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lunedì 19 agosto 2019

Kenya. L'Araba fenice

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to become a good person and to change; I want to go to school, to search a job and I want to help my parents to get-out of the poverty”.

Queste poche parole sono la risposta di Camcuria o meglio Ismael, il suo vero nome, alla mia domanda “cosa fai qui?”.
Possono essere parole che estrapolate da un discorso possono sembrare banali, ripetitive. Quante volte sentiamo dire di voler diventare una persona migliore o meglio ancora, di voler cambiare dall’oggi al domani il proprio modo di essere.
Ecco invece questa volta hanno fatto breccia nella mia mente e soprattutto nel mio cuore. Mi rimbombano quotidianamente nel cervello come un assolo di tamburi, bum bum bum, sì perché questa volta lo posso dire forte, è diverso.
In queste prime due settimane a Nairobi ho visto tanta speranza negli occhi di questi ragazzi che mi ha fatto capire veramente che si può ritornare ad essere se stessi e non continuare a vivere (o meglio sopravvivere) con l’etichetta di bad-person che le condizioni di vita ci impongono di essere.
Ismael è uno dei tanti ragazzi che vivono a Kibiko, una scuola di vita incantevole immersa nelle colline della capitale. Perché, come dice padre Maurizio, ognuno di noi ha diritto al bello, soprattutto coloro che di bello nella loro esile vita hanno avuto poco o niente.
Ismael, è bello dirlo, è uno dei tanti. É uno dei tanti che ha voluto e scelto questo percorso, perché al posto suo potrei scrivere Crispine, Njuguna, Nathan, Waylong, Wesley, Francis e tanti altri ancora. Un insieme di nomi, di storie, di vite che fanno credere in questa rinascita. Fanno credere in questa nuova generazione di giovani che vogliono un futuro pieno, ricco di vita e di sogni.
Un ingegnere, un architetto, un musicista, un maestro ballerino, un meccanico, un dottore e persino il papa: questi sono i nostri ragazzi ed è quello che sognano e che io auguro loro davvero con tutto il cuore di raggiungere.
Mi rivedo molto in loro, quella voglia di riscatto, di lasciarsi alle spalle la parte peggiore di se stessi e di cercare il bello, di voler raggiungere il bello.
Perché non importa se W. è dovuto diventare spacciatore per potersi comperare i libri per andare a scuola, l’importante è che guardando quei libri si ricordi della fatica del proprio passato e della forza che sta mettendo in gioco per la sua felicità e per poter finalmente dire ai propri genitori, che ormai non credono più in lui, “ce l’ho fatta anche io!”.


Roberto



lunedì 17 settembre 2018

Nairobi e le sue mille realtà

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Di solito mi risulta semplice raccontare un qualcosa che mi ha colpito ed emozionato; al contrario questa volta qualcosa è cambiato e non riesco a trovare le parole più giuste per esprimere come mi sono sentita e come mi sento ora.
Sapevo che mi sarebbe servito del tempo, al mio rientro, per riuscire a descrivere cosa avessi visto e cosa avessi provato… Ma non pensavo che ogni ricordo mi sarebbe apparso anche in quei momenti più insoliti: magari stai ridendo e scherzando e ad un tratto senza motivo, rivedi difronte a te quei bambini, in mezzo ad un ammasso di sporcizia che rovistano cercando qualsiasi cosa; o camminando per strada ti ritrovi ad accarezzare un piccolo cagnolino e ripensi a tutti quelli randagi che proteggevano quei bambini di strada; o sei sul treno e a fianco a te osservi un gruppo di ragazzi di colore e ti vengono in mente le intere giornate con i tuoi amici di Cafasso a chiacchierare e a ridere; o ancora più semplicemente ti alzi la mattina, sei a casa da sola, c’è silenzio e sono proprio i silenzi che ti riportano a quel mondo a quella vita vissuta per sole tre settimane.
Quello che ho capito è che per un po’ sarà sempre così, si cercherà di ritornare con la mente a quelle situazioni, si cercherà di riviverle e si riproveranno le stesse emozioni perché forse quel mondo ti ha trasmesso cosi tanto che dimenticare sarebbe solo uno spreco.
Sto cercando di immaginarmi ogni giorno trascorso in quella realtà, a ogni testimonianza e incontro ma a dire la verità ho un grande confusione!
Da una parte ricordo le serate insieme ai miei compagni a cantare, a ballare, a giocare a carte.
Ricordo il piccolo safari in bicicletta, forse un po’ deludente per aver visto pochi animali, ma come si fa a non divertirsi quando si è affiancati da persone così fantastiche?!
Ricordo Karura Forest con i ragazzi di Cafasso in cui non eravamo più noi volontari e loro ex detenuti ma un unico gruppo di amici.
Ricordo la prima volta che sono entrata a Kamiti (quartiere carcerario) e quella sensazione che non saprei nemmeno descrivere, di sollievo, come se avessi già capito che quella sarebbe stata la mia casa per tre settimane.
Ricordo il giorno in cui abbiamo “visitato” Napenda Kuishi, è stata una grande, bella sorpresa, forse il giorno che mi ha fatto ricredere su tanti pensieri e che più di tutti mi ha aperto gli occhi. Napenda Kuishi è una piccola comunità, gestita da Padre Maurizio con dei ragazzi che stanno affrontando un percorso rieducativo di un anno e quel giorno non era previsto che rimanessimo a lungo, in realtà per sfortuna/fortuna il pulmino si è guastato e con molta naturalezza, senza pensarci due volte abbiamo deciso di giocare con questi ragazzi. Purtroppo mi è difficile spiegare cosa realmente mi ha entusiasmato e cambiato, forse le parole di Padre Maurizio, forse la sua grande dedizione, forse la sua voglia di cambiare le cose ma soprattutto credo che siano stati quei ragazzi con i loro abbracci, con la loro spontaneità e con la loro dolcezza… a far sì che quel giorno, sia diventato un BEL giorno.

Ora arriva la parte più difficile.
Dall’altra parte ricordo le storie dei ragazzi in carcere, le loro fatiche e le difficoltà nel riuscire ad adattarsi a quella realtà. Ricordo Korogocho dalla messa animata, piena di balli e canti che per qualche istante ti faceva dimenticare di essere in una discarica ma che poi le folate di odori ti riportavano alla realtà in cui ti trovavi.
Ricordo la giornata con Simone e i bambini di strada, ricordo perfettamente i loro disegni, molto diversi da quelli di un semplice bambino italiano; ricordo l’odore della colla e del cherosene... Ricordo lo “sbiascicare” dei bambini che ne facevano uso... Ricordo l’odore pungente dei loro abiti… Ricordo il luogo dove vivevano, sotto un cavalcavia… E infine di quella giornata ricordo soprattutto i bambini della comunità che ci hanno accompagnato al campo per giocare e il loro silenzio alla visione di tutti gli altri ragazzi di strada e chissà magari quale tempo prima potevano essere proprio loro nelle stesse identiche condizioni.
Ricordo le prime volte quando siamo entrati nel carcere minorile maschile, l’ansia e l’imbarazzo per alcune domande inappropriate da parte dei ragazzi.
Ricordo la grande difficoltà nel parlare della mia storia o della mia vita, dei miei banali problemi, al contrario di loro cresciuti troppo in fretta a causa di situazioni o circostanze impensabili.
E ricordo la delusione di quando siamo arrivati all’entrata del carcere femminile, erano giorni che speravamo di entrare per poterle conoscere ma per motivazioni a noi sconosciute non è stato possibile ottenere questo incontro.
L’ingiustizia, l’indifferenza, l’ineguaglianza, il razzismo era e sono alla portata del giorno.
In realtà i giorni in cui mi sono sentita veramente angosciata sono stati pochi rispetto ai sorrisi, agli abbracci, agli scherzi, alle situazioni di conoscenza ma quei momenti sono stati incisivi e lo saranno forse per sempre.

Mi piacerebbe spendere ancora qualche parola per i protagonisti della mia esperienza:

i ragazzi di Cafasso.

Cafasso è una comunità nel quartiere carcerario in cui ragazzi decidono volontariamente di farne parte dopo aver scontato 4 mesi della vita nel carcere minorile di Kamiti. Come ho già detto loro sono stati la nostra famiglia e Cafasso la nostra casa per 3 settimane quindi meritano un grande ringraziamento.



La prima settimana ammetto che personalmente non è stato facile relazionarsi ma il tempo ha cambiato ogni cosa. Sicuramente siamo entrati a far parte delle loro vite come un uragano, probabilmente, per il poco tempo che avevamo a disposizione. Siamo arrivati in dieci bianchi, cosa quasi assurda per loro e già dal secondo giorno eravamo lì, a lavorare, a parlare, a giocare e forse pretendevamo un legame che aveva bisogno di tempo per poter crescere.
Dalla seconda settimana c’è stato un grande cambiamento. Era d’obbligo riuscire a vedere i ragazzi almeno una volta al giorno; giocavamo senza farci problemi, calcio, pallavolo, giochi inventati al momento oppure semplicemente ci sedevamo in un angolo e imparavamo a fare i braccialetti o ancora si parlava di quello che ci passava per la testa. Loro si sono aperti tanto, ci hanno raccontato le loro storie, ma allo stesso tempo ci riempivano di domande così che non eravamo più noi ad intrattenerli ma erano loro che avevano voglia di conoscerci.
La loro preoccupazione maggiore, che iniziava a farsi sentire negli ultimi giorni, era che col tempo potessimo dimenticarli ma in realtà ciò, non potrà mai succedere.

Ringrazio il mio gruppo perché forse è scontato e banale ma senza di loro non sarei riuscita a superare tante difficoltà e non avrei potuto conoscere persone così speciali, ognuno con il proprio carattere, diverso ma conciliabile con tutti gli altri.  
Ringrazio Alice e Giacomo, coloro che hanno intrapreso il percorso di servizio civile, per la loro grande ospitalità, per il loro coraggio, per la loro voglia di mettersi in gioco, per aver organizzato le nostre tre settimane e li auguro un grosso in bocca al lupo per la fine del servizio.
Infine ringrazio la Caritas e i suoi membri perché danno la possibilità di vivere queste esperienze che ti fanno crescere e ti aprono al mondo.

Un abbraccio forte a tutti.

Francesca.



lunedì 25 dicembre 2017

Kenya: Buon Natale a tutti, davvero

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Buon Natale a tutti, davvero.

Buon Natale a Simon, che passerà il suo 15esimo compleanno a giocare a pallone tra le mura di un carcere minorile. Buon Natale al commerciante del negozio di telefoni che ha scoperto Simon con le mani nel sacco, che lo ha chiuso in uno stanzino fino all’arrivo della polizia. Buon Natale alla folla inferocita che si è divertita a pestarlo per rendergli meno noiosa l’attesa delle manette; a pestarlo con le stesse mani che oggi usano per scambiarsi la pace in chiese fatiscenti ma vive, in comunità povere ma gioiose. Buon Natale al giudice che tra una settimana dovrà emettere la sentenza sul caso di Simon.

Buon Natale al padre di Simon, ovunque egli sia. Chissà com’è non aver mai potuto conoscere il proprio padre e non averne mai sentito la voce ed i rimproveri. Chissà come dev’essere continuarsi a chiedere, come fa continuamente Simon, quali siano le ragioni che possano aver spinto suo padre a svanire nel nulla. Buon Natale alla madre di Simon, rimasta sola a prendersi cura di 9 bambini, un compito che da qualche parte può risultare difficile, mentre in una baraccopoli a volte si rivela davvero impossibile. Buon Natale a tutti gli 8 fratelli di Simon, 4 sorelle e 4 fratelli, tutti quanti più grandi di lui, nessuno che vive con la madre. Bambini e ragazzi randagi.

Buon Natale ai compagni di camerata di Simon, perché ne abbiano se non pietà almeno rispetto, che non approfittino delle sue debolezze, del suo essere piccolo, del suo essere fragile. Buon Natale alle guardie della prigione, perché se ne prendano cura, perché siano per lui la famiglia che non ha mai potuto avere.

Buon natale perché in fondo è un augurio che si meritano un po’ tutti, davvero, persino Babbo Natale. Rivolgo un enorme augurio di Buon Natale anche lui, convinto come sono che quest’anno, in questa santa notte, abbia trovato il tempo di bussare in case senza porta, di far battere cuori senza speranza, di portare finalmente il Natale dove la calda voce di Bublè non riesce ad arrivare.

Buon Natale a Simon in particolare, e alle decine di centinaia di migliaia di Simon sparsi per il mondo. Buon Natale a Simon anche se oggi sul campo saremo avversari, prigionieri della YCTC contro ex-prigionieri di Cafasso. Sperando prima che il giudice, a cui auguro di nuovo Buon Natale e buon appetito, abbia pietà di lui. E poi sperando di poterci giocare di nuovo, con Simon, ma nella stessa squadra. Perché a Cafasso si può essere famiglia, e una famiglia è quello di cui un ragazzo di 15 anni ha bisogno. Nel caso, ti aspettiamo.

Buon Natale alla mia di famiglia, ai miei amici, ai miei nemici, tutti così lontani ma alcuni davvero molto vicini. Buon Natale perché probabilmente non ve l’ho mai detto. Buon Natale proprio perché a me non è mai piaciuto. Questa volta ho deciso di scriverla a tutti voi la letterina, e non a Babbo Natale. Perché se mi riesce difficile credere a lui, trovo molto più facile credere in voi.

a presto,
Giacomo Centonze

martedì 12 dicembre 2017

Kenya: Un servizio a puntate (#1)

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Infilo la mano sotto al letto, afferro la zanzariera e la sfilo con un rapido movimento del braccio. Ho dormito più di 8 ore senza mai svegliarmi, il materasso è davvero troppo comodo. Mi insapono le mani, le sfrego energicamente, mi lavo la faccia e la situazione inizia a migliorare. Prima di andare mi guardo negli occhi di sfuggita, con fare distratto, ma fotografo in testa il riflesso vivo di me che lo specchio mi regala. Indeciso tra l’ingerire o l’espellere, opto per la seconda per ragioni più d’urgenza che di spazio. Metto la musica, alta, spinta, un po’ per svegliarmi e un po’ per concedermi della privacy. Poi però è il turno delle uova strapazzate, del pane scaldato al forno e del tè con il latte. Latte che potrebbe rivelarsi nella sua subdola veste di arma a doppio taglio, ma che riesco elegantemente e virilmente a controllare uscendo di casa con lo zaino alle spalle. Nell’uscire io e Alice ci affacciamo su una viuzza cieca, utile soltanto a noi e agli abitanti dei due stabili che affiancano la nostra casa, palazzine tendenti ad essere quello che noi intendiamo per condominio. Svoltando a destra imbocchiamo la strada che poi si collegherà all’arteria principale, l’unica asfaltata, che attraversa Kahawa West.

Ma all’arteria principale bisogna arrivarci: incrociamo prima lo spiazzo, ancora vuoto, che conduce alla parrocchia di St. Joseph Mukasa; ai bordi delle strade mucchi di spazzatura vengono dati alle fiamme, l’odore è quasi meno fastidioso del fumo nero che investe chiunque debba passare per la via; a dividersi lo spazio tra una cancellata e l’altra si alternano obbligati più negozi, diciamo baracchini, angusti spazi incavi ricavati tra le mura che costeggiano la via; prima della curva una manciata di persone è china su decine di sacchi della spazzatura, divelti per recuperarne il recuperabile; il via vai di persone è abbastanza frenetico, ma per ora si cammina abbastanza comodi, il passo è svelto perché ormai abbiamo calcolato e preparato il percorso con fantozziana precisione. Coi passanti il rapporto è di odio e amore, gli sguardi si incrociano fugaci, ci sentiamo osservati, qualcuno saluta e noi ricambiamo contenti. Sbuchiamo agili fuori dalla via, quando arrivati a questo punto potremmo continuare sulla via principale, la Kahawa Station Road. Invece l’esperienza ci ha insegnato che è meglio, poco prima, infilarsi a capofitto tra le corsie che sfilano in mezzo ai banconi arroccati del mercato che costeggia la strada: arrabattate ma solide strutture in legno piene di frutta e verdura, di scarpe, magliette e pantaloni, di pile di carbone e di qualsiasi altra cosa possa venirvi in mente. Persino televisori. La mattina, poi, all’ora in cui passiamo noi, questi vicoli sono incredibilmente abbastanza liberi, incrociamo soltanto gli ambulanti che con un fascio di saggina spazzano davanti alla propria bancarella. Tutto attorno a noi il rumore è quello rombante dei matatu che sfrecciano nella strada affianco, quello più caldo e umano delle grida dei buttadentro, quello dei gemiti sofferti delle galline stipate in minuscole graticole di fil di ferro. 

L’odore è quello della terra che ti entra in bocca, negli occhi e nel naso, quello del porridge e del chai che gli ambulanti stanno cucinando in fornelletti a carbone, quello delle pannocchie grigliate sino a diventare nere, così come quello rancido di pattumiera bruciata in ogni dove. Usciti dal mercato occorre costeggiare la strada dribblando matatu parcheggiati e non, schivando e rifiutando inviti più o meno cortesi a salirvici. L’asfalto della Kahawa Station Road è rovinato a dir poco, assente in più punti, e costringe macchine, motociclette e bus a gincane azzardate. Occorre attraversare, cosa che alle volte richiede anche un minuto intero quando il traffico è intenso, nonostante la strada sia soltanto a due corsie. Concetto di corsia che sto cominciando a rielaborare. Ora ci troviamo sul lato destro della strada, camminiamo attorno ad enormi buche piene d’acqua e pantani di fango interminabili. Eppure Kahawa di questo sembra vivere, da questo sembra trarre l’energia magnetica che, sprigionandosi, mi costringe a tenere alto lo sguardo. Entrambi i lati della strada sono un crogiuolo di insegne e scritte colorate o luminose. Un numero impressionante di macchine aspetta in autolavaggi decisamente rustici, mentre gli internet point sono già pieni a quest’ora. 

Arriviamo davanti ad uno degli ingressi secondari di Kamiti, il quartiere carcerario dove svolgiamo il nostro servizio, ma qui per ora mi fermo, perché qui inizia un’altra storia. Mi accorgo che un valore inestimabile non l’hanno soltanto le persone, ma anche i luoghi, persino quelli tanto diversi da sembrare troppo brutti o troppo belli. Penso a Legnano, alla mia via Torino, a quanto ci tengo e a quanto mi potrà mancare durante quest’anno. Poi mi giro e riguardo Kahawa West. Poi un flash mi fa sorridere, rivedo il riflesso dei miei occhi nello specchio: la mattina mi sveglio con gli occhi stanchi, ma con lo sguardo veramente felice.

a presto,

Giacomo Centonze

sabato 9 dicembre 2017

Kenya: imporsi, sbagliando, di non piangere

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Quando sono uscito dalla stanza per andarlo a chiamare, credevo di sapere bene a cosa stessi per andare incontro. Credevo di trovarlo dove l’avevo visto qualche minuto prima, mentre chiamavo altri ragazzi per alcuni colloqui individuali: invece di fianco alle mucche, chino a sminuzzare l’erba da dare in pasto a queste, c’era soltanto N. Stupido io, a non averlo immaginato subito ai fornelli, era quasi ora di pranzo. Gli dico che dobbiamo parlargli, di venire con me in cappella. Si alza, mi segue, mi chiede il permesso di andarsi prima a pulire. Lo aspetto un paio di minuti, mentre parlo con C. Poi finalmente mi raggiunge, entra dopo di me nella stanza e chiude dietro di sé la porta. Ha gli occhi gonfi ma asciutti, mentre fiumi di parole davvero pesanti gli si riversano addosso ininterrotti. La posa è dritta, ferma, fiera, ma al tempo estremamente debole, arrendevole, sottomessa. Le mani avanti a sé, poggiate sul tavolo, con le dita che intrecciano quello che credo per lui sia l’equivalente di un muro, eretto inconsapevolmente a propria difesa. I piedi scalzi, tozzi, si sfregano tra loro all’altezza delle caviglie. Dalle ginocchia in giù ha ancora addosso dei rimasugli di fango, quelli che non gli è riuscito di rimuovere con la sommaria pulizia che si è auto-imposto. Gli zigomi, duri e pronunciati, delineano in modo grezzo ma deciso il volto di un ragazzo dall’età incerta, uno di quelli a cui daresti a volte quindici anni ed altre venti. 

Mentre J gli parla, non sembra capire esattamente dove voglia arrivare. Sa di aver sbagliato, lo ammette più volte, e continua a negare ogni coinvolgimento di altre persone. Li chiama “gentlemen”. Quando viveva in strada, a Nairobi, stava in una di quelle gang di cui tanto sentiamo parlare. Prima di Cafasso, già in prigione, era per tutti un caso perso, che mai sarebbe resistito in un posto come questo. Perché a Cafasso si è liberi, sì, ma ci sono delle regole molto precise. Ed è proprio grazie a quelle regole che a Cafasso si può essere veramente e finalmente liberi. Sono queste alcune delle argomentazioni con cui J cerca di far leva su di lui, questo ragazzo che vive a Cafasso ormai da sei mesi, e che a Gennaio inizierà la scuola secondaria. Ragazzo che, in questi mesi, è riuscito ad affrontare una forte dipendenza da diversi tipi di droga, sotto effetto delle quali si è trovato, un giorno, tra le mura del carcere minorile di Kamiti. 

Questo ragazzo, dicevo, è stato sorpreso, per l’ennesima volta, a fumare sigarette. Cosa che a Cafasso è severamente vietata, lo dice a chiare lettere anche il regolamento che ogni ragazzo firma quando accetta di essere accolto. Questa volta è stato sorpreso da una guardia di Kamiti, che ha prontamente avvisato J. Caso vuole che ieri un altro ragazzo sia stato portato all’ospedale per un forte mal di testa. Ma tutti i ragazzi, tranne noi, ieri già sapevano: sta male perché quel ragazzo gli ha fatto fumare una sigaretta. E lo sappiamo perché abbiamo parlato praticamente con tutti i ragazzi. Prima parliamo con lui da solo, dopo di che esco a chiamare gli altri tre ragazzi coinvolti, quelli che la guardia ha visto fumare insieme a lui. I ragazzi ripetono le loro versioni, contorte, confuse, a volte si contraddicono, ma il quadro è chiaro e lui stesso lo ammette: lui ha rimediato dei soldi, lui ha comprato le sigarette, lui le ha offerte agli altri. Violando così più di una regola di Cafasso, per l’ennesima volta. 

J gli comunica che, uscito dalla stanza, dovrà preparare tutte le sue cose e andarsene. Finalmente realizza, finalmente capisce cosa sta per succedere. Forse realizzo anche io in quel momento a cosa stavo per andare incontro andandolo a chiamare. Anzi no, forse realizzo dopo, quando parlando con lui gli chiedo dove avrebbe passato la notte, se qualche familiare o qualche amico avesse potuto ospitarlo. Mi dice che andrà a lasciare tutti i suoi vestiti da sua sorella, ma che poi andrà in town. A fare cosa? Non ho avuto il coraggio di chiederglielo. «La conosco come le mie tasche» mi dice. Il venerdì pomeriggio c’è il bible sharing, si legge un brano del vangelo ed ognuno propone la propria preghiera al gruppo. Chiedo se gli va comunque di unirsi a noi, prima di partire. Al bible sharing c’è, è seduto di fianco a me, e partecipa anche lui con una preghiera. Ah, questo ragazzo è musulmano. Oppure invece ho realizzato quando, mentre lo salutavo prima che partisse, mi ha chiesto scusa, promettendomi che avrebbe cercato di smettere di fumare. Credo di non aver risposto, troppo impegnato a non piangergli sulla spalla.

a presto,

Giacomo Centonze

sabato 25 novembre 2017

Il Kahawa West che non so descrivere

3 commenti:
Primissimo giorno di servizio effettivo a Cafasso House.
Sveglia alle sette e mezza, colazione preparata di Giacomo mentre io, con la solita calma frettolosa che solo chi mi conosce bene e ha vissuto qualche tempo con me può capire, cerco di prepararmi in tempo per l’uscita che ci eravamo prefissati. Nemmeno a dirlo, non ce la faccio. E così usciamo con qualche minuto di ritardo da casa, tutti trafelati, in spalla lo zainetto con acqua, cambio completo (non so ancora se i miei vestiti del mercato riusciranno a resistere al lavoro nei campi), scarpe di ricambio perché gli stivali da lavoro a noi sembrano costare troppo al supermercato qui vicino e ci stiamo rifiutando di comprarli fino a nuovo ordine. Il cellulare in un piccolo marsupio nascosto sotto ai vestiti per non dare tropo nell’occhio e le chiavi di casa al collo, ci avviamo di buon passo verso Kamiti, il quartiere carcerario.
Il cancello più vicino a noi dista da casa solo pochi minuti a piedi, ma poi da li dobbiamo camminare ancora una ventina di minuti all’interno della recinzione per raggiungere Cafasso, la comunità educativa per giovani ex detenuti dove lavoreremo quest’anno.
E’ strano il nostro quartiere: Kahawa West. Mi piacerebbe riuscire a descriverlo, ma come ci ha detto anche Maurizio, il nostro responsabile, è davvero difficile spiegarlo a chi non è mai stato in una periferia di città africana. E’ una via di mezzo tra la città ultra moderna e la baraccopoli. Ok. Ma questo dice tutto e non dice niente. Dice che nelle vie è spesso un brulicare di gente...ma solo dopo le nove di mattina. Prima la gente sembra avere altro da fare qui, e i bambini non girano ancora molto nelle vie. Dice del traffico caotico e sregolato, come Milano, come Roma, come Napoli...ma di più. Molto di più. Dice dello smog che si respira e della polvere che si mescola a questo e del fatto che entrambi ti entrano dentro ad ogni respiro tanto da non desiderare altro che natura incontaminata per un pò. Dice delle voci che si mescolano, delle case che si ammassano e dell’edilizia che tende a riepire i pochi terreni rimasti vuoti lungo le vie. Dice delle strade sterrate, ma non di quelle che una volta erano asfaltate e che ora sono un cumulo di macerie sopra alle quali si snoda indifferente il mercato. Non dice dei ragazzi che ti invitano coon insistenza a salire sull’autobus (una pecie di “buttatdentro” all’italiana...di quelli che da noi ci sono fuori dai ristoranti del centro di Milano. Ecco, uguali. Solo che invece che essere vestiti di tutto punto e cercar di convincerti a mangiare una pizza a colazione o degli spaghetti all’amatriciana e una cotoletta alla milanese a merenda sono vestiti come noi e cercano di convincerti a prendere autobus per raggiungere ogni angolo della città). Non dice nemmeno che il servizio di bus e taxi è privato, non pubblico, ma che è estremamente efficiente. A qualsiasi ora tu voglia prendere un bus è sufficiente che tu ti faccia trovare alla fermata giusta: un matatu ci sarà sicuramente. Orari? Non servono: si parte non appena i posti sono stati riempiti,e poi via a ruota il successivo, già fermo in coda alla stazione di partenza. Non dice di un’app che permette di chiamare taxi in tutta la città di Nairobi a qualsiasi ora del giorno, scegliendo anche la dimensione dell’auto, ed eventualmente valutando e selezionando come preferiti i tuoi conducenti di fiducia. Esiste persino un tasto per la sicurezza da premere in caso di pericolo.
Non dice nulla nemmeno di quella parte del quartiere nascosta dietro al mercato, fatta di vie strettissime e di baracchini che ne costellano i lati: parrucchieri e negozi di vestiti a non finire. A non finire mai. Non dice nulla nemmeno della quantità di persone addette alla sicurezza che piantonano armati ogni ingresso di ogni attività commerciale grande più di due metri per tre: che tu vada al supermercato, alla banca, in un bar, in un qualsiasi posto in cui girino dei soldi, lì ci saranno delle guardie pronte a perquisirti e a garantire la tua sicurezza. Protezione e ansia allo stesso tempo.
Non dice nulla nemmeno della sporcizia che si trova lungo le vie, di tutta quella maledetta plastica che inquina e non si decompone e resta nell’ambiente per anni e anni rovinando paesaggi che altrimenti sarebbero bellissimi.
Non dice nulla soprattutto di quella sensazione di pace e di tranquillità che si prova non appena si varca il cancello del quartiere carcerario di Kamiti. Quella pace che stride così tanto con il significato del suolo che si sta calpestando, ma che inspiegabilemente ha sapore di libertà.
Libertà dal caos cittadino, dalla frenesia di ogni giorno, da quella fretta di fare tutto e subito prima che il tempo scappi.
Ecco, mettere piede a Kamiti significa immediatamente rallentare, respirare a pieni polmoni, sospirare.
Una guardia all’ingresso saluta svogliata ma incuriosita, il traffico sparisce, i rumori della città si fanno lontani, le case si diradano e davanti a te compare un paesaggio naturale insolitamente bucolico, di quelli che propro non ti aspetteresti li. Campi coltivati, piccole colline di terreno attraversate da sentieri in terra battuta che si snodano fitti tra le carceri e le case dei lavoratori, accogliendo guardie, detenuti in divisa che lavorano sotto sorveglianza, bambini che giocano a costruire argini robusti alle pozzanghere di fango, galline che dopo aver trovato qualcosa da mangiare tra i cumuli di spazzatura poi ritroveranno la strada di casa...e noi. Due giovani ragazzi bianchi che inspiegabilmente si trovano li.


Alice V

domenica 19 novembre 2017

Kenya: Suor Rachel, Kibe e la banconota stropicciata

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Mentre Kibe parla, il gruppo non fa che seguire il suo inglese fluente ma ottimamente scandito. Sono rari i cali di attenzione, nonostante la freschezza dell’aria e del paesaggio sullo sfondo quasi magnetizzino l’ambiente: il mais, germogliato da qualche settimana, si affaccia al mondo in ordinate file parallele equidistanti; un albero dal tronco molto storto ci protegge dal sole, facendosi carico di uccelli rumorosi; in mezzo al cerchio è pieno di legnetti, fili d’erba ormai secca, filamenti di spago, che di tanto in tanto qualcuno prende in mano per giocarci; dal campo da calcio provengono le grida eccitate di bambini che si rincorrono per qualche loro gioco.

Nonostante questa bellezza, dicevo, Kibe riesce a mantenere su di sé un’attenzione quasi ipnotica. Forse il luogo dell’incontro non è stato nemmeno scelto a caso, la sua figura di anziano prorompe quasi poeticamente sotto l’ombra dell’albero. Ma trasaliamo tutti quando dalla tasca, con la mano, estrae una banconota ben stirata da 200 scellini. Non sembra avere senso, ecco. Tutto il bello che sino a questo momento si è creato cozza incredibilmente con l’immagine di lui che esibisce sorridente quella banconota.

Suor Rachel parlava davanti alla comunità della parrocchia, riunita nella chiesa che vedete alle vostre spalle. Come me, quel giorno, prese in mano una banconota come questa. Avevano tutti la stessa faccia che avete adesso voi guardandomi. Rivolgendosi a loro disse: «Qualcuno di voi vorrebbe questa banconota?» e allora tutto il pubblico esplose in un mormorio di approvazione. «Bene», disse, e detto questo mostrò di nuovo la banconota alla platea, e stringendola forte nel pugno iniziò a sfregarsi freneticamente le dita, stropicciandola in modo deciso, riducendola a quella che poteva sembrare una pallina di carta.”

Kibe racconta l’aneddoto in modo così vivo da confonderci, da farci immaginare di essere seduti anche noi lì su quelle panche in quella chiesa, a mormorare insieme a tutti in risposta alle provocazioni di Suor Rachel. La sua risata squillante a tratti ci fa trasalire. Accompagna i gesti alle parole: in mano ora stringe la stessa banconota di prima, ridotta ad essere un piccolo pezzo di carta straccia.

Al che continuò: «Qualcuno di voi vorrebbe questa banconota?». A questa domanda, tutti continuarono in coro a ribadire che sì, tutti avrebbero comunque voluto quella banconota. «Bene», disse ancora, e detto questo mostrò di nuovo la banconota al pubblico, e questa volta la gettò a terra. Con la scarpa, poi, iniziò a calpestarla più e più volte, con i presenti divisi tra risate sommesse e brontolii di disapprovazione. Poi si chinò, raccolse quello che rimaneva della banconota e lo mostrò al pubblico: ormai stropicciata, sporca e con piccoli tagli, pareva essere un pezzo qualsiasi di carta straccia. Poi ripeté con la stessa voce calma di prima: «Qualcuno di voi vorrebbe ancora questa banconota?».”

Iniziamo tutti a guardarci intorno, a cercare di spiare le reazioni degli altri. Sappiamo tutti dove sta andando a parare. Ci stiamo commuovendo tutti. Distolgo lo sguardo dal volto di Kibe, e inizio a fissare le foglie della pianta di mais mentre vibrano sferzate da un vento leggero ma tenace. Ma continuo ad ascoltare, non mi perdo una parola. Kibe sembra accorgersene, il suo sorriso si allarga, e continua il racconto con più forza di prima.

Il brusio si fece sempre più forte, ma alla domanda di Suor Rachel la risposta fu ad ogni modo affermativa: chiunque in quella stanza avrebbe comunque voluto quella banconota. «Se persino un pezzo di carta come questo mantiene il suo valore in condizioni come queste», incalzò lei, «come possiamo non considerare il valore di questi ragazzi? Non importa quale sia stata la storia di una persona, quali siano le crisi che ha affrontato, quante volte sia caduta, quanti problemi abbia alle spalle: ognuno di questi ragazzi ha un valore inestimabile che non possiamo non considerare.»”

Torno a guardare Kibe. L’incontro finirà molti minuti dopo.

Partirò da me stesso, forse perché è più facile o forse perché effettivamente mi sembra il modo più utile per iniziare una riflessione in tal senso. Qual è il mio valore? Sono cresciuto in mezzo a persone che per mia fortuna hanno sempre cercato di spronarmi e, appunto, valorizzarmi. Mai come oggi, mai come stasera, riesco ad essere grato a tutte queste persone. Mi vengono in mente mille esempi, mille aneddoti, mille volti, e soprattutto mille motivi per non citarne neanche uno in questo scritto. Ma sappiate che vi sono davvero riconoscente.

Pensando ai ragazzi, invece, mi viene il magone. Non compassione, pietà, pena: proprio il magone, quello che ti stringe la gola con un nodo stretto. Il primo obiettivo, il primo sforzo, vorrei fosse verso qualcosa che riesca a far sì che i ragazzi si percepiscano come portatori di valore. Che riescano loro, per primi, a realizzare di non essere carta straccia. Siamo somma di esperienze, che aggiungono valore a quello che siamo; che possono ferirci, ma che non possono mai annullarci. Il primo passo verso il reinserimento nella società civile, nella battaglia contro la stigmatizzazione, nella lotta contro l’occhio torvo del pregiudizio, è quello che bisogna fare verso sé stessi.

Credo con forza nelle potenzialità del progetto in cui svolgo il mio servizio. Una grande lezione che mi voglio portare a casa l’ho imparata già oggi, a soli 4 giorni dalla partenza: vorrei saper guardare ogni persona negli occhi e riscoprirla nel suo valore inestimabile.

a presto,

Giacomo Centonze

lunedì 16 ottobre 2017

Una danza lunga un anno

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“Lloyd, apri il dimenticatoio che devo buttarci questa brutta esperienza”
“Sir, prima che la elimini le consiglierei di guardare bene al suo interno”
“Dentro ci sono solo delusione e rabbia, Lloyd”
“Ma anche una preziosa scaglia di esperienza, sir”
“Da sola è troppo piccola per ripagare le fatiche del passato, Lloyd”
“Ma, insieme alle altre, può farne tesoro per il futuro, sir”
“Ottimo suggerimento, Lloyd”
“Buona giornata, sir”

(Tempia S., Vita con Lloyd, Rizzoli Lizard, 2016, Milano, pag. 78)

Non posso certo ridurre il mio ultimo anno, trascorso in Kenya con Caritas Ambrosiana attraverso il Servizio Civile all'Estero, ad una “brutta esperienza”, ma come spesso mi accade leggendo il libro dal quale questo pezzo è tratto, c'è una svolta positiva sul finale che mi spiazza ma mi piace un sacco.
E forse è così che sento di aver trascorso questo anno fra persone locali non troppo accoglienti e colleghi troppo arrivisti per capire davvero l'importanza del lavoro con i ragazzi accolti in Cafasso.
È sul finale, anzi forse è appena dopo la fine, che ho compreso o meglio che inizio a comprendere la svolta positiva.
“Allora, com'è andata in Kenya?” mi chiedono spesso. E come si fa a racchiudere un anno di vita, di lacrime, di lotte, di sofferenza, di piccoli ma fondamentali passi fatti, a volte di paura, in una risposta?
Come si fa a racchiudere le vite di una ventina di ragazzi che mi hanno messa in crisi, fatta impazzire, ma ai quali ho voluto un bene smisurato, in poche frasette?
E come si fa a trovare un senso a tutta la fatica fatta, alle energie investite, che non so se e quando daranno frutto?

Però poi, nella pagina facebook nella quale il suddetto libro è nato, ecco un'altra ispirazione.

“Lloyd, cosa si fa quando una difficoltà pare insuperabile?”
“Ci si prova a danzare insieme, sir”
“Perché dovrei ballare con la difficoltà, Lloyd?”
“Per trovare dentro ai suoi occhi la forza necessaria per affrontarla, sir”
“Io però ci vedo solo il mio volto riflesso, Lloyd”
“Appunto, sir. Appunto…”

(Tempia S., Vita con Lloyd https://www.facebook.com/vitaconlloyd/)

Ecco l'illuminazione, la parola mancante. Cos'hai fatto quest'anno in Kenya?
Ho ballato!
Ho ballato con la vita, con le mie paure, con i miei limiti, con la nostalgia, con la distanza.
Ho ballato con la difficoltà, e dentro essa ho trovato la forza per provare a superarla.
Ho ballato con me stessa, con una nuova me che si è scoperta e riscoperta negli occhi scuri e profondi di gente che non mi ha capita, forse perché non ancora pronta a capirmi.
Ho ballato con gli occhi dei kenyani, che specchiati nei miei mi sono sembrati così lontani e a volte invece così vicini.
Ho ballato con la stanchezza di K. e con la sua euforia nel tornare a casa, un ballo felice e pieno di affetto. Ho ballato con gli occhi lucidi di sua nonna quando ha visto comparire suo nipote con una donna bianca nella sua baracca.
Ho ballato con W. e ballo tuttora col suo ricordo e con le domande che mi frullano in testa pensando a se e cosa avrei potuto fare di più.
Ho ballato con G., con M. e con N. nel breve tempo che trascorrevano in Cafasso nelle pause da scuola, un ballo un po' impacciato ma felice nel vedere i grandi risultati da loro raggiunti.
Ho ballato con Giulia, fedele e preziosa compagna di viaggio, sulle note della Mannoia e dei Backstreet boys, scoprendo un ballo di coppia che mi ha arricchita, protetta e sorretta.
Ho ballato con Maurizio, punto di riferimento lontano ma indispensabile.
Ho ballato con Giacomino, Nicoletta, Anna, Vale, Silvia, Daniela, Matilde, Domenico, Angelo, importantissimi amici, capitati nella danza un po' per caso, ma che mi hanno insegnato passi e ritmi nuovi.
Ho ballato con i cantieristi Andrea, Daniele, Francesca, Giovanni, Sara, Sara e Valentina, una danza piena di stupore e di vita.
Ho ballato con la mia casa in Italia, attraverso la mia famiglia e gli amici di sempre che non mi hanno mai lasciata.

Ballo tuttora con i ricordi di una terra che mi ha fatta impazzire, soffrire, ridere, piangere, conoscermi e crescere.
Ballo tuttora con le lacrime che parlano di una storia incredibile, che ogni giorno che passa mi fa sentire grata del tempo passato fra un sorriso sdentato e l'immondizia di Kahawa West.

Nonostante tutto, grazie.
Asante sana Kenya.

mercoledì 5 luglio 2017

"Dove due o tre sono riuniti nel mio nome"

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Se ripenso a questi mesi in Kenya non posso certo dire che sia stata, e che sia tutt'ora, un'esperienza spiritualmente illuminante.

Purtroppo, in chiesa come in molti altri ambiti della vita, spesso prevale l'immagine, l'apparire, più dell'essere.

La lingua poi non aiuta, e a causa di tutte queste piccole cose, il mio entusiasmo nel frequentare luoghi e momenti religiosi è ai minimi storici.

Poi però, recentemente, ho partecipato a due momenti forti, profondi, che hanno riacceso in me quella fiammella diventata tanto flebile.

Il 20 giugno sono stata al Consolata Day, un giorno di festa e di preghiera dove Suore, Padri e Fratelli di quest'ordine si sono trovati assieme, per celebrare con gioia la loro presenza in Kenya e nel mondo.

In chiesa, fra queste donne e uomini che hanno scelto per la loro vita la fede, il coraggio e l'amore, mi sono sentita parte di un qualcosa di forte, di grande, di profondo. Quello che ci animava era una forza interiore che ci univa e ci faceva sentire parte di una famiglia immensa e bellissima.

Qualche giorno dopo ho partecipato alla Jumuia (video), un momento di condivisione e preghiera con i ragazzi di Cafasso, al quale non partecipavo da tempo perché nelle stesse ore solitamente ero al carcere femminile.
Lì, in mezzo a questi ragazzi a volte un po' sciocchi, ho nuovamente sentito una forte energia, una spinta interiore che chiamava a qualcosa di alto, a valori e sentimenti importanti.

Dopo questi due momenti ho riflettuto, e mi è venuta in mente una splendida canzone: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sarò con loro, pregherò con loro, amerò con loro".
Ecco, lì penso di aver capito che il trucco non è dove si prega o come si prega, ma che si sia tutti uniti da uno stesso valore di fratellanza, e Dio sarà veramente in mezzo a noi.


martedì 13 dicembre 2016

Dalla Cafasso... la storia di Kamau

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Kamau è nato nel 1994, ultimo nato in una famiglia di 10 figli (8 maschi e 2 femmine). Ha lasciato la scuola quando era nella settima classe della scuola primaria per lavorare come bagnino a Malindi, sua città natale. Ma, così volle il fato, nel luglio 2010 un suo fratello maggiore venne coinvolto in una rissa di villaggio e Kamau e un altro fratello andarono in suo aiuto. La rissa durò un'intera notte. Sfortunatamente la donna al centro della rissa morì per le ferite che aveva riportato quella terribile notte. I tre fratelli furono arrestati, trattenuti al posto di polizia e alla fine dopo 8 mesi portati in tribunale. Furono accusati di omicidio e alla fine giudicati colpevoli di omicidio colposo. Nonostante le loro proclamazioni di innocenza suo fratello e un amico furono condannati all'ergastolo a Shimo la Tewa, Mombasa, mentre Kamau, minorenne, fu inviato al riformatorio Boston di Mombasa.


Nel 2013 Kamau finì di scontare la pena e avrebbe dovuto ritornare a casa, ma la voce che gli abitanti del villaggio lo aspettavano per esercitare su di lui 'la loro giustizia' pervenne all'ufficio di libertà vigilata. Gli abitanti del villaggio ritenevano che anche lui avrebbe dovuto essere condannato all'ergastolo. Nonostante le numerose visite da parte dei funzionari per riconciliarli e facilitare la sua reintegrazione, le minacce continuarono e furono considerate fondate.

Fu a quel punto che l'ufficio di libertà vigilata chiamò il SJCCH di Malindi e chiese il loro aiuto. Il SJCCH accettò Kamau nella speranza che la ragione avrebbe avuto la meglio tra gli abitanti del villaggio. Passarono i mesi ma la comunità rimase irremovibile. 
Il SJCCH mandò Kamau a un corso di formazione dove imparò la meccanica dei veicoli a motore e imprenditoria. Nel 2015 Kamau completò il corso e propose di vivere al di fuori del SJCCH perché stava per diventare maggiorenne. Trovò lavoro presso un cantiere edile del luogo e diventò finanziariamente indipendente.

Nel 2005 Kamau si impegnò a creare la propria famiglia. Andò parecchie volte di nascosto nel suo villaggio e alla fine trovò la propria compagna. Col tempo e con l'aiuto della sua famiglia e dei suoi amici portò avanti le trattative per il matrimonio e prese la ragazza per moglie. Andò parecchie volte a casa a trovare i suoi genitori che stavano diventando invecchiando, ma il desiderio di stare con loro ha giustificato i rischi corsi. Oggi Kamau è felicemente sposato ed è in attesa del suo primo figlio. Nel corso del periodo di reintegrazione Kamau ha portato parecchie volte sua moglie al SJCCH così che potesse sentire da loro la storia della sua vita. Ritiene che solo conoscendo la storia della sua vita, sua moglie lo amerà di più. Kamau ha riconosciuto che il SJCCH gli ha dato una seconda possibilità nella sua vita perché lo ha accettato quando tutti lo evitavano. 
"Le competenze e le conoscenze che ho appreso qui hanno fatto di me un uomo che teme Dio, che può vivere in pace con chiunque ovunque nel mondo. 

Che Dio benedica La Casa San Giuseppe Cafasso."

Se vuoi sostenere la Cafasso House...

venerdì 5 agosto 2016

Kenya,Nairobi : "Polvere"

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Polvere. Polvere rossa. Polvere rossa nelle scarpe, nei calzini, perfino nelle mutande.

 Piantando e zappando nella shamba[1] è questa la sensazione. Ogni singolo colpo ben assestato nel terreno solleva polvere, una polvere così fine che permea ogni singola membrana del corpo. Quando si termina il lavoro nella shamba non si è più un muzungu[2] bianco, pallido e pulito ma nero, sporco, sudato e, se non si sta attenti, scottato.

 Polvere nel naso, nelle orecchie, sotto le unghie, sulle labbra, negli occhi. Una polvere strana, fin troppo volatile per essere semplice polvere di terra rossa d’Africa.
Scavo, sollevo terra per ore; ad ogni zappata mi riempio di polvere, ad ogni zappata rimuovo plastica. Bottiglie, pettini, copertoni, tubetti di dentifricio, tappi, confezioni, questo è quello che si trova scavando nella shamba.

“Gian, perché c’è così tanta plastica in questo terreno?” domando al mio coordinatore.
“Vedi”, risponde lui, “qui, prima di esserci un orto, c’era una discarica. Tutto quello che non è stato bruciato è rimasto nel terreno. La polvere che solleviamo zappando è tutta cenere”.

Il terreno di Nairobi è contaminato, non c’è differenziata, non ci sono cestini, la spazzatura prodotta viene gettata per strada, nei fiumi, nei campi liberi. Camminando si calpestano strati e strati di rifiuti, abbandonati sui margini delle strade tra bancarelle, mercatini, matatu[3] e piki – piki[4]. Ogni giovedì e sabato le “mama” setacciano la spazzatura raccolta in cerca di plastica da poter rivendere; il resto, per chi può permetterselo, viene raccolto e portato nell'enorme discarica a cielo aperto di Korogocho. Nelle maggiori delle ipotesi viene però bruciata lì dove viene accantonata, ai margini delle strade e nei campi.

“Rose, perché qui a Cafasso[5] bruciate tutti quei rifiuti? Non c’è altra soluzione?” chiedo alla housemother durante uno dei miei turni in cucina.
“Qui non possiamo fare altrimenti. All’interno di Kamiti non passa la “raccolta”, siamo obbligati a bruciarli per non esserne sommersi fino al collo. La raccolta passa solo in alcuni quartieri e solo per chi può permetterselo” risponde lei con tono sommesso.

Quanti di noi hanno immaginato la Notte di San Lorenzo in spiaggia, sdraiati a guardare le stelle, sperando di strappare un bacio proprio a quella ragazza distesa affianco a noi, scaldati da quel falò di legno di pino scoppiettante?

Qui, in Kenya, a Nairobi, tutte le notti sono illuminate e scaldate da falò, ma non siamo in spiaggia, non è legno di pino. Siamo in centro città, nei quartieri periferici, negli slums[6], e ciò che brucia è plastica.



Filippo Villa





[1] Shamba: terreno agricolo coltivabile.
[2] Muzungu: termine utilizzato per descrivere l’uomo bianco. Letteralmente: “qualcosa di diverso, di non comprensibile”.
[3] Matatu: minivan che fungono da mezzo di trasporto pubblico.
[4] Piki-piki: moto utilizzate come mezzo di trasporto pubblico.
[5] Cafasso: Halfway House. Continua la rieducazione dei ragazzi che hanno scontato una pena di 4 mesi nel YCTC, uno dei carceri presenti nel quartiere di Kamiti e dove si svolge la nostra attività di volontariato.
[6] Slums: baraccopoli.

domenica 21 febbraio 2016

SPAMMATELO!! The new brochure is ready!

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Here we are: the new brochure is ready!!!

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mercoledì 9 settembre 2015

Kenya: Oggi è un giorno di festa!

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6 Agosto 2015

La notte con i capelli legati e tirati è terribile. Potrò dire di aver fatto anche questa pazzia: le treccine rasta all’africana con 8 kg di capelli lunghi biondi e rossi in più, ovviamente rossi; ma ora che scrivo ed è sera li ho sciolti dalla coda e anche se non sembro più Cleopatra ma una rasta-woman vera e propria almeno la mia testa respira un po’ finalmente.

Stamattina la sveglia è all’alba in previsione della visita alla prigione (che come volevasi dimostrare non faremo grazie ai cani antidroga kenyoti)(Martina sarà orgogliosa di me per aver scritto “kenyoti” con la “y”!) ed essendo l’ultimo giorno alla Cafasso portiamo tre valigie con parte del materiale usato e parte nuovo da lasciare in dono ai ragazzi. E a sorpresa Marta chiama la bellezza di ben 8 piki-piki (le motociclette che fungono da tassisti) per ognuno di noi. Che emozione, tra sorpassi abbastanza vietati in tripla fila, vari acceleramenti in curve a gomito e altrettante frenate inaspettate prima dei dossi inattesi. Il tutto abbracciata in modo abbastanza precario a un kenyota senza casco (entrambi ovviamente) che ogni tanto risponde al cellulare. Martina e Vale si fanno il viaggio in tre addirittura. Che coraggio! Anziché i soliti  40 minuti di camminata per attraversare il quartiere delle prigioni ce ne impieghiamo 10 oggi per arrivare dai ragazzi della Cafasso. Oggi è una giornata speciale, di festa e di saluti. Viene pure a trovarci Suor Serafina, la capo superiora di tutte le suore della consolata del Kenya. Ci tiene a farci un discorsetto di ringraziamento per il nostro lavoro e ci regala una collana fatta a mano da alcuni ragazzi di strada di uno dei loro progetti. Oltre a lei viene a salutarci anche il cappellano della prigione, un pezzo grosso, con tanto di colleghi catechisti vestiti in camicia e cravatta. Appena arrivata in Cafasso, tutti i ragazzi apprezzano la nuova acconciatura e Bernard, il ragazzo che lavora in una sartoria, mi fa provare uno dei suoi vestiti: giallo limone spento, gonna e maglia a campana. Diciamo che non lo comprerei mai , e penso che anche i miei compagni di viaggio la pensino così come risulta dalle loro risate. Una brutta notizia della giornata è stata di Angelo, il volontario italiano di Caritas in Kenya, che sarebbe dovuto venire a Mombasa domani con noi: è stato ricoverato in ospedale per un infezione intestinale ed è dovuto rientrare in Italia sedato e qualche giorno prima del previsto. Peccato perché mi sarebbe piaciuto molto salutarlo! Era così simpatico! Oggi è festa e la festa kenyota propone capretto alla griglia. Perciò alle 10 di mattina ci mettiamo tutti sotto  a cucinare. Le cipolle ci ammazzano. Solamente sbucciarle mi provoca uno di quei pianti dolorosi! Non invidiavo nemmeno un po’ chi le stava tagliando. Tra l’altro quella bella insalatina cruda di pomodoro, cavolo, carote  e cipolle, che probabilmente è dissenteria diretta, mi attira troppo e quindi ne gusto il saporino fresco senza troppo indugio. Ma il pezzo forte è la grigliata! Io e Vale non sappiamo bene come agire, se da tecnologhe alimentari o da africane. La carne di capra (un’intera carcassa) viene maneggiata da tutte le mani e in tutti i modi e con tutti i coltelli sporchi, viene immersa in una bacinella piena di acqua e di limone dove sta a mollo. Poi va a contatto diretto con la fiamma più e più volte, cade per terra, cade sulla cenere e viene rimessa con nonchalance sulla griglia artigianale. Una volta cotta è lasciata all’aria aperta sul tavolo lercio a disposizione del milione di mosche presenti. Insomma, se non ci succede nulla dopo questo pranzo alternativo direi che saremo immuni a qualsiasi rischio alimentare! Ciò che non uccide fortifica, giusto? Bisogna dire che l’intervento di Giacomo (l’unico uomo italiano presente) è fondamentale. Grazie a lui la situazione migliora un po’, igienicamente parlando. Ad allietare il pranzo fortunatamente c’è il ginger, ma questa volta la bevanda. È buonissima! Frizzantina, dolciastra con retrogusto amarognolo. Dopo il pranzo c’è un momento organizzato di balli. I ragazzi africani hanno tutto un loro modo di ballare con passi e salti strani che maldestramente come al solito cerco di imitare. Arriva infine il momento dei saluti. Felix e Wolf prendono le redini del discorso: “the most difficult word to say in Africa is ‘goodbye’ so come back here soon”, “pray God and remember us in the stories you will tell to your friends”, “learn to smile, always, because can change the world and the people”. E così osservo Duke , timido agricoltore a cui mi sono affezionata perché mi ricorda mio cugino ed era il ragazzo più timido e polite; Big John, il più stordito che ride sempre nelle sue goffaggini; Small John, così fiero di sè; Simon, che faceva il provolone per ballare; Samuel, il gentilissimo amante degli animali che regala a tutte un ultimo braccialetto; Andry, che cantava sempre “brrrr” e “o mare nero”; Borongo, il più irrequieto; Chegge, quello sempre fatto di colla anche se Marta dice che invece è fulminato così di natura; Mesha, che tenta inutilmente di suonare sempre il tamburo ed è sempre fuori tempo; Frank, l’ingegnere meccanico dagli occhi verdi; William, il miglior ballerino e il più tamarro tra tutti; Bernard, il viscido sarto. E dall’altra parte vedo Vale, timida ma dolce, sensibile e molto pratica; Martina, la super boss dei bans e dei giochi che ci sa proprio fare coi bimbi; Chiara, alla mano e che è sempre in grado di buttarsi; Francy, la più pazzerella e anche la più brava a interagire coi ragazzi nonostante non parli una parola di inglese; Alice, che l’altra sera mi ha confidato che questi ragazzi l’hanno sorpresa e sono stati capaci di insegnarci la semplicità e la sincerità del cuore che in Italia troppo spesso dimentichiamo; Giacomo, scherzoso e molto molto paziente, in gamba sia coi ragazzi e i bimbi sia quando si tratta di lavorare e mettersi sotto; Marta, il nostro saggio leader, forse più kenyota che italiana e anche se non sempre condivido i suoi pensieri ho apprezzato moltissimo la sua super disponibilità nei confronti di ogni nostra esigenza e il suo sangue freddo in ogni situazione un po’ critica. E io, il solito buffone del gruppo, mi trovo bene in mezzo a tutti loro. Riesco a vivermi questa esperienza positivamente. A casa tutte le mie cosucce e i miei impegni sono sistemati e i miei affetti mi fanno stare serena. I giorni trascorsi qui a Nairobi sono andati alla grande. Io sento di essere riuscita a dare e ricevere il giusto ogni giorno un po’ con tutti e riesco ad essere me stessa, spontanea ed ingenuotta. Vivo alla giornata, senza troppi programmi (a parte quando stresso Marta per le cose da comprare!) Sono consapevole
di quanto sia importante vivere senza troppe aspettative e che la cosa più bella che puoi donare è il tempo che trascorri con questi ragazzi e il come lo trascorri, qui ed ora, con tutti noi stessi. Questa esperienza e questo incontro è sicuramente un gift per entrambe le parti. Arrivata la sera dobbiamo voltare pagina e razionalmente camminare avanti, per l’ultima volta lungo quella strada rossa che ci riporta verso la nostra parrocchia, salutando tutti quei visi di ragazzi normalissimi e buoni e desiderosi di costruire una vita più bella e serena. E anche il cielo è triste e si rannuvola.


La sera dovevamo andare a Korogocho ma a causa di un imprevisto l’appuntamento salta e Marta, essendoci molto legata, è triste. L’unica regola dell’africa è l’imprevedibilità. E così come quando siamo arrivati il primo giorno, due settimane fa, assistiamo alle spettacolari prove del coro dei giovani della parrocchia che mi riscaldano il cuore con le loro voci forti e vive. Il cerchio si chiude, la nostra esperienza alla Cafasso si è conclusa ed i ragazzi sono stati felici (hanno pianto ci ha detto Wolf!). Ma adesso bisogna essere carichi per la prossima settimana! Mombasa ci aspetta!

Noemi Caruggi



martedì 18 agosto 2015

In Kenya ci sono i leoni

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Tra i vari messaggi che mi erano arrivati prima della partenza, ne ricordo uno, di un mio amico particolarmente simpatico, che concludeva il suo augurio di buon viaggio così: "E mi raccomando, stai attenta che in Africa ci sono i leoni!".

Ed è proprio vero, in Kenya ci sono i leoni. Felini maestosi e potenti, popolano la savana immensa e deserta che abbiamo sperimentato nella traversata Nairobi-Mombasa.

Anche noi siamo riusciti a vedere i leoni in Kenya, ma non abbiamo avuto bisogno di lunghi appostamenti nei parchi naturali o di un safari. I leoni che abbaimo visto sono i veri "re" del territorio e non aspettano il crepuscolo per uscire allo scoperto. Alcuni ruggiscono e fanno molto clamore, altri usano la tecnica della caccia silenziosa e ti si palesano quando meno te lo aspetti, ti seguono di soppiatto e ti accorgi di loro quando ormai è troppo tardi.

Il più temibile e più pericoloso di tutti si chiama MISERIA e gira per le città accompagnato dal suo branco: CORRUZIONE ed EMARGINAZIONE SOCIALE. È il capostipite di tutta una razza di felini e una volta che ti ha preso, ti accompagna ovunque tu vada. Lo si può incontrare nella grande Nairobi, se si tende bene l'occhio ai margini delle strade, alle vie meno popolate, ai quartieri dove il giorno fa fatica a filtrare. È il padrone indiscusso delle baraccopoli e dei quartieri malmessi di periferia. Ti ruba tutti e cinque i sensi: lo puoi respirare nei vapori tossici delle grandi discariche a cielo aperto che bruciano notte e giorno di un fuoco eterno che sembra trafugato dall'Olimpo per non consumarsi mai. Ti viene incontro tenendo per mano i ragazzini di strada, con i vestiti sporchi e laceri, le ciabatte spaiate e lo sguardo attento di chi non si può permettere nemmeno un secondo di distrazione, nella vita. Ti circonda i piedi e le caviglie con il fango sporco e l'acqua nera che incornicia i bordi delle strade e rende la tua traversata più pericolosa, impedendoti di fermarti. Persiste nelle tue orecchie sotto forma dei pianti che ti arrivano da dietro le lamiere e dalle urla rivolte proprio a te, il bianco che decide di arrivare fin lì.

L'altro leone terribile e spaventoso che non potrò più scrollarmi di dosso si chiama COLLA. È il maestro della persuasione, seduce in molti, grandi e piccini, senza distinzioni. Promette loro che non sentiranno più la fame, promette loro di fuggire temporaneamente dagli altri membri del suo branco, e di potersi adagiare in un mondo ovattato per dormire. Si nasconde nei vasetti che i ragazzi per le strade si portano sempre dietro, tenendoli tra i denti per poter respirare più facilmente la sua essenza. Rimarrà sempre in me nella figura di giovani adulti imprigionati in corpi di bambini troppo piccoli e troppo magri, in occhi che si porteranno dietro un vuoto che potranno riempire solo resistendo al richiamo di questa sirena. Anche a lui non piace la solitudine e spesso si fa accompagnare da i suoi amici ALCOOL e FUMO.

L'ultimo leone si chiama ABUSO e caccia continuamente. Si nasconde dietro ai volti rassicuranti di familiare e parenti, membri della comunità e datori di lavoro. Una volta che ti ha con sé non ti lascia andare facilmente. È il felino che non si commenta. Semplicemente non si può, con lui ogni parola diventa vana e superba.

E poi abbiamo incontrato chi questi leoni li combatte, con passione e perseveranza, senza cedere allo sconforto. Sono coloro che come il cacciatore di Cappuccetto Rosso squarciano la pancia di queste belve e cercano di rimettere insieme i pezzi di chi, lì dentro c'è stato, ma non si è arreso. Sono coloro che credono in un Kenya migliore, e che una nuova epoca deve e può iniziare anche dalle baraccopoli. Sono quelli che non credono che tutto è perduto, sono quelli che non dicono mai che per qualcuno è persa ogni speranza. Sono i preti e le suore, i social workers e le house mothers che possono incidere la parola "lieto fine" alle fiabe.

In questo viaggio ho imparato che non esiste la magia. Almeno, non con il tradizionale "abracadabra" o con il genio della lampada. Ho scoperto che la magia sta nel sapere che, anche se non tutto può essere sistemato, possiamo sopravvivere quasi a tutto. Senza arrenderci. Con la gioia di vivere. E di credere.
Martina P.