Infilo la mano sotto al letto, afferro la zanzariera e la sfilo con un rapido movimento del braccio. Ho dormito
più di 8 ore senza mai svegliarmi, il materasso è davvero troppo comodo. Mi insapono le mani, le sfrego
energicamente, mi lavo la faccia e la situazione inizia a migliorare. Prima di andare mi guardo negli occhi di
sfuggita, con fare distratto, ma fotografo in testa il riflesso vivo di me che lo specchio mi regala. Indeciso tra
l’ingerire o l’espellere, opto per la seconda per ragioni più d’urgenza che di spazio. Metto la musica, alta,
spinta, un po’ per svegliarmi e un po’ per concedermi della privacy. Poi però è il turno delle uova strapazzate,
del pane scaldato al forno e del tè con il latte. Latte che potrebbe rivelarsi nella sua subdola veste di arma a
doppio taglio, ma che riesco elegantemente e virilmente a controllare uscendo di casa con lo zaino alle spalle.
Nell’uscire io e Alice ci affacciamo su una viuzza cieca, utile soltanto a noi e agli abitanti dei due stabili che
affiancano la nostra casa, palazzine tendenti ad essere quello che noi intendiamo per condominio. Svoltando
a destra imbocchiamo la strada che poi si collegherà all’arteria principale, l’unica asfaltata, che attraversa
Kahawa West.
Ma all’arteria principale bisogna arrivarci: incrociamo prima lo spiazzo, ancora vuoto, che conduce alla
parrocchia di St. Joseph Mukasa; ai bordi delle strade mucchi di spazzatura vengono dati alle fiamme, l’odore
è quasi meno fastidioso del fumo nero che investe chiunque debba passare per la via; a dividersi lo spazio tra
una cancellata e l’altra si alternano obbligati più negozi, diciamo baracchini, angusti spazi incavi ricavati tra
le mura che costeggiano la via; prima della curva una manciata di persone è china su decine di sacchi della
spazzatura, divelti per recuperarne il recuperabile; il via vai di persone è abbastanza frenetico, ma per ora si
cammina abbastanza comodi, il passo è svelto perché ormai abbiamo calcolato e preparato il percorso con
fantozziana precisione. Coi passanti il rapporto è di odio e amore, gli sguardi si incrociano fugaci, ci sentiamo
osservati, qualcuno saluta e noi ricambiamo contenti. Sbuchiamo agili fuori dalla via, quando arrivati a questo
punto potremmo continuare sulla via principale, la Kahawa Station Road. Invece l’esperienza ci ha insegnato
che è meglio, poco prima, infilarsi a capofitto tra le corsie che sfilano in mezzo ai banconi arroccati del
mercato che costeggia la strada: arrabattate ma solide strutture in legno piene di frutta e verdura, di scarpe,
magliette e pantaloni, di pile di carbone e di qualsiasi altra cosa possa venirvi in mente. Persino televisori. La
mattina, poi, all’ora in cui passiamo noi, questi vicoli sono incredibilmente abbastanza liberi, incrociamo
soltanto gli ambulanti che con un fascio di saggina spazzano davanti alla propria bancarella. Tutto attorno a
noi il rumore è quello rombante dei matatu che sfrecciano nella strada affianco, quello più caldo e umano
delle grida dei buttadentro, quello dei gemiti sofferti delle galline stipate in minuscole graticole di fil di ferro.
L’odore è quello della terra che ti entra in bocca, negli occhi e nel naso, quello del porridge e del chai che gli
ambulanti stanno cucinando in fornelletti a carbone, quello delle pannocchie grigliate sino a diventare nere,
così come quello rancido di pattumiera bruciata in ogni dove. Usciti dal mercato occorre costeggiare la strada
dribblando matatu parcheggiati e non, schivando e rifiutando inviti più o meno cortesi a salirvici. L’asfalto
della Kahawa Station Road è rovinato a dir poco, assente in più punti, e costringe macchine, motociclette e
bus a gincane azzardate. Occorre attraversare, cosa che alle volte richiede anche un minuto intero quando il
traffico è intenso, nonostante la strada sia soltanto a due corsie. Concetto di corsia che sto cominciando a
rielaborare. Ora ci troviamo sul lato destro della strada, camminiamo attorno ad enormi buche piene d’acqua
e pantani di fango interminabili. Eppure Kahawa di questo sembra vivere, da questo sembra trarre l’energia
magnetica che, sprigionandosi, mi costringe a tenere alto lo sguardo. Entrambi i lati della strada sono un
crogiuolo di insegne e scritte colorate o luminose. Un numero impressionante di macchine aspetta in
autolavaggi decisamente rustici, mentre gli internet point sono già pieni a quest’ora.
Arriviamo davanti ad uno degli ingressi secondari di Kamiti, il quartiere carcerario dove svolgiamo il nostro
servizio, ma qui per ora mi fermo, perché qui inizia un’altra storia. Mi accorgo che un valore inestimabile non
l’hanno soltanto le persone, ma anche i luoghi, persino quelli tanto diversi da sembrare troppo brutti o troppo
belli. Penso a Legnano, alla mia via Torino, a quanto ci tengo e a quanto mi potrà mancare durante
quest’anno. Poi mi giro e riguardo Kahawa West. Poi un flash mi fa sorridere, rivedo il riflesso dei miei occhi
nello specchio: la mattina mi sveglio con gli occhi stanchi, ma con lo sguardo veramente felice.
a presto,
Giacomo Centonze
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