mercoledì 22 marzo 2017

Acqua

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Acqua


Acqua. Questo è stato il pensiero che mi ha assillato a gennaio, quando sono tornata in Italia per la formazione.

E in occasione della Giornata Mondiale dell'Acqua (22 marzo), è ancora questo il pensiero forte e profondo che ho dentro, quello che mi fa pensare davvero a ciò che ho a casa e a ciò che mi ha più stravolto quando il 4 gennaio sono tornata in Italia per tre settimane di formazione.
Arrivavo da due mesi dove un giorno si e un giorno no dovevamo bollire e filtrare 4 o 5 litri di acqua. L'acqua a Nairobi è potabile, arriva dall'acquedotto, ma per noi, che non siamo abituati a quest'acqua, sarebbe impossibile berla senza bollirla. E infatti la bollivamo, filtravamo e la tenevamo in frigo per poterla bere fresca.
A Nairobi, prima di partire, abbiamo incontrato le altre due ragazze che fanno Servizio Civile in Kenya come noi. Però loro sono sulla costa, a Mombasa. Ci hanno subito raccontato che gli ultimi dieci giorni erano stati davvero difficili perché non avevano avuto l'acqua in casa.
Nella zona dove sono loro è quasi un anno che soffrono per la siccità. Durante la stagione delle piogge, che avrebbe dovuto essere ad aprile e a maggio dell'anno scorso, non è arrivata molta acqua, e allo stesso modo la stagione delle piccole piogge, prevista pre novembre e dicembre, non ha dato acqua. Loro per fortuna hanno una casa dove arriva l'acqua pubblica, ma un danno ha rotto le tubature.
Quello che loro mi hanno raccontato mi ha fatto pensare.

E ancora di più mi hanno fatto pensare le parole di Alex Zanotelli, nel suo libro Korogocho, dove racconta la sua esperienza più che decennale in una delle peggiori baraccopoli del Kenya: a Korogocho: “l'unico servizio che fornisce il comune di Nairobi è l'acqua, che però non arriva nelle baracche, ma è portata con delle tubature a punti di riferimento e poi venduta un tanto al secchio da alcuni abitanti della baraccopoli che fanno un contratto con il comune. Così i poveri la pagano più cara dei ricchi. È un fatto che l'acqua per riempire le piscine delle tante ville di Nairobi costa molto meno dell'acqua che si beve nelle baraccopoli” (A. Zanotelli, Korogocho. Alla scuola dei poveri, Feltrinelli, 2003).

Soprattutto quando sono tortnata a casa, ho iniziato ad accorgermi di quanta acqua buttiamo via, che butto via anch'io, nonostante da tempo cerchi di avere uno stile di vita sostenibile e di non buttare via un bene così prezioso. Ogni volta che andavo al bagno non potevo non pensare che noi facciamo i nostri “bisogni” nell'acqua potabile e in Kenya devo bollirla, e sono fortunata io, che ce l'ho a casa!
Noi che abitiamo nella parte ricca del mondo, ci permettiamo di buttare via l'acqua come se ce ne fosse per sempre, e intanto con le nostre politiche vergognose amò modificato il naturale ciclo del clima a una maniera tale che nell'altra parte del mondo non possono nemmeno fare affidamento sull'acqua che viene dal cielo, e devo supplicarla, quando con poco e con niente fino a un centinaio di anni fa l'acqua era sufficiente.
Con i nostri stili di vita che non rispettano l'ambiente, gli animali, le persone, abbiamo contaminato l'aria e l'acqua e adesso bisogna andare chissò dove per trovare acqua e aria pulite.

Secondo me basterebbero davvero poche piccole attenzioni tutti i giorni per fare la nostra parte, e che non si pensi che non possano fare la differenza perché, come dice Madre Teresa di Calcutta “quello che noi facciamo è colo una goccia nell'oceano, ma se non lo facessimo l'oceano avrebbe una goccia in meno”.

PS: in tutto il corno d'Africa la siccità è stata dichiarata calamità naturale
Fonti:

lunedì 20 marzo 2017

riflessioni

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Le giornate qui a Haiti corrono veloci, me ne rendo conto spesso.
Corre il tempo quando attorno a te hai centinaia di bambini che, nonostante le tante difficoltà di questo contesto, sono sempre e comunque bambini: gioiosi, furbi, sempre pronti a farti mettere in gioco, tu e il tuo punto di vista così diverso; sempre pronti a fare caos, bisticciare, scherzare.
Corre il tempo quando attorno a te hai decine di giovani animatori, appena o non ancora diciottenni, con i quali confrontarsi, con i quali divertirsi. Corre veloce il tempo quando attorno a te hai decine di giovani animatori, molti dei quali vivono problemi con i quali non ho mai dovuto scontrarmi prima, nella mia quotidianità italiana.
Corre il tempo in una città, Port au Prince, così caotica nel suo traffico, con la musica per strada, clacson instancabili, pedoni che attraversano da ogni dove, tap tap carichi di giovani studenti .
Corre il tempo nei miei week end, che cerco di passare dedicando dei momenti anche me, solo, a riflettere, pensare.
Corre il tempo ad Haiti, anche se il caldo umido di questi giorni, alle volte rallenta ogni tuo movimento e ti invita a fare tutto più lentamente.
Corre il tempo, ma trovo come ogni minuto sia davvero denso di emozioni,  sentimenti,  paure, gioie e riflessioni.
Corre il tempo e a volte mi piacerebbe fermarlo, altre no. Ma ad Haiti sto anche scoprendo e comprendendo sempre più come sia fondamentale camminare il proprio sentiero, senza troppe preoccupazioni, accettare ciò che viene e cercare davvero, sempre, di portare positività e gioia nei confronti di chi incontri. Nonostante il contesto attorno a te. Nonostante tutto.

martedì 7 marzo 2017

8M Paro Mundial de Mujeres

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                 E anche a Nueva Vida, ci si prepara allo sciopero globale delle donne!



il nostro contributo, con tutto l'analfabetismo tecnologico del caso e la strumentazione decisamente vintage, a questa giornata di lotta.

Buona visione!

Video: 8M Paro mundial de mujeres

https://www.youtube.com/watch?v=qkRNOWngX58&t=13s





domenica 5 marzo 2017

Il carnevale di Oruro

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Immagina di arrivare in una città completamente diversa da quelle a cui sei abituato a vivere, a vedere giorno dopo giorno. Immagina che in questa città ci siano molte case, senza intonaco. Alcune di queste case sono vecchie, altre invece ti danno la parvenza di essere molto nuove. Il colore predominante è il grigio e c’è profumo di terra bagnata perché ha appena piovuto. E tu ti aggiri in questa città completamente nuova, scoprendo e conoscendo una parte di mondo a te ancora sconosciuta. Dopo aver girovagato un po’, giri un angolo e non è più tutto grigio ma la città ha preso vita, ed è tutto super colorato. Sei al carnevale di Oruro. 
Carnevale 
Ti siedi su delle gradinate anche se hai un po’ di paura di cadere di sotto, ma in quel preciso momento non ha importanza, sei al carnevale di Oruro e l’unica cosa a cui pensi è goderti quel momento, quei colori e quell’aria di festa. Tante persone ti avevano parlato di questa manifestazione e ti avevano detto che non potevi per nulla al mondo perdertela. I ballerini sfilano davanti ai tuoi occhi, ballando danze tipiche del carnevale: morenada, diablada, caporales, llamerada, tinku, zampoñeros, waka waka, antawara, phujillay, incas. Indossano dei vestiti veramente belli e coloratissimi. Utilizzano talmente tanti colori che un fanatico della settimana della moda di Milano probabilmente si chiederebbe come hanno fatto ad unire tanti colori così diversi. Ma tu non puoi fare altro che guardarli e pensare al loro significato. Il giornale che hai comprato sul carnevale, infatti, ti spiega bene perché ballano questi balli e non altri. E così scopri che qualcuno rappresenta la lotta del bene contro il male, qualcun altro la schiavitù africana in Bolivia, un altro la popolazione Inca e la scomparsa dell’impero. Ed è tutto super affascinante ed ipnotico. Ogni gruppo di ballerini è accompagnato da una banda. In particolare di grande spettacolo è la “banda Popoo”, ex minatori che adesso suonano e ballano con i loro strumenti, da lasciare senza fiato per la loro bravura. 
Caporales
Ma il carnevale non è soltanto sfilare, suonare e ballare … ci sono anche i venditori di qualunque cosa: birra, cibo di vario genere, spuma, cuscini fatti di polistirolo, coca cola, poncho per la pioggia, zucchero filato e qualunque cosa ti venga in mente. Loro urlano alle persone che sono sulle gratinate e queste agitano le mani per attirare la loro attenzione. 
Purtroppo in ogni cosa bella c’è sempre l’altra faccia della medaglia. Qualcuno ti dice che la lattina di birra la puoi tranquillamente buttare sotto la gradinata, tanto qualcuno la raccoglierà. Infatti se guardi sotto di te c’è una signora con una busta che sta proprio raccogliendo lattine, bottigliette di plastica e lattine di spuma vuote. Ma quello che ti colpisce di più non è tanto la signora quanto i due bimbi che sono con lei. Avranno si e no 7, 8 anni, un cappello e una busta. Probabilmente rivenderanno le lattine e le bottiglie per pochi boliviani. 
Cercando di non pensare a quello che hai appena visto ti butti nella lettura per capire cos’è davvero il carnevale di Oruro. E scopri che è un pellegrinaggio. I ballerini come pellegrini si dirigono verso il santuario della Virgen del Socavón (Madonna della Candelora), per ringraziarla per aver salvato Oruro dalla miseria. Per le popolazioni andine la Virgen rappresenterebbe la Pachamama, la Madre Terra. All’inizio non c’era un percorso stabilito, ma tutta la città si riempiva di colori e da ogni parte ci si dirigeva verso il Santuario, adesso diciamo che è tutto più organizzato. Per qualcun altro, invece, il carnevale ha perso questo spirito religioso ed è solo una festa dove potersi ubriacare in compagnia. Per l’UNESCO invece è “Opera Maestra del Patrimonio orale ed intangibile dell’umanità”. Per te è un altro modo di poter conoscere un popolo, un paese. Un modo per essere un po’ di più parte di questo paese che ti sta ospitando per un periodo. 

"La libertà è come l'aria..."

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"La libertà è come l'aria:
ci si accorge di quanto vale
quando comincia a mancare"
P. Calamandrei

Lago Naivasha al tramonto


Until I came to prison

I grew up in churches
But the word of God never set in
Until I came to prison
I got caught up, made wrong choices, lied and stole
I didn't know the real me
Until I hit these beings concrete
I thought I could do it without God
I thought I could do it with my so-called friends
I didn't realize all the lies and stories people would tell
Until I came to prison
I have struggled, I hustled for what I needed
All the people who said they would be there
Ain't no where to be found
A good friend, one day, told me to sit down and read the Bible
I rolled my eyes but I did it
I started to read about my forgiveness
Everybody who I hadn't forgiven
I did at that very moment
Now I realize God is with me all the time
Until I came to prison I didn't know God but now I do
I don't want to live my life without Him


Finché non sono finito in prigione

Sono cresciuto nelle chiese
Ma la parola di Dio non è mai germogliata
Finché non sono finito in prigione
Sono stato preso, ho fatto scelte sbagliate, mentito e rubato
Non conoscevo il vero me
Finché non ci ho sbattuto la faccia
Pensavo di potercela fare senza Dio
Pensavo di potercela fare con i miei cosiddetti amici
Non avevo compreso tutte le bugie e le storielle che le persone mi raccontavano
Finché non sono finito in prigione
Ho lottato, ho imbrogliato per avere ciò che mi serviva
Tutte le persone dicevano che ci sarebbero state
Ma non le trovavo da nessuna parte
Un buon amico, un giorno, mi disse di sedermi e di leggere la Bibbia
Ho alzato gli occhi al cielo ma l'ho fatto
Ho cominciato a leggere del mio perdono
Tutti coloro che non avevo perdonato
Li perdonai in quello stesso momento
Ora comprendo che Dio è con me in ogni momento
Finché non sono finito in prigione non conoscevo Dio, ma ora lo conosco
Non voglio vivere la mia vita senza di Lui
  
George

sabato 4 marzo 2017

"Tutto col gioco, niente per gioco"

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“Tutto col gioco, niente per gioco”...non mi prenderò il merito per l'ideazione di questa frase, chi ha avuto a che fare con degli scout l'avrà sicuramente già sentita ed io l'ho presa in prestito perché trovo che abbia un grande significato, a tutte le latitudini ma forse qui anche più che in altri posti.

Durante la formazione fatta in Italia dal 9 al 20 gennaio un giorno ci è stato chiesto di descrivere in tre parole in cosa consistesse il nostro servizio secondo noi, cosa caratterizzasse maggiormente le attività che facciamo nei nostri paesi esteri....io tra le parole ho messo GIOCO.

Io presto il mio servizio in una delle baraccopoli più dure che esistano, con le persone più povere al mondo...e gioco.
Sul momento non mi sono resa conto della grandezza di questa cosa ma a un mese e mezzo circa dal mio ritorno ad Haiti sto ripensando e rivalutando tante cose che ho sempre trovato scontate e delle quali oggi invece sto riconoscendo la potenza.

Come ho già scritto molte volte, il centro di Kay Chal al mattino si dedica a quei bambini e ragazzi trasferitisi dalla provincia e che ora vivono da Restavek in case nella capitale, insieme a famiglie affidatarie.
Quando sono arrivata e ho conosciuto questi ragazzi, guardandoli e lavorando con loro non mi sono resa conto di quanto potesse essere dura la loro vita perché a Kay Chal sono bambini e giovani come gli altri, ridono, studiano, scherzano e sembrano sereni.
Poi ho cominciato a fare delle visite familiari insieme ai maestri della scuola presso le case in cui vivono i giovani di Kay Chal mattina e ho scoperto un mondo totalmente diverso e ai miei occhi assurdo, davvero. Ho scoperto che per venire a scuola ora molti ragazzi si alzano alle 4 del mattino e svolgono le faccende domestiche che gli competono, preparano i pasti, puliscono casa e vanno a prendere con i secchi una quantità di acqua che sia sufficiente alla famiglia per il tempo in cui staranno via per venire a Kay Chal. Dopo questo corrono a scuola e li finalmente sono bambini ragazzi come gli altri...fino alle 12 ora in cui tornano alla loro vita di lavori domestici e spesso di abbandono. Inoltre molti di loro sono constretti a rimanere in piedi fino a molto tardi la sera per completare i lavori che devono svolgere.

E allora oggi voglio parlare della grandezza di una cosa così semplice e banale per un bambino e per un adolescente che è il GIOCO ma che a volte e in alcuni contesti può restituire serenità a chi vive in condizioni così difficili.
A noi a Kay Chal non serve molto, una corda per saltare e una palla, delle semplici costruzioni, qualche mazzo di carte e possiamo impegnare le ricreazioni di un'intera settimana, facendo spuntare un bel po' di sorrisi sul volto di chi potrebbe non avere poi
tante ragioni per farlo!

Chi mi ha aiutato a riflettere su questo è stata Suor Maria, la stupenda suora irlandese che con grande passione e pazienza insegna matematica agli alunni di Kay Chal mattina... un lunedì durante la ricreazione io e Federico, come ogni lunedì, abbiamo messo a disposizione la corda e la palla perchè i ragazzi potessero giocare e ovviamente lo abbiamo fatto insieme a loro...noi siamo abituati alle risate dei bambini, siamo entrambi educatori nelle nostre parrocchie e nei nostri gruppi, ma Suor Maria ha guardato più lontano e a ricreazione finita ci ha confidato di essersi commossa vedendo quei bambini e quei ragazzi giocare e ridere di gusto in quel modo, perché la loro vita è così dura che l'essere capaci di divertirsi e di tirare fuori tanta gioia le era sembrata una cosa straordinaria. E forse ha ragione, forse è straordinario!


Grazie a questa esperienza sto riscoprendo e imparando tante cose meravigliose.
Sto riscoprendo la profondità del fare “tutto col gioco ma niente per gioco” e sto imparando a non dare per scontato il sorriso di un bambino perché spesso i sorrisi che vedo qui a Kay Chal sono gli unici che questi ragazzi hanno a disposizione e voglio godermeli tutti!!

A presto.

Silvia

venerdì 3 marzo 2017

"In her shoes", camminando con Estè

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Finalmente riesco a salire verso le montagne, a camminare in solitaria cercando riposo per i cinque sensi, costantemente alla ricerca di un punto di riferimento nella vorticante confusione del piccolo grande caos di Port-de-Paix. Questa domenica mattina è il momento giusto per lasciarsi alle spalle cemento e spazzatura, musica e motociclette. La strada sterrata e polverosa s‘inerpica verso l’alto, attraversa crinali impervi tratteggiati da un artistico patchwork di campi coltivati e da tante casette di lamiera. 


Port-de-Paix dall'alto, l'isola della Tortuga sullo sfondo


Mentre attraverso questo quadro naif inizio a sentirmi seguita, senza voltarmi aumento il passo. Questo provoca uno sfrigolio di tacchi leggero, ma sempre più veloce, che alla fine mi raggiunge. E’ una bambina vestita da festa che scarpina a tutta velocità, con un paio di infradito a tacco alto, su un terreno così accidentato che mette a repentaglio le caviglie anche con gli scarponi. Camminiamo in silenzio fianco a fianco per un po’, senza capire veramente se stiamo andando nella stessa direzione. Le faccio qualche domanda, lei risponde poco convinta, ma ogni volta che mi fermo mi aspetta, e se qualcuno mi inizia a parlare è lei che spiega che stiamo andando a La Croix.
Tra una domanda e l’altra di Estè, che ormai ha sciolto la sua  timidezza, tra i commenti dei passanti stupiti di vedermi da quelle parti, tra i muratori che chiedono soldi e preghiere, tra i contadini che vogliono parlare della Repubblica Dominicana, tra le signore e le bambine che scendono al mercato con le teste cariche di ceste delle verdure dei loro orti, ed il portiere della casa dei frati che mi coinvolge in profonde riflessioni sui pannelli solari, ho tempo per pensare e per lasciare partire la testa tra le nuvole.

“El frágil  sendero de los Caciques desapareció de súbito frente a una lanza clavada en tierra, sostenida por un montón de piedras: el poteau-mitan, la intersección entre el cielo y el lugar de más abajo, entre el mundo de los Loas y el de los humanos. Y entonces los vio. Primero dos sombras, luego el brillo del metal, cuchillos o machetes. No levantó los ojos. Saludó con humildad repetendo la contraseña que le había dado Tante Rose. No hubo respuesta, pero percibió el calor de esos seres tan cercanos, que si tendía una mano podía tocarlos. No hedían a podredumbre ni a cementerio, despedían el mismo olor de la gente de los cañaverales.”
Isabel Allende, La isla bajo el mar

Quasi mi aspetto di trovarmi davanti a questa scena. Risalendo verso la cima mi  vengono in mente le pagine di Isabel Allende che raccontano del nord di Haiti all’epoca delle lotte che portarono all’indipendenza del Paese. C’erano schiavi che non si rassegnavano e scappavano dalle piantagioni dei loro padroni, sfidando non solo la furia di questi, ma anche le alte e sconosciute montagne, che diedero poi il nome a questa terra. 
Camminando su questa strada immagino cosa volesse dire la fuga, il viaggio, l’arrivo a un quilombo, come descrive in questo passo. In questi luoghi i Mawon hanno scelto la libertà, non solo per se stessi, ma per quella che diventerà, a caro prezzo, la prima Repubblica nera della Storia.
Sono passati più di duecento anni, l’orgoglio del passato rimane, ma questo paese non è indipendente. Lo si vede non solo dalle “grandi cose”, le più evidenti, come l’ingerenza politica ripetuta, la dipendenza economica dalle importazioni e dagli aiuti umanitari a pioggia che non permettono lo sviluppo di tutto ciò che qui potrebbe fiorire.  Lo si vede quotidianamente anche dalle “piccole cose”: da i bambini che chiedono soldi o cibo toccandosi la pancia e facendo segni di decapitazione (c’è voluto del tempo ad interpretarlo come “sto morendo di fame” e non come “ voglio farti fuori”), dai banchi del mercato vuoti dopo mesi dall passaggio dell’uragano Matthew, dai prodotti americani che invadono ogni aspetto la vita dell'isola...
La strada per il quilombo è ancora lunga, ma gli Haitiani sono forti. Le responsabilità di chi viene da fuori sono importanti, camminare insieme non è sempre semplice. A volte non si capisce la logica sottesa alle cose, altre volte sarebbe più facile fare noi al posto di qualcuno che vediamo in difficoltà, altre volte ancora restiamo incompresi…
Ecco appunto, torno alla realtà, Este mi chiede di comprarle dell’acqua. Nel suo sacchetto nero non c’è una bottiglietta come pensavo, ma un altro paio di scarpette da messa di ricambio, che ad un certo punto deve infilarsi al posto di quelle che indossa che si sono rotte!... Le sorrido e le passo la mia borraccia.