atlante. Mi avvicino. Mi dice di non amare la geografia, preferisce la fisica. Ha quasi 50 anni, ma vorrebbe studiarla, la fisica. Mi dice che il suo sogno è andare in un luogo ben preciso sulla cartina di quell'atlante e me lo indica col dito: New York. M. è timido e solo. Vorrebbe solo essere ascoltato. Si sente diverso dagli altri, eppure non vuole perdere la speranza.
Stare.
Ascoltare.

Questi sono i verbi che hanno scandito in gran parte queste giornate di cantiere della solidarietà a Milano.
"Stare", perché nessuno ha chiesto a me e ai miei compagni di viaggio di "fare" qualcosa di particolare, ma ci è stato chiesto semplicemente di entrare in punta di piedi nella vita di queste persone.
"Ascoltare", o meglio "auscultare", termine tecnico del linguaggio medico che indica un ascolto profondo e intimo. Perché in questi giorni ho sperimentato davvero cosa significa un ascolto alla pari, senza pregiudizi e pretese.
"Sperare". Perché M. mi ha aiutato a capire l'importanza del continuare a sognare e a sperare, nonostante le grandi difficoltà che talvolta oscurano il cammino. »

«Di questa esperienza porto nel cuore una simbologia presente al Refettorio Ambrosiano, spiegataci da Carlo, uno dei volontari presenti sin dalla sua apertuta nel 2015. la grossa canna fumaria della cucina che ricorda, nella forma, una tenda e la presenza di una pagnotta all'ingresso rimandano all'episodio della Genesi (Gn 18, 1-8) in cui Abramo, seduto all'ingresso della sua tenda, si rivolge così al Signore presentatosi come tre uomini forestieri: "Signore, non passare oltre senza fermarti. si vada a prendere un po' d'acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero. Andrò a prendere il pane e ristoratevi, dopo potrete proseguire, perchè è en per questo che voi siete passati dal vostro servo."
Ecco il nostro servizio in questo Cantiere, ecoo cosa voglio portare a casa: uno spirito accogliente, di un'accoglienza che non si limita a farsi carico del bisogno materiale della persona in difficoltà, ma che ci chiede di metterci completamente in gioco, di creare relazioni positive, di farsi prossimo della persona che abbiamo davanti in tutta la sua intensità.
Abramo infatti, dopo aver fatto preparare acqua focacce e un vitello, rimane con i tre uomini e da loro apprende che di lì a un anno avrà un figlio dalla moglie Sarah.
Testimone di un'accoglienza, che fa nascere una vita nuova.
Nel caso del nostro Cantiere, una vita che (ri)nasce. »

« Un famoso detto dice: "chi trova un amico trova un tesoro!" e che dire... Credo sia proprio così!
Questa stupenda esperienza mi ha ricordato come, nonostante le diferenze di ognuno di noi, portatore di un tesoro di inestimabile valore, ciò che conta nella vita non sono tanto i beni materiali quanto piuttosto le relazioni e i rapporti che si vengono a creare durante il viaggio.
in una società in cui si tende a nascondere il nostro vero volto dietro delle mascere, appiattendo la nostra vera identità per uniformarci alla massa, è invece bello distinguersi muovendosi controcorrente.
la diversità sta solo negli ochhi di chi la guarda! dobbiamo imparare ad essere solidali verso il prossimo, a comprenderlo, ad ascoltarlo e ad amarlo perchè dietro alle sue difficltà e al suo malessere si nasconde in reltà quel tesoro tanto prezioso che solo aprendo realmente gli occhi possiamo imparare a vedere.
E... Alla fine del viaggio ritroviamo anche un po' più di noi stessi o una piccola parte di noi che con il tempo avevamo perso... »

« Nove giorni sono pochi per riuscire a capire una realtà nuova ma sono sufficienti per farsi un'idea di ciò che ci circonda e a cui spesso non facciamo caso o diamo poco peso.
All'inizio non è stato semplice. Eravamo degli sconosciuti che dovevano inserirsi in un gruppo già formato, con loro abitudini, regole e ruoli.
Da parte mia c'era una sorta di "stare sull'attenti", cioè quel fare attenzione ad ogni cosa, a come mi comportavo nei confronti delle persone che avevo di fronte, alle parole che utilizzavo, alle domande che facevo. Non che questa attenzione sia sbagliata, anzi, però mancava di quella spontaneità necessaria per costruire rapporti più naturali e veri.
Con il passare dei giorni alcune di queste "resistenze" sono andate scomparendo perché mi sono trovata nelle condizioni di conoscere meglio degli ospiti della piazzetta e del rifugio, come alcuni volontari del refettorio e ciò è stato possibile attraverso l'ascolto.
In queste relazioni è importante essere se stessi, cercando di non avere pregiudizi, ma, nel caso questi ultimi comparissero ugualmente, trovare ciò che di positivo portano le persone che ti trovi di fronte, le loro capacità, i loro punti di forza.
Questo cantiere mi ha permesso  di capire ancora di più l'importanza dell'ascoltare. Quando qualcuno si racconta non è necessario dargli delle risposte o dei suggerimenti, ciò di cui in quel momento ha bisogno è soltanto di sfogarsi, renderti partecipe di alcuni eventi della sua vita, sentirsi compreso e sostenuto. Non sempre una persona si apre subito, in alcuni casi è necessario aspettare del tempo, rendersi disponibili, far capire di essere davvero interessati a lei.
Il sentirsi ascoltati è qualcosa di davvero importante per tutte le persone, più o meno fortunate che siano, e dall'altra parte permette di capire situazioni e comportamenti che prima potevano risultarci incomprensibili o senza senso. »

« 'Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo' (Mt 13,44).
Questo il brano di Vangelo che mi è venuto alla mente quando mi è stato chiesto di scrivere due righe a conclusione della settimana di cantiere milanese. Un tesoro ho trovato. Anzi molti. I miei compagni d'avventura: 6 ragazzi tutti più giovani di me, in gambissima, simpaticissimi (più volte ho detto che se ridire allunga la vita, dopo questa esperienza campero' fino a cent'anni), buoni e generosi da scaldare e allargare anche i cuori più freddi e rattrappiti.
Tesoti sono stati anche i diversi volontari incontrati alla Piazzetta, al Refettorio ambrosiano e al Rifugio: una ricarica di amicia, ospitalità, energia e segni di speranza. E tesori sono stati anche i senza dimora conosciuti in questi giorni. Loro in particolare, gratuitamente mi hanno regalato tempo, storie, verità, dolori, ferite, fragilità, ma anche amicizia, sogni, speranze, ...
E il risultato: un cuore gonfio di gioia. La gioia è infatti il primo tesoro che il Tesoro regala, è il movente che fa camminare, correre, volare. Rientrado a casa desidero comunicare a chiunque incontrero' questa grande gioia! A chi mi chiederà: "Perché l'ho fatto?", rispondero': "per essere felice!". »
I Cantieristi Milano 2017