Mi
sveglio ed a stento riconosco la stanza in cui mi trovo. Poi, quando gli occhi
si abituano all'oscurità, riconosco le pareti di camera mia. Camera mia in
Italia. Ora ricordo: non sono più in Nicaragua. Scendo in cucina per fare
colazione. Apro il frigorifero e mi stupisco nel trovarci tre varietà diverse
di succhi di frutta, acqua naturale e frizzante, latte. Poi c'è il caffè, la
torta, le fette biscottate.
Il ricordo delle colazioni Nicacon
riso e fagioli è così recente che tutta questa possibilità di scelta mi
colpisce. Mi butto in doccia, apro l'acqua e mi ustiono: chi si ricordava
dell'acqua calda? Esco, mi asciugo. Apro l'armadio cercando quelle ciabatte che
mi hanno portato ovunque e mi imbatto in venti paia di scarpe che nemmeno
ricordavo di avere. A pranzo mio papà apre una bottiglia di vino rosso prima,
di bianco poi. Dopo il caffè posso scegliere tra Braulio, grappa, rum, crema di
whisky. Esco con gli amici e non mi ricordavo servissero 4 post su Facebook, 3 gruppi whatsappe 2 instagrammateper organizzare una birra al bar.
Ora, non
voglio fare l'apologia dell'uomo delle caverne e nemmeno una critica dei
consumi. Voglio però dirvi che a Managua ho vissuto con una possibilità di
scelta inferiore e non ne ho sofferto. Ho vissuto una vita più semplice e mi è
piaciuto. Ho capito che ora, seduto comodamente in casa mia, con un cellulare
fin troppo figo con la lavatrice che lava davvero, con macchina e moto a disposizione 24/24, ho sicuramente molta più
possibilità di scelta. Ma per uno strano gioco del destino avere troppa
possibilità di scelta, al posto di liberare, imprigiona. Non saprei dirvi fin
dove è utile e dove incomincia il "troppo". Vale il buonsenso, vale provare. Ps: ovviamente le foto non c'entrano niente. Volevo solo mostrarvi la Stefy 40 secondi prima di cadere da cavallo.
Nella
ricorrenza dei 66 anni dalla cacciata del popolo palestinese, il
ricordo di quei giorni per i palestinesi in Libano è l'occasione per
rivendicare il proprio diritto al ritorno. E per trasmetterne la
memoria alle nuove generazioni.
Speravano
di celebrare l'anniversario della Nakba, il giorno della catasfrofe,
a Maroun
al-Ras, all'estremo sud del Libano, pochi metri dal confine con
Israele. “Da
lì possiamo almeno vedere la Palestina; molti dei nostri villaggi
sorgevano proprio a pochi passi dal confine odierno”
tengono a precisare gli anziani del campo di Beddawi, nel nord del
Libano vicino a Tripoli. Ma da tre anni a questa parte la General
security libanese non rilascia ai palestinesi il permesso per
manifestare alla frontiera: nel 2011 una decina di manifestanti sono
stati freddati dall'esercito israeliano durante le manifestazioni e
da allora lo stato libanese ritiene pericoloso ed instabile
permettere la commemorazione della Nakba a pochi metri dai mitra
israeliani.
I
discendenti di quelle famiglie fuggite in Libano durante l'offensiva
sionista ad oggi oggi sono più di 450.000 persone, per lo più
rinchiusi nei 12 campi ufficiali gestiti dall'UNRWA, l'agenzia delle
Nazioni unite che si occupa di assistenza e tutela dei rifugiati
palestinesi in Medio Oriente. Il 66esimo anniversario della Nakba
giunge in un momento particolarmente critico che risente anche del
vicino conflitto siriano: l'atmosfera in molti dei campi, in
particolare in quelli attorno a Sidone, è particolarmente tesa
anche per l'arrivo di decine di migliaia palestinesi presenti in
Siria dal 1948.
Nel
campo di Beddawi, 5 km da Tripoli, ai circa 40.000 PRLs ( palestinian
refugees from Lebanon) si sono aggiunti più di 10.000 persone in
fuga della Siria, molti di loro provenienti dal purtroppo celebre
campo di Yarmouk. 50.000 persone in poco più di un metro quadro: un
sovraffollamento spaventoso in un ambiente privo di qualsiasi
servizio e caratterizzato da condizioni di vita ai limiti dell'umano.
Alla
vigilia della ricorrenza della Nakba, a Beddawi la tensione sembra
scomparire, per lasciar spazio al ricordo e alla ricorrenza
dell'evento che ancora oggi condiziona pesantemente il vivere
quotidiano dei circa 5 milioni palestinesi dispersi per il globo.
Complice
anche il rifiuto delle autorità libanesi, le circa 20 NGOs presenti
hanno deciso di comune accordo di dedicare l'anniversario ai bambini
del campo, che ormai costituiscono la terza generazione di
popolazione nata al di fuori della Palestina.
“Proprio
per tenere viva la memoria di quei giorni ed per riaffermare diritto
al ritorno nella propria terra abbiamo deciso di mostrare alle
giovani generazioni del campo cosa significhi Palestina” tengono a
precisare gli organizzatori.
Lungo
un vicolo posto tra due scuole dell'UNRWA è un moltiplicarsi di
volti, fotografie, mappe, così come vestiti e strumenti tradizionali
palestinesi. Decine di donne anziane, poco più che bambine nel '48,
spiegano minuziosamente ai bambini l'utilizzo del ferro da stiro a
carbone e la modalità di produzione del burro secondo i dettami
antichi . A pochi metri di distanza, all'ombra di un'enorme bandiera
palestinese appositamente sistemata sopra il vicolo, i bambini hanno
la possibilità di assaggiare gli immancabili falafel. Lungo il
vicolo, si susseguono centinaia di immagini e slogan inneggianti al
diritto al ritorno e alla liberazione dall'occupazione sionista.
Accanto, fotografie in bianco e nero testimoniano la vita delle
famiglie palestinesi prima della Nakba. Con gli stereo a diffondere
nell'aria canzoni tradizionali palestinesi , sembra quasi di
assistere ad una festa.
“ Non
è una festa, ma una celebrazione”
tiene a precisare Abu Atef, il responsabile del campo per Beit
Atfal Assomoud (la casa dei bambini: resistenza),
una delle principali ONG che ha organizzato questa giornata. “Non
c'è nulla da festeggiare, - prosegue – dopo 66 anni siamo ancora
qui, ospiti di uno Stato che ci ospita ma che non è casa nostra. Se
ne avessimo la possibilità, tutti quanti partiremmo oggi stesso
verso la Palestina solo con i nostri vestiti indosso.”
Sull'obiezione secondo cui un ritorno, sancito da diverse fonti di
diritto internazionale, sarebbe impraticabile nei fatti, Abu Atef
sembra aver chiare le idee: “ Il
villaggio da cui viene la mia famiglia, Al-Buwayziyya,
è stato completamente raso al suolo dalle bande sioniste nel '48:
delle circa 2500 persone di allora a oggi non rimane altro che dei
muri di una casa in mezzo alle sterparglie. Potremmo ricostruire e
tornare ad abitare a casa nostra.”
Sui
rapporti con Israele e su eventuali compromessi, Abu Atef è
inflessibile: “Nessuna
negoziazione con chi occupa la nostra terra. Voi italiani dovete
chiedere il permesso a qualcuno per tornare a casa?”.
Continua: “torneremo;
se non sarò io a farlo saranno i miei nipoti. Proprio per questa
ragione commemorazioni come quelle odierne sono fondamentali sia per
il passato che in prospettiva futura: il ricordo della Nakba è la
logica di tutto. Provate a chiedere ad ogni bambino nel campo: ognuno
sa indicare esattamente dove si trova il villaggio natale della
propria famiglia in Palestina”.
E
quasi a conferma di ciò, tra l'emozione generale e gli occhi lucidi
dei nonni, i bambini tornando verso casa cantano a gran voce
l'attaccamento alle proprie radici: i vicoli angusti del campo
risuonano al grido di: “Berroach
beddaam naftiiki a-Falestiin”.
“Con
tutto il nostro cuore e con tutto il nostro sangue ti libereremo,
Palestina”.
Prima di salutare il Nicaragua per 3 settimane di pausa, formazione e servizio a Milano, mi sento di condividere con voi un pensiero che da ormai molto tempo svolazza nella mia testa. Ovvero, sono sempre più convinto che noi essere umani ci troviamo su questa Terra per la più semplice delle ragioni: vivere a pieno le relazioni che abbiamo la fortuna di incontrare sul nostro cammino.
La Treccani definisce il termine relazione come: "Connessione o corrispondenza che intercorre, in modo essenziale o accidentale, tra due o più enti (oggetti e fatti, situazioni e attività, persone e gruppi, istituzioni e categorie, fenomeni, grandezze, valori, ecc...)".
Quello che la Treccani però non definisce è la possibilità di poter sceglierel'intensità di questa connessione. E che dire... io questa possibilità, tra i miei alti e bassi, cerco sempre con voglia e determinazione di trasformarla in un'intensità di relazione altamente felice!
Quando decisi di fare domanda per questa esperienza, quando mi comunicarono di essere stato selezionato, quando condivisi i miei pensieri durante la formazione pre-partenza e persino quando mi ritrovai seduto sull'aereo che mi avrebbe portato qui in Nicaragua non avevo molte aspettative ma una sola certezza: "Sarà un anno particolare e complesso ma sicuramente stimolante, felice ed entusiasmante!".
Dopo questi primi 3 mesi sono assolutamente in grado di affermare che avevo torto... E' stato molto ma molto più particolare, complesso, stimolante, felice ed entusiasmante di quanto avrei mai potuto immaginare! E tutto questo lo devo soprattutto alle relazioni che cerco di coltivare al meglio durante tutte le mie giornate.
Il fatto è che, come dice il carissimo Roberto Benigni in "La tigre e la neve", per godersi a pieno ogni attimo di vita ed ogni relazione bisogna innamorarsi...
"Innamoratevi!
Se non vi innamorate è tutto morto.
Vi dovete innamorare e diventa tutto vivo, si muove tutto.
Dilapidate la gioia, sperperate l'allegria.
Siate tristi e taciturni con l'esuberanza.
Fate soffiare in faccia alla gente la felicità.
Per trasmettere la felicità bisogna essere felici e per trasmettere il dolore bisogna essere felici.
Siate felici!"
... ed io, qui in Nicaragua, mi sono innamorato e mi sento felice!
Mi sono innamorato dei miei compagni di viaggio e dell'amicizia creatasi con tutte le stravaganze, le risate, le problematiche, gli innumerevoli pregi e i difetti personali.
Mi sono innamorato di Managua, una città senza centro (ri)costruita senza un'apparente logica, dei cassoni dei pick up e della misa campesina.
Mi sono innamorato dei miei vicini di casa, della pulperia di Luis, del collegio di Las Brisas, della parada dell'autobus che mi accoglie ad ogni viaggio, dei tassisti più o meno normali che mi hanno scarrozzato in ogni dove, di Claudia e Cicly del Todo Asado, di Erick il vigilante e Josè il senzatetto che «sniffa» benzina tutto il giorno ma è sempre e pronto a scambiare due chiacchiere su qualsiasi argomento e senza chiederti nulla in cambio.
Mi sono innamorato di Edu che vende «Agua y gas», dei venditori ambulanti che passano per las calles gridando ogni tipo di pietanza, bevanda e mestiere; delle cassiere dei supermercati, dei ragazzi della ferramenta, delle donne dei mercati che ti salutano con "Hola mi amor! Cosa estas buscando?", degli autobus molto più che sovraffollati, dei viaggi tanto scomodi quanto incredibilmente divertenti.
Mi sono innamorato nuovamente della mia famiglia, dei miei amici, di conoscenti, di sconosciuti e di tutte le persone che ho salutato prima di partire ma che sento sempre vicino durante le mie giornate.
Mi sono innamorato dei concerti musicali di ogni genere, del ballo e degli spettacoli teatrali.
Mi sono innamorato delle indicazioni stradali folli e affascinanti al posto delle vie, dei tantissimi murales in giro per le città, del grido «Agua agua agua" a Ciudad Sandino, del barrio Nueva Vida e di tutta la sua popolazione.
Mi sono innamorato del refresco flor de jamaica, del ron flor de cana, del gallo pinto e del queso frito.
Mi sono innamorato della comida di Silvya e Irma cucinata nel Ranchon, dei sorrisi bellissimi di Heysel e sua madre (ragazza madre), dei colleghi, dei lavoratori, di tutti i bambini, dei ragazzi del Grupo de Los Jovenes Promotores di Redes de Solidaridad, dei custodi, dei giardinieri, delle signore della limpieza, delle professoresse, dello staff ed i ragazzi di El Guis.
Mi sono innamorato delle serate con i numerosi amici e amiche nicaraguensi, guatemaltechi, statunitensi, australiani, italiani, ecc... dell'oceano, del surf, delle spiagge, dei tramonti, dei vulcani, delle lagune, di tutto l'ambiente naturale, delle città storiche, del passato e della cultura di questo continente.
Mi sono innamorato persino del caldissimo sole, dei manifesti di «Daniel», delle prime piogge e delle scosse di terremoto, della stanchezza di fine giornata, delle storie e gli attimi di vita che ti spaccano il cuore, dei miei dubbi, delle mie difficoltà, dei miei immensi attimi di gioia, delle mille domande che rimettono sempre e comunque in discussione la mia persona, il mio stile di vita, le mie sicurezze, le mie credenze, il mio passato, il mio presente e il mio futuro.
In tutto questo oceano di emozioni ho cercato di costruire e coltivare relazioni che mi hanno aiutato a vivere a pieno questi primi 3 mesi di esperienza. Contando che me ne mancano altri 7...
Che dire...
Questa esperienza non sarà sicuramente solo rose e fiori però, per ora, CHE ROSE E CHE FIORI RAGAZZI! :)
Un saluto e un abbraccio fortissimo a tutti voi,
con affetto
Personalmente avrei condiviso con voi, lettori del blog, solo questa poesia… che davvero dice tanto del mio periodo qui, della Moldova per me, dei miei compagni e degli amici a casa.
Però capisco che possa esserci curiosità nella scelta di queste parole, quindi proverò a spiegarla un pochino. Anche se poi, ognuno di voi, è libero di lasciarsi toccare, ispirare, stimolare, colpire, annoiare.. insomma quello che vuole da questa poesia di Luigi Verdi, tratta da “Il domani avrà i tuoi occhi” e dal quadro di Maria Silva, illustratrice(http://silva-maria.blogspot.com/ )
Colgo l’occasione per ringraziare quest’artista ma soprattutto quest’Amica, che con le sue doti artistiche è capace di esprimere sentimenti, emozioni, pensieri attraverso il colore e le forme! Sono contenta di aver trovato tra i suoi lavori un quadro che raccontasse questa poesia e ciò che provo!.. quindi più che le mie parole, guardate bene questo quadro che da solo parla!
TRA IL DIRE E IL FARE... COMINCIO!
Ogni volta è un cominciare:
Si comincia svegliandosi e preparandosi alla giornata tra moke del caffè che ci mettono un quarto d’ora a salire, thè troppo caldi per essere bevuti in tempi realistici, accordi logistici per utilizzare il bagno.. e finire poi per lavarsi i denti in cucina!... uscire di casa senza lo zaino, rischiando di essere investiti e infine perdere il microbus perché si sa, se l’autista ti vede e ha voglia di fermarsi allora forse si può andare a lavoro.. e finalmente arrivare in Diaconia, con il minor ritardo possibile!
Si comincia col servizio con la “şedinţă” del lunedì, le attività del martedì, il buco nero del mercoledì, l’equipe del giovedì, il venerdì delle “ultime” cose da fare prima del week-end, il tutto condito da 2/3 lezioni di rumeno che ci portano ogni volta a dire “dobbiamo studiare di più!”, “oh torniamo a casa e stasera si studia”, “dai dai guardiamoci un film con sottotitoli rumeni che aiuta”!
Si comincia con il rientro a casa, con la gattina che ogni volta ne ha una: pulci, diarrea, fame, mancanza di affetto; con la casa che nonostante i tentativi di turnazione, non è mai in ordine; con il frigo sempre vuoto o quasi, dipende dai punti di vista; con la vicina che ti chiude fuori perché non l’ha ancora capito che abitiamo vicini e se chiude la porta non possiamo rientrare e ci tocca scavalcare!
Per questo tra il Dire il Fare, si comincia!
CERCANDO DI RESISTERE… ai problemi logistici (prima o poi il sistema dei trasporti moldavi cambierà, lo so! Così i pedoni non rischieranno più la vita!), a quelli abitativi (prima o poi troveremo il giusto compromesso o meglio la giusta negoziazione.. per tutto!), ai dilemmi culturali (prima o poi capirò come fanno le moldave ad essere così magre e ad andarsene allegramente in giro con un simpatico tacco 12 sempre e comunque!), alle incomprensioni linguistiche (primo o poi lo impareremo il rumeno e poi saranno fatti loro!)
Ovviamente con PAZIENZA!
E di questa devo ricordarmi che ce ne vuole davvero tanta...
Pazienza con me stessa, perché non sempre le cose vanno come le pianifico io, non sempre ho la capacità di accogliere come vorrei, non sempre so aspettare quello che di nuovo e inatteso può arrivare, non sempre vivo con fiducia. E allora ci provo, se non ci riesco sempre, provo a farlo almeno oggi, e Ri-Comincio.
Pazienza con chi è un'Altro da me per storia personale, carattere, opinioni, gusti, background culturale e molto altro. Quella diversità che porta ricchezza ma anche fatica, a volte tanta!
Pazienza con un Paese che non è l’Italia, non è l’Europa, non è casa ma è la Moldova, è una ex Repubblica dell’Unione Sovietica, è un paese indipendente da poco più di vent’anni e che ancora oggi si chiede quale sia la sua identità, è un paese ancora da costruire!
Cercando di FAR DURARE L'OLIO DELLA LAMPADA … perché al buio solitamente non ci si fida, ogni cosa diventa scura e indefinita. La Lampada invece ti da la possibilità di vedere sotto una luce, fortunatamente, Nuova e Diversa tutto ciò che ti circonda!
COME UN CONTADINO DEVOTO.. in un Paese la cui vita è principalmente rurale, questo contadino rimane devoto ai villaggi semplici e essenziali, alla campagna selvaggia e bucolica, ai pozzi a cui attingere l’acqua, alle caprette legate al bordo della strada…
E allora ti chiedi davvero se i contadini moldavi ne sono felici, se questa vita l’hanno scelta oppure se ne sono un po’ costretti perché di alternative non ce ne sono molte… quella terra la amano? O se potessero lascerebbero tutto per un lavoro in città?
Io le risposte a queste domande non ce le ho, quello che so è che loro zappano, seminano e sperano!
E questo a me basta per dire che, nonostante tutte le condizioni, ognuno di noi puo' TORNARE TERRA e se lo desidera impegnarsi per essere una terra INNAMORATA.
Spero di avervi raccontato qualcosina di qui!
A presto
Patty
Tra le cose più divertenti di Managua ci sono gli indirizzi.
Qui non esistono le nostre Via Roma, Via Gramsci o Vicolo Matteotti.
O meglio, le vie dotate di nome sono solo le vie principali come per esempio Avenida Bolivar.
Come ci si può dunque orientare nel labirinto di quartieri che costituisce la città?
Molto semplice, si ragiona come un gioco in scatola.
Se, per esempio, dovessimo raggiungere El rincon cuscatleco, un ottimo ristorantino di Managua, per sapere l'indirizzo si fa così:
Si prende un punto di riferimento abbastanza conosciuto nella zona del luogo da raggiungere (in questo caso l'Optica Nicaraguense, un negozio)
Ragionando per "cuadre" ( una cuadra è un isolato) si indicano quante se ne devono percorrere per raggiungere l'indirizzo desiderato.
Sembra facile? vi consiglio un cauto ottimismo, ancora non è arrivato il meglio.
Ora sappiamo dunque che l'indirizzo è composto da un punto di riferimento abbastanza conosciuto e dal numero di isolati da percorrere per arrivarci.
Ma la direzione in cui incamminarsi? dal punto di riferimento da che parte vado?
Da qui in avanti è una dura lotta tra "scuole di pensiero".
C'è la SCUOLA ACCADEMICA composta da chi indica il Nord, Sud, Est, Ovest.
Per quanto sia un sistema quasi certo, non è sempre semplice capire dove rimangono i punti cardinali (soprattutto se non hai a disposizione una bussola o non hai una rosa dei venti tatuata sul braccio). Esempio: Dall'ottica nicaraguense 1 cuadra all'est e due al nord
Un'altra scuola diffusa è quella detta GEOGRAFICA ALL'INCIRCA. Sostanzialmente sostituisce i quattro punti cardinali con: Arriba, Abajo e a Lago. (Sopra, Sotto, Al lago)
Come potrete notare già i conti non tornano: se il lago sostituisce sicuramente il Nord, cosa sostituiscano il sopra e il sotto non l'ho ancora capito (anche se ho chiari indizi che portano a pensare all'est e all'ovest). Rimane comunque scoperto il Sud. Insomma, un disastro.
Il nostro Rincon Cuscatleco adesso rimarrebbe: dall'ottica nicaraguense 1 cuadra abajo e 1 a lago.
Ma la cosa ancora più divertente è che questa tipologia di indicare gli indirizzi è molto antica ed è quindi molto probabile che alcuni punti di riferimento non esistano più. Per esempio un negozio può essere fallito o essersi spostato, una rotonda può aver cambiato nome o una statua può essere stata abbattuta. Come si fa? nessun problema, le direzioni sono retroattive qui. Il nostro indirizzo diventa: da dove fu l'ottica nicaraguense 1 cuadra abajo e 1 a lago.
Tra i tassisti di Managua gira una storia molto carina in merito.
Nel barrio Ruben Dario un tempo c'era un albero molto grande da dove, ovviamente, tutti partivano per indicare gli indirizzi. Tanto che, quando il piano di urbanizzazione pianificò di costruire una strada che passasse per di lì, il grande albero venne salvaguardato nonostante fosse proprio nel mezzo della strada. Sarebbe stato un disastro togliere quell'albero poichè tutti gli indirizzi avrebbero dovuto essere cambiati.
Accadde però che un giorno un autista sbadato si schiantò contro l'albero e lo sradicò. Non era difficile da immaginare, direte voi: se lasci un albero nel bel mezzo della strada prima o poi qualcuno ci andrà a sbattere. Sono abbastanza d'accordo. Cosa accadde? il giorno dopo venne piantato un nuovo albero, molto più piccolo. Gli indirizzi quasi non cambiarono, solo dal prendere come punto di riferimento "l'albero" da quel giorno si cambio con "dall'alberello".
Per pasqua abbiamo deciso di andare a trovare Eugenio Coter,
ora vescovo di Pando e precedentemente ex-direttore di Caritas Cochabamba.
L’avevamo conosciuto in occasione della conferenza episcopale boliviana che si
era tenuta qui a Cochabamba, così alla prima occasione lo abbiamo raggiunto.
Il pando è la regione più a nord della Bolivia, la più
lontana dalla civiltà e la più povera. Confina con Perù e Brasile ed è
completamente immersa nella foresta amazzonica, la quale si estende a perdita
d’occhio per chilometri e chilometri in un afoso piattume. Ad interromperla ci
sono solo gli sconfinati fiumi, come il Madre de Dios e gli immensi pascoli. Un
tempo l’economia principale del Pando erano gli alberi da gomma e l’allevamento,
ora è ben altro.
Dall’aereo, Cobija quasi non si vede, si scorge solo qualche
tetto di lamiera e paglia che sbuca dagli alberi. L’aeroporto quasi non esiste,
c’è soltanto una pista da cui gli aerei decollano e atterrano, la struttura è
una capannona circolare in cemento e paglia con un gate per chi arriva e un
gate per chi parte. A garantire i collegamenti con la città ci sono solo un paio di
voli di linea,neanche tutti i giorni e gli aereo taxi, piccoli aerei da turismo. Via
terra c’è solo unagrande strada che la
collega con il resto del paese, ma questa strada, per metà dell'anno non è
percorribile a causa delle forti piogge e per l'altra metà a causa dei
bloqueos organizzati dai sindacati.
Per le strade della città, la cui maggioranza è in terra
battuta, si muove qualche macchina, ma soprattutto moto e i famosissimi moto
taxi. A vederla di giorno sembra una città fantasma, il forte caldo afoso tiene
al chiuso e all’ombra la maggior parte della gente, ma non è che alla sera ci sia molto più movimento.
Cobija, capoluogo del Pando, voluta li, nell’angolo più a
nord e remoto della Bolivia da un gruppo di famiglie di commercianti, che
vedevano negli scambi con il Brasile il futuro per l’economia locale, ma
soprattutto il futuro della propria economia. Per questo motivo Cobija ora è
porto franco, non si pagano le tasse sulle importazioni di certi prodotti e i
controlli alla frontiera sono…beh…diciamo che quasi non ci sono, noi siamo
entrati e usciti dal Brasile senza che nessuno neanche ci guardasse.
Cobija è semi-isolata dal mondo, e la posizione che doveva garantirle floridi commerci ora la rende buona per un solo tipo di commercio. Da li infatti passa la
ruta nacional 18, che diventa la ruta nacional 13, e che va dal confine con il
Perù al confine con il Brasile, passando appunto da Cobija,
dove non fanno controlli…una vera pacchia per i narcos… Parlando con gli
abitanti, se si ha pazienza e se si è bravi nell’ascoltare, non è assolutamente
raro sentire racconti di vecchi compagni di scuola che sono scomparsi
o che vivono consumati dalla droga.
Gli abitanti del Pando sono diversi da quelli di Cochabamba.
Le differenze sono molto marcate. Si parte dal fatto che non si sopportano
vicendevolmente, i pandini chiamano i cochalos collas e i cochabambini chiamano i pandini cambas. Entrambe le definizioni si riferiscono alla differente provenienza territoriale e culturale e non hanno propriamente il tono di un
complimento. Si prosegue con le differenze fisiche, i tratti del viso sono
diversissimi a causa della mescolanza con i brasiliani. Sempre per lo stesso
motivo aumenta la taglia, la gente è più alta e più slanciata. Infine le
differenze culturali. Nel pando,a primo impatto,sembrano più aperti rispetto
alle zone andine, fanno molta più caciara e ti danno l’impressione di
accoglierti più favorevolmente. Parlano, hanno bisogno di parlare, ma non è facile
che ti dicano la verità, non è facile che ti dicano quello che sentono
veramente, e non è facile che ti parlino dei problemi della loro terra; gli
viene molto più facile dirti che il Pando è più bello della zona andina, quanto
loro siano più simpatici e di come tutto stia cambiando in fretta in questi
anni. Però basta fare un po’ di attenzione per accorgersi di quello che non va.
I silenzi o le cose non dette non sono frutto di mancanza di consapevolezza, ma
bensì di una quasi rassegnazione, di non voler pensare sempre ai problemi, di
pensare anche ad altro. Senza contare l’ancestrale diffidenza verso i gringos,che per troppi anni sono venuti
nella loro terra per imbrogliarli o per portargliela via.
Le cose le si
vengono a sapere soprattutto da chi lavora a stretto contatto con la gente e
gode di una maggior consapevolezza, come i parroci, i preti, i religiosi ma non
solo, c’è anche qualche difensore del pueblo,qualche volontario ( anche
boliviani). Così ti raccontano che si trovano carceri dove il
60% degli ospiti è dentro per narcotraffico, il 30% per violenza su donne o
minori, il 10% per reati comuni e dove si può incontrare una donna che si è
presa la minima per aver rubato un cellulare e che probabilmente uscirà dopo a qualche narcos o qualche ricco amico di qualche politico, che chiaramente hanno i soldi per accorciarsi la pena… oppure, ti raccontano di come lo scandalo del momento sia
stato trovare nella migliore scuola della città ragazzini dediti allo spaccio e
al consumo di droga.
La condizione generale è di marcata povertà, le case sono di
legno, che in quella zona abbonda, con i tetti in paglia o in lamiera. La
stragrande maggioranza è sprovvista di acqua e servizi igienici, i vetri alle
finestre non sono necessari a causa del clima, ma molte ventanas sono
sprovviste di zanzariere, esponendo chi ci abita alle punture dei vari insetti,
alcuni dei quali portatori della dengue.
La vista delle case, a volte delle vere e proprie ville, di chi ha soldi,
perché narcotrafficante o governativo, spingono molti a migrare, a cercare
fortuna da altre parti. Ma uscire dal Pando non è possibile per tutti. Il
passaggio aereo è molto caro e addirittura anche le quattro ruote, per alcuni, sono
proibitive. Inoltre non tutti se la sentono di abbandonare il
luogo dove sono nati, dove sono cresciuti e dove nel bene o nel male sanno di
godere dell’appoggio di una famiglia o di amici, o se non hanno né amici né
famiglia, almeno sanno di conoscere l'ambiente, per andare verso un futuro
incerto. Così in tanti rimangono e finiscono delle trame del narcotraffico,
anche da giovanissimi, o si guadagnano da vivere con piccoli espedienti, come
il mercado negro, o i niños che popolano il piccolo aeroporto, che con aria
irreverente e con tono di sfida, per qualche bolivianos si offrono di portare
bagagli pesantissimi fino al taxi.
La disgregazione della famiglia e della società,
il narcotraffico e la violenza affliggono il Pando, come tutta la Bolivia, chi
lo sa cogliere, per chi sa osservare con pazienza, perfino in questa terra di
pescatori e di gente legata alla terra, si può trovare un messaggio di
speranza. Lo si trova in tutti gli operatori di pace che dedicano la loro vita
al prossimo, come padre Eugenio, come i tanti religiosi e volontari, sia stranieri
che boliviani o in tutte le persone comuni che sono disposte ad aiutarti come
possono, indicandoti la strada, spiegandoti come funzionano i mezzi locali o
semplicemente rivolgendoti la parola con un sorriso e facendoti sentire un po' meno straniero.
Sì lo so non scrivo sul blog da più di un mese… … … che fine
ho fatto? Sono semplicemente occupata a VIVERE ☺
Ne sono successe di cose da queste parti… mi pare di essere
qui da una vita e a allo stesso momento il tempo mi scivola via fra le dita e
mi pare di non riuscire ad afferrare nulla, di non mettere radici da nessuna
parte… di camminare senza lasciare traccia. Anzi sono gli eventi esterni, le
persone che camminano con me che lasciano in me una scia, che si radica e mi
smuove tutta.
A volte, quando riesco a fermarmi, penso: «sono davvero qui,
è realtà! Sono partita, ce l’ho fatta!» chi mi conosce sa da quanto progettavo
di uscire di casa, di uscire dal mio paese d’origine per scomodarmi, per non dare
tutto per scontato, per arrangiarmi. E ora sto vivendo il tanto agognato
viaggio… sì, perché qui è un continuo viaggiare, muoversi, peregrinare, tutto
intorno e dentro me danza un moto perpetuo.
Il mio stomaco si contorce e la mia
mente corre veloce come non mai…i miei pensieri non mi danno tregua, si
rincorrono e fanno a gara a chi mi prosciugherà di più le energie. Eh già
perché la sera, quando rientro a casa dopo l’intera giornata passata fuori, non
provo una stanchezza riferita tanto al duro lavoro fatto o alla fatica fisica
fatta… è una stanchezza diversa, di quella che ti emoziona, che ti prende
dentro, ti ribalta tutto, un tacito sconvolgimento interiore pervade le mie
membra e non mi lascia stare. La difficoltà di mettere in ordine le emozioni, i
pensieri…. la stanchezza delle idee che ti solleticano e ti danno tanti
schiaffi al cervello, come si diceva un paio di mesi fa alla formazione SCE2014
in quel di Rho ;)
Posso dire ce l’ho fatta…fin qui tutto bene, qui ci sono
arrivata. Volevo darmi da fare in un contesto che non fosse conosciuto, dove le
persone non dicono “ah sì la conosciamo, tanto lei è brava”, dove la
quotidianità, le tue abitudini, i tuoi hobbies, le reti relazionali a cui eri abituata
non ci sono più, tutto va ricostruito da zero. Dove non c’è nessuno che
anticipa le tue mosse o che ti facilita perché ti conosce e sa come prenderti,
come potresti reagire: un fascio di nervi scoperti, ecco come mi sento spesso!
Devo dire, senza nessuna remora, che non sono mancati gli
eventi, le persone, le situazioni che mi hanno messo a confronto con i miei
limiti, con le mie debolezze e pochezze. Qui non ci sono tutte quelle attività
conosciute, tutte quelle persone che ti conoscono e vedono come ti comporti,
come agisci e ti restituiscono la bravura, l’efficienza di quello che fai. Qua
sto sperimentando la bellezza di essere l’ultima arrivata, di essere anche
inutile in molti momenti…di essere ULTIMA.
Come mi sento qui? Mi sento straniera ogni volta che mi
guardano perché mi si legge in faccia che non sono boliviana, sui trufi i bimbi
ti guardano, qualche adulto ti fissa e poi distoglie lo sguardo. Qui non sono
l’educatrice degli ado dell’oratorio, qui non sono l’unica operatrice donna del
Drop In, qui non sono sorella di nessuno, non sono l’Amica di nessuno, non sono
la ragazza di nessuno, non sono … non sono…
E allora chi sono? Sull’allucinante burocrazia che stiamo
seguendo per riuscire ad avere il permesso di stare in questo paese per più di
90 giorni, c’è scritto che sono una Misionera Laica Voluntaria de Pastoral
Social Caritas, al servicio de la Iglesia Católica en la Jurisdicción del
Arzobispado de Cochabamba.
Questo è quello che sono formalmente, ma sono anche la
“preciosa” secondo l’Hermana Maria de los Angeles, responsabile della pastorale
penitenziaria; sono anche l’affittuaria dell’appartamento di Karem e Rony, sono
la “chica” come a volte dice il Gringo. Sono “Cris” come qui tutti mi chiamano confidenzialmente,
sono semplicemente la volontaria di Caritas, sono “Italia” come mi chiama Frank
il cubano del Guantanamera dove maldestramente provo a ballare la salsa il
sabato sera; sono “piccolina” come mi chiama il collega Willy, sono “el rincon
de aseo” della classe dei piccoli della scuola di Molle Molle…sono quella con i
capelli particolari per le bimbe del carcere di San Sebastian.
Quello che voglio dire ovviamente non è che qui ho perso la
mia identità e non sono più quella di prima… ma gli occhi che si posano su di
me hanno alle spalle storie nuove, diverse, sconosciute… e la prospettiva che
si ha su di me cambia. I ruoli cambiano, tutto va rimesso sulla tavola e
rigiocato, tutto va ridefinito. Certo che sono ancora io, Cristina, Croi col sole in fronte, con
tutta la mia storia, le mie persone care, i pezzi della mia vita, ma con quello
sforzo in più di non scordare tutto questo, di ricordare da dove vengo e perché
sono qui.. di trovare il mio posto, il mio ruolo in questa nuova dimensione.
E quando sei tu la straniera raccogli anche curiosità e le persone
interessate ti fanno un sacco di domande e quasi ti senti una vip! E quando mi
fanno domande sul mio paese mi accorgo di essere una capra e di non essermi mai
posta una serie di interrogativi. Sto vivendo con più consapevolezza
Cochabamba che la mia città natale, spinta dall'irrefrenabile desiderio di riuscire a cogliere tutto,
di capire tutto, l’economia, la politica, i problemi sociali della città,
dell’intero paese…le dinamiche che scatenano i cambiamenti sociali.. e allora
pensi che quando tornerai a casa vorrai vivere con più coscienza il contesto in
cui ti trovi e vorrai conoscere di più, girare di più, non fermarti alla prima
impressione, non accontentarti del racconto di qualcun altro. Vorrai sempre più
vedere con i tuoi occhi, toccare con le tue mani, ascoltare più campane per
riuscire a farti un’idea, la più oggettiva o la più verosimile possibile, e la più
equa. Inoltre la distanza ti fa accorgere di tutto quello che possiedi, della ricchezza
inestimabile della tua vita… e delle volte in cui vivi in modo approssimativo.
Ecco perché ancora non riesco a scrivere, non riesco a raccontare
di questo posto, di quello che vivo. Perché ho bisogno di tempo per tuffarmici
dentro, per farmi un’idea ampia, per ascoltare più voci, per gustare più sapori,
per sentire più odori, per scandalizzarmi, per gioire, per rimanere basita, per
arrabbiarmi, per rasserenarmi, per interrogarmi, per trovare le parole, per intrecciare cammini diversi, per sforzarmi, per carpire la sfumatura, per far finta di niente… per accettare di non capire...per VIVERE LA VITA nel mio nuovo qui ed ora,
dentro il quale a volte non mi raccapezzo perché ci sono cose che stridono e
che si contraddicono nel giro di due secondi. Però… MI PIACE!
verso l'infinito...e oltreeeeee! camminando verso l'alto...
Il bello è che
tutto questo rimescolio mi affascina e mi intriga! Mi fa stare in tensione, orecchie, occhi, cuore ben aperti. Volevo decostruire la mia
vita, per... creare qualcosa di nuovo? Mmm.. non so, sicuramente per rimettere in
circolo energie, per non rimanere seduta….infine per tornare a ricomporre il
tutto.. ed eccomi qua!
MI SENTO VIVA E CONSAPEVOLE COME NON MAI DEL MIO STARE! Con
tutte le perplessità del caso ;)
E credo che molto presto riuscirò a restituire la complessità di questo posto...
Infine, condivido questa canzone che credo rispecchi proprio quello
che sto vivendo!!!
C'è SOLELUNA dentro di me, c'è l'acqua e c'è il fuoco, c'è notte,
giorno, terra e mare, c'è troppo e c'è poco! Certe sere amico mio
mi viene in
mente come certe sere
prima di dormire io ripenso a quanto è complicato il cuore
e dico lo sa solo Dio come è difficile andare fino in fondo
nelle scelte che si fanno come è difficile restare al mondo
vivere coerentemente vivere in mezzo alla gente scegliere quello che è
buono
distribuire agli amici il perdono..
E grazie per il sostegno che ricevo da lontano ma che sento così vicino!