sabato 9 dicembre 2017

Kenya: imporsi, sbagliando, di non piangere



Quando sono uscito dalla stanza per andarlo a chiamare, credevo di sapere bene a cosa stessi per andare incontro. Credevo di trovarlo dove l’avevo visto qualche minuto prima, mentre chiamavo altri ragazzi per alcuni colloqui individuali: invece di fianco alle mucche, chino a sminuzzare l’erba da dare in pasto a queste, c’era soltanto N. Stupido io, a non averlo immaginato subito ai fornelli, era quasi ora di pranzo. Gli dico che dobbiamo parlargli, di venire con me in cappella. Si alza, mi segue, mi chiede il permesso di andarsi prima a pulire. Lo aspetto un paio di minuti, mentre parlo con C. Poi finalmente mi raggiunge, entra dopo di me nella stanza e chiude dietro di sé la porta. Ha gli occhi gonfi ma asciutti, mentre fiumi di parole davvero pesanti gli si riversano addosso ininterrotti. La posa è dritta, ferma, fiera, ma al tempo estremamente debole, arrendevole, sottomessa. Le mani avanti a sé, poggiate sul tavolo, con le dita che intrecciano quello che credo per lui sia l’equivalente di un muro, eretto inconsapevolmente a propria difesa. I piedi scalzi, tozzi, si sfregano tra loro all’altezza delle caviglie. Dalle ginocchia in giù ha ancora addosso dei rimasugli di fango, quelli che non gli è riuscito di rimuovere con la sommaria pulizia che si è auto-imposto. Gli zigomi, duri e pronunciati, delineano in modo grezzo ma deciso il volto di un ragazzo dall’età incerta, uno di quelli a cui daresti a volte quindici anni ed altre venti. 

Mentre J gli parla, non sembra capire esattamente dove voglia arrivare. Sa di aver sbagliato, lo ammette più volte, e continua a negare ogni coinvolgimento di altre persone. Li chiama “gentlemen”. Quando viveva in strada, a Nairobi, stava in una di quelle gang di cui tanto sentiamo parlare. Prima di Cafasso, già in prigione, era per tutti un caso perso, che mai sarebbe resistito in un posto come questo. Perché a Cafasso si è liberi, sì, ma ci sono delle regole molto precise. Ed è proprio grazie a quelle regole che a Cafasso si può essere veramente e finalmente liberi. Sono queste alcune delle argomentazioni con cui J cerca di far leva su di lui, questo ragazzo che vive a Cafasso ormai da sei mesi, e che a Gennaio inizierà la scuola secondaria. Ragazzo che, in questi mesi, è riuscito ad affrontare una forte dipendenza da diversi tipi di droga, sotto effetto delle quali si è trovato, un giorno, tra le mura del carcere minorile di Kamiti. 

Questo ragazzo, dicevo, è stato sorpreso, per l’ennesima volta, a fumare sigarette. Cosa che a Cafasso è severamente vietata, lo dice a chiare lettere anche il regolamento che ogni ragazzo firma quando accetta di essere accolto. Questa volta è stato sorpreso da una guardia di Kamiti, che ha prontamente avvisato J. Caso vuole che ieri un altro ragazzo sia stato portato all’ospedale per un forte mal di testa. Ma tutti i ragazzi, tranne noi, ieri già sapevano: sta male perché quel ragazzo gli ha fatto fumare una sigaretta. E lo sappiamo perché abbiamo parlato praticamente con tutti i ragazzi. Prima parliamo con lui da solo, dopo di che esco a chiamare gli altri tre ragazzi coinvolti, quelli che la guardia ha visto fumare insieme a lui. I ragazzi ripetono le loro versioni, contorte, confuse, a volte si contraddicono, ma il quadro è chiaro e lui stesso lo ammette: lui ha rimediato dei soldi, lui ha comprato le sigarette, lui le ha offerte agli altri. Violando così più di una regola di Cafasso, per l’ennesima volta. 

J gli comunica che, uscito dalla stanza, dovrà preparare tutte le sue cose e andarsene. Finalmente realizza, finalmente capisce cosa sta per succedere. Forse realizzo anche io in quel momento a cosa stavo per andare incontro andandolo a chiamare. Anzi no, forse realizzo dopo, quando parlando con lui gli chiedo dove avrebbe passato la notte, se qualche familiare o qualche amico avesse potuto ospitarlo. Mi dice che andrà a lasciare tutti i suoi vestiti da sua sorella, ma che poi andrà in town. A fare cosa? Non ho avuto il coraggio di chiederglielo. «La conosco come le mie tasche» mi dice. Il venerdì pomeriggio c’è il bible sharing, si legge un brano del vangelo ed ognuno propone la propria preghiera al gruppo. Chiedo se gli va comunque di unirsi a noi, prima di partire. Al bible sharing c’è, è seduto di fianco a me, e partecipa anche lui con una preghiera. Ah, questo ragazzo è musulmano. Oppure invece ho realizzato quando, mentre lo salutavo prima che partisse, mi ha chiesto scusa, promettendomi che avrebbe cercato di smettere di fumare. Credo di non aver risposto, troppo impegnato a non piangergli sulla spalla.

a presto,

Giacomo Centonze

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