venerdì 22 dicembre 2017

Contraddizioni

Beirut è piena di contraddizioni. Non c’è parola che riassuma meglio la prima impressione che questa città trasmette quando ti trovi di punto in bianco immerso nelle sue vie, così simili e al tempo stesso così diverse da ciò a cui il nostro occhio occidentale è normalmente abituato. Contraddittorie sono un po’ tutte le città moderne, spazio per eccellenza dell’incontro tra ricchezza e povertà, luogo dove milioni di individui di diversa provenienza ed estrazione sociale si trovano a convivere lato a lato, dove miriadi di storie individuali e collettive si incrociano, e le differenze balzano subito all'occhio, colpiscono, lasciano spiazzati. Eppure a Beirut, città uscita da quindici anni di guerra civile e da diverse invasioni straniere, l’ultima avvenuta solo una decina di anni fa, queste contraddizioni appaiono elevate all'ennesima potenza,  i contrasti emergono ovunque: tra gli edifici che riempiono la città, tra i mezzi e le persone che la popolano, negli spazi che la compongono, tra la città e la geografia circostante.







Grattacieli altissimi ed edifici moderni disegnano il profilo della città. Eppure, spesso essi sorgono al lato di edifici vecchi e malandati, a volte a pochi passi da case diroccate, alcune delle quali portano ancora i segni di proiettile lasciati dagli anni di guerra. Passeggiando per le sue vie, ci si imbatte spesso in case abbandonate o inagibili, eppure in tutta la città si continua a costruire edifici nuovi, le gru si innalzano al cielo, segnando gli scorci che questa città regala.














Nei quartieri più ricchi locali alla moda in stile occidentale riempiono le strade. A Mar Mikhael, zona di Beirut famosa per la movida notturna, decine di locali ben curati ed arredati con gusto – molto hipster – offrono cibi e bevande di tutti i tipi. Gli interni ordinati e raffinatamente curati nei particolari urtano però con l’ambiente esterno, spesso trasandato e lasciato all'incuria. I marciapiedi sono frequentemente sconnessi e tappezzati di escrementi dei cani portati a passeggio, i bidoni dell’immondizia sistemati lungo la strada in maniera approssimativa, i rifiuti abbandonati per strada. Soprattutto, migliaia di fili elettrici tirati da una casa all'altra ricoprono le strade ed i vicoli, si ingarbugliano attorno ai pali della luce senza apparente logica.





Nei bar e nei pub di Hamra, altra zona famosa per i suoi locali, la gente beve e si diverte, mentre sui marciapiedi circostanti donne siriane circondate da tanti figli, alcuni neonati, fanno l’elemosina, i bambini più grandicelli ti rincorrono, chiedendoti di comprar loro un gelato o qualche caramella. Le strade della città sono percorse da SUV nuovi ed ingombranti – come altrove, la dimensione della macchina sembra un modo per ribadire il proprio status sociale – e da macchine sportive, truccate e rumorose.  I motori potenti e le dimensioni ingombranti delle macchine sembrano però alquanto superflui e poco funzionali, in una città le cui le strade interne sono strette e fittamente parcheggiate e quelle principali sono sempre intasate dal traffico, in cui rimanere imbottigliati è la norma. Nelle stesse strade in cui questi macchinoni cercano di muoversi è possibile incontrare carretti trainati a mano, persone che vendono grano turco bollito ed altri cibi economici, o altri baracchini mobili dove puoi comprare un caffè turco a mille lire (poco più di 50 centesimi di euro). Lo stesso caffè, se comprato nel centro commerciale di Ashrafiyyeh, una delle zone più benestanti della città, può costare cinque o sei volte tanto. I prezzi oscillano in alto e in basso a seconda del quartiere, ed anche la geografia urbana cambia con essi. Esempio lampante è il centro città, completamente diverso dai quartieri limitrofi. Interamente ricostruito dopo la guerra, avrebbe poco da invidiare ai centri storici di tante città europee, con i suoi portici e i suoi edifici eleganti in pietra giallo sabbia. Ma, a causa della speculazione edilizia che ha accompagnato la ricostruzione ed il conseguente aumento dei prezzi, il centro appare oggi desolato, quasi fantasma: le persone che camminano per le sue vie si contano sulle dita di una mano, molti dei negozi e dei bar che dovrebbero animare i suoi portici sono chiusi in attesa di un proprietario, le vetrine impolverate e gli interni lasciati all'incuria. Malgrado le poche persone, le strade sono strettamente sorvegliate da numerosi militari, che camminano fiaccamente per le vie semi deserte.











D'altronde, l’esercito è la manifestazione più tangibile dello Stato libanese, che appare allo stesso tempo estremamente presente ed estremamente assente. Presente nei posti di blocco, nei numerosi militari armati che si incrociano per le strade, nei mezzi blindati che si trovano in giro, come il carrarmato piazzato in mezzo alla rotonda di Daura. Presente anche nella sua forma simbolica: le bandiere con il cedro si vedono ovunque, alcune sventolano enormi come quella in piazza Sassine, una più piccola si muove sui faraglioni di Rauche. Ma assente nella dimensione dei servizi offerti al cittadino, visti il costo altissimo del sistema sanitario, le carenze nella fornitura di elettricità ed acqua, i limiti dei trasporti pubblici. 








Infine, i contrasti sembrano innati persino nella morfologia nel territorio in cui Beirut sorge. Essa è infatti adagiata sul mare ma circondata dalle montagne, basta poco più di mezz'ora di macchina per passare da zero a mille metri, dalle spiagge alle foreste di conifere. Montagne che, a differenza di quelle a cui i nostri occhi sono normalmente abituati, sono però fittamente costruite e popolate, di notte si accendono e migliaia di puntini gialli le illuminano.






Tutte queste sono solo alcune delle contraddizioni racchiuse in Beirut,  città che offre tanto ma pretende tanto, che tanti amano e tanti detestano. Quanto a me, per il momento mi mantengo neutrale, cerco di divincolarmi nel traffico, esploro a piedi la città per tentar di comprenderla. Tra qualche mese, saprò dire a quale dei due gruppi appartengo.

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