venerdì 24 maggio 2019

«Ana bil-ghorba»

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Il termine arabo «lghorba» non è traducibile in italiano con una sola parola. Le tre radici di cui è costituito, la غ (ghayn), la ر (ra) e la ب (ba) fanno riferimento ad una sfera semantica particolare, quella legata all’Occidente. I vocaboli che si possono ottenere attraverso la manipolazione linguistica di queste tre radici non sono esclusivamente legati, tuttavia, a delle nozioni geopolitiche (l’Occidente tout court, per esempio) o direzionali (l’Occidente in quanto punto cardinale dove tramonta il sole), ma possono rimandare a dei concetti legati ad una sensazione di estraneità e lontananza fisica o mentale. 

Lghorba è, per l’appunto, uno di questi e porta con sé tutto il peso del suo significato materiale e astratto: non è solo una condizione di effettiva distanza dal proprio paese (che potrebbe essere tradotto in italiano con il termine «esilio»), ma anche un sentimento di congedo – talvolta forzato – dalla propria terra e dalla propria realtà.
La prima volta che sono entrata in contatto con questa parola stavo leggendo alcuni articoli relativi alla migrazione marocchina in Italia, fenomeno particolarmente osservabile in determinati quartieri della mia città natale, Torino. Sapevo, inoltre, che molti giovani cantanti nordafricani avevano dedicato le loro canzoni hip-hop al ghorba, molto spesso denunciando gli effetti devastanti della migrazione forzata verso l’Europa e utilizzando, allo stesso tempo, l’elemento musicale come strumento di riscatto da una vita condannata all'esilio dalla propria terra. Si può dire, dunque, che la mia conoscenza del termine sia stata fino ad un certo momento legata a fenomeni di mobilità e di migrazione economica e/o forzata dai paesi del Nordafrica verso l’Europa. 

Tuttavia, vivendo in Libano e parlando con alcuni amici provenienti da diversi paesi arabi ho scoperto che lghorba viene utilizzato nel linguaggio corrente anche quando la condizione di lontananza è legata ad un progetto personale voluto: ana bil-ghorba, sono nel ghorba e dunque sono distante da casa, dalla mia famiglia. Eppure, se penso alla mia situazione in quanto expat, lontana da casa e dalla famiglia, faccio difficoltà a fare mio questo termine, non solo per una questione strettamente linguistica.


Penso al campo profughi di Tel Abbas, situato nella parte settentrionale del Libano, a 5 kilometri dal confine siriano. Salendo su uno degli edifici in muratura che circondano il campo si possono vedere in lontananza le colline e le prime abitazioni della Siria. Penso a quale sensazione si possa provare ogni giorno scorgendo da lontano il proprio paese, la propria casa, senza poterci tornare.
Il campo palestinese di Rashidieh, costruito sul mare subito dopo le spiagge della città di Sur (Tiro) dista pochi kilometri dalla Linea Blu, la linea di demarcazione tra il Libano e Israele istituita dalle Nazioni Unite nel 2000. Di notte, se il cielo è particolarmente limpido, è possibile scorgere le prime luci della Palestina. 

Nel giro di pochi giorni, da nord a sud, questi due panorami mi hanno travolto facendomi riflettere sul significato del ghorba e sul perché fosse così difficile identificarmici. Una delle tante riflessioni che ho provato a sviluppare riguarda la nascita di questo termine all'interno di un sistema linguistico preciso, quello arabo e, allo stesso tempo, la sua assenza in una lingua come può essere, per l’appunto, l’italiano. Ed è proprio in questo contesto che la parola assume ed esercita potere, nella misura in cui si fa portatrice di disuguaglianze o privilegi, di esclusione o inclusione, assumendo contorni sfumati a seconda della direzione in cui si guarda. 


La spiaggia di Sur (Tiro). In lontananza, il campo palestinese di Rashidieh. 



lunedì 20 maggio 2019

Tumaini Group

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"Buongiorno mi chiamo Getray, ho 28 anni e lei è la mia bambina Ann di un anno. Sono keniana, arrivo dal nord Nairobi e ho quattro sorelle.
I miei genitori, le mie sorelle ed io vivevamo sopra Nairobi, fino a quando nel 2012 è morto mio papà e le nostre vite si sono dovute separare. Sono stata per qualche periodo a casa delle mie sorelle, ma presto ho dovuto trovare una soluzione, una svolta per me stessa.

Mi è stato proposto da una donna di trasferirmi con lei a Mombasa, mi avrebbe ospitata e mi avrebbe offerto un ottimo lavoro. Così ho preparato i miei bagagli e mi sono trasferita in questa città nuova, sul mare.
La donna usciva tutte le notti per lavorare, mi diceva che lavorava in un hotel e che presto mi avrebbe introdotta lì. Una sera, dopo cena, mi ha detto di prepararmi perché sarei andata con lei al lavoro. Mi ha portata a Bamburi dove ci sono tutti gli hotel, ma non siamo entrate in nessuno di quelli. L'ho seguita fino a che siamo arrivate in spiaggia. Era notte fonda. Era tutto buio.
Mi ha detto: <Getray guarda come si fa, così poi lo fai anche tu e guadagni tanti soldi.> La osservavo mentre si approcciava a degli uomini e poi è scomparsa.
Ho iniziato a prostituirmi a vent'anni per guadagnare dei soldi per pagare l'affitto e procurarmi del cibo. Ho lavorato intere notti senza prendere un soldo, ho venduto il mio corpo in cambio di percosse e qualunque tipo di violenza fisica, mi hanno drogata per ricevere del buon sesso e non ho guadagnato uno scellino. Nemmeno uno.

Poi mi sono innamorata di un uomo, siamo andati a vivere insieme e ho finalmente smesso di fare quell'orrendo lavoro. Pensavo di esserne uscita, invece no! Beveva, si drogava, mi picchiava e continuavo a vivere in un incubo.
Sono tornata a prostituirmi per dare da mangiare alla piccola Ann, la nostra bambina. Mi vergognavo di fare quello che facevo. Non ce la facevo più a vivere quella vita, così sono venuta qui in parrocchia a Mtopanga a chiedere aiuto, ho parlato a lungo con Sister Agnes, che mi ha ascoltata per ore.

Fort Jesus, Old Town, Ann, Getray ed io




Ora, Ann ed io, viviamo in una casetta qui a Mtopanga. Io insegno in una Primary School e pago una babysitter che si prende cura della mia bambina dal lunedì al venerdì.
Ringrazio Sister Agnes per l'immenso aiuto che mi ha offerto e ringrazio voi per essere qui ad ascoltarmi."









Questa è la storia di una delle 60 donne che oggi, qui a Mtopanga, una slum di Mombasa, fa parte di un progetto iniziato a gennaio 2019 grazie al supporto di Sister Agnes.
La suora le tiene impegnate in parrocchia, facendogli pulire la chiesa, il cortile, in cambio di cibo per i loro bambini.
Da qualche settimana Giorgia ed io, insieme a Sister Agnes, organizziamo degli incontri con il Tumaini Group -gruppo della speranza- per concedere a giovani donne momenti di svago, di confronto, di dialogo e di gioco.
Inoltre, insegniamo la lingua inglese in quanto la maggior parte di loro parla solo swahili e abbiamo iniziato a creare braccialetti, collane e orecchini così da poterli vendere e ricavare qualche scellino per fare la spesa.


Tumaini group alle prese con braccialetti, collane e orecchini 




domenica 19 maggio 2019

Il tempo vola, io non sono capace.

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Allora pagina bianca eccomi, è tanto che mi prometto di aprirti e riempirti di colore ma poi rimando sempre.
Se devo essere sincera ho fatto più fatica a connettere tutti i miei pensieri che trovare il tempo fisico per scrivere…ma comunque eccomi qui. Io tu e la mia playlist preferita di spotify, speriamo di fare grandi cose insieme.

La temperatura si è abbassata, le piogge sono arrivate, qualche frase di swahili la parlo, ogni giorno si aggiungono sorrisi e saluti lungo la strada che facciamo per andare a lavoro.
Tutto è dove deve essere, mi sento sempre più a casa.
Una casa che è stata accogliente fin da subito ma che con il tempo sta diventando sempre più mia.

Il tempo è magico, e non è una scoperta importante come l’acqua calda eh, però è una consapevolezza grandiosa.
E non mi riferisco alla quantità di esperienze che si possono fare in 24 ore ma a quanto i sorrisi, gli abbracci, i “ciao, come stai?”, le strette di mano diventino sempre più pieni di vita. Di come una relazione abbia sempre una piccola mattonella colorata in più, ogni 24 ore. Per me è magia.

E pagina bianca, meno male che non puoi rispondermi se no, giustamente, mi diresti “grande Giorgia, non sei proprio svelta se ti ci sono voluti 26 anni per capirlo” e io ti risponderei semplicemente che hai ragione. Che fino ad ora, per fortuna o forse no, la mia fiducia è sempre stata data per scontata ma è anche sempre stata corrisposta quindi non ho mai fatto grandi ragionamentoni in merito.
È da qualche mese che, senza che lo avessi immaginato, sono nella condizione di dovermi guadagnare la fiducia di altre persone e che fatica!! Giuro che è faticosissimo pagina, a tratti demoralizzante.
Cioè dico..prendo la decisione di partire, mi candido, faccio le selezioni, passo le selezioni, faccio la formazione, prendo l’aereo, atterro, schivo l’attacco di dissenteria che avevo quotato, imparo a vivere in una nuova città che di quelle viste fino ad ora ha poco in comune, imparo una nuova lingua, imparo a non urlare ogni scarafaggio che vedo, imparo i nomi dei cibi tipici e va beh..li mangio anche. Cioè nel senso direi che di motivazione un pò ne ho e che quindi un pò di fiducia, così a occhio, potrebbero darmela..invece no.
Fin da subito ci hanno dato disponibilità e rispetto e mi rendo, ora, conto che é già tanto. Poi noi, piano piano con le nostre gambine e manine abbiamo iniziato a conoscere e a proporre e i risultati sono arrivati eh, ma non erano pienamente come me li aspettavo. Come quando alla sera vai a letto soddisfatto ma non del tutto e non sai il perché, non capisci proprio dove puoi migliorare.
Poi, pole pole capisci che l’errore non sei tu e non è nessuno..è semplicemente la mancanza di fiducia.
Che una direttrice di un centro di sicurezza per minori non ti può dare fiducia solo perché sei la Giorgia che viene dall’Italia con tante belle ideucce, non funziona così.
Che la fiducia è tempo, è giornata, è condivisione, è comprensione, è saper contestualizzare, è conoscere, è apprezzare..e non esiste uno starter pack con queste caratteristiche, serve solo tempo. E non può essere comprato..da nessuna MasterCard. E per te non è magico quello che il tempo e la fiducia riescono a costruire? Per me va quasi oltre la magia, nel senso che non vedo l’ora di iniziare la giornata per vedere dove ci porterà.

 Poi va beh come per tutte le cose belle, cara pag., c’e un però..il tempo, con il suo profumo, vola e io invece vorrei stringermelo forte al petto sempre di più. Lui e i momenti che mi sta facendo vivere ma sono fiduciosa che troverò una soluzione.
Nel frattempo ti saluto che anche il tempo per dormire è importante e io ho proprio sonno e poi, andare a letto piena di felicità per la giornata appena passata è, come già detto, ben oltre ogni magia.


A presto,
Giorgia.

martedì 14 maggio 2019

Redes de Solidaridad: un progetto per Nueva Vida

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Nueva Vida è un quartiere periferico di Ciudad Sandino, nato a seguito del disastro ambientale causato dall’uragano Mitch del 1998. Da 12 anni, l’associazione Redes de Solidaridad permette lo sviluppo di una formazione complementare che punta a rafforzare negli studenti l’intelligenza emozionale, sociale ed etico valoriale.
Il progetto “Contribuir al desarrollo de la comunidad de Nueva Vida y de Ciudad Sandino por una vida sana y sin violencia”, sviluppato dall’associazione Redes de Solidaridad nel 2018 ha avuto l’obiettivo di garantire l’accesso ad un’educazione di qualità per giovani ed adolescente del quartiere focalizzata sui temi dell’uguaglianza di genere, dell’educazione alla pace e al rispetto dell’ambiente. Per raggiungere questi obiettivi la formazione proposta non è stata meramente formale, ma ha puntato piuttosto alla presa di coscienza di sé stessi e del proprio impatto nel mondo circostante.
L’attenzione è stata rivolta soprattutto ai problemi ambientali, anche a causa della mancanza di una rete fognaria e dalla presenza smisurata di rifiuti per le strade.


Strada di Nueva Vida

Nueva vida

Attraverso l’utilizzo di una metodologia di educazione popolare, volta alla coscientizzazione dell’individuo, gli alunni della scuola tecnica e del Centro Scolastico sono stati coinvolti in dibattiti, alternati ad attività pratiche e creative, sperimentando anche la messa in scena di storie inerenti alla tematica
Un’altra delle tematiche affrontate è stata quella della violenza e disuguaglianza di genere. Lo sguardo è stato rivolto agli elementi di vita quotidiana degli studenti, tentando di mettere in luce le immagini stereotipate della forte cultura machista, analizzarle e discuterne. La situazione politico-sociale e i tumulti popolari che hanno coinvolto la nazione e la città a partire da aprile, hanno portato a una rimodulazione del tema della violenza di genere, ampliando lo sguardo nel concetto stesso di violenza e di conseguenza, di cultura di pace. Gli studenti della Scuola Tecnica hanno poi provveduto, a seguito fi un laboratorio di giornalismo, appartenente allo stesso progetto, a riportare tutte le attività svolte e le esperienze vissute, in un giornale scolastico online consultabile al seguente link
Il progetto sviluppato da Redes de Solidariedad e cofinanziato dalla Caritas nel 2018 ha coinvolto docenti e alunni di scuola primaria e tecnica alla sensibilizzazione sui temi del rispetto dell’ambiente e della cultura di pace di più di 200 partecipanti. Per il quartiere di Nueva Vida questa è stata un’esperienza di riflessione sul proprio ruolo nel quartiere e nel mondo come agenti del cambiamento. Purtroppo quest’anno, viste la difficile situazione socio-politica non è stato possibile formare la scuola Tecnica e svolgere azioni che coinvolgano in maniera massiva il quartiere e per questo si è puntato al rafforzamento dell’identità del Centro attraverso la promozione di tematiche legate all’equità di genere, la salvaguardia dell’ambiente e la cultura di pace. Si sta puntando inoltre a promuovere un’educazione per i ragazzi del Centro Scolastico che sia di qualità, che coinvolga i genitori per fare in modo che prendano coscienza del fatto che l’educazione può rappresentare un mezzo per superare la povertà.

Biciclette e machismo: viaggio a pedali nella jungla urbana

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Per molte persone il muoversi in bicicletta ha un valore multiforme: pedalare in città migliora la vita personale l’ambiente esterno. Va da sé che spostarsi in bicicletta modera il traffico, riduce l’inquinamento, cambia l’assetto della mobilità urbana, ma oltre a questo, ciò che rende davvero speciale lo spostamento in bicicletta è che il paesaggio circostante assume un aspetto diverso. Con quella giusta velocità intermedia fra lo spostamento a piedi e su un mezzo motorizzato, il muoversi in bici permette di avere una visione d’insieme del paesaggio circostante che non tralascia i dettagli. Abbastanza veloci per sentire il vento fra i capelli, abbastanza lenti per godere dei particolari inaspettati che la strada riserva, i ciclisti di tutto il mondo sono concordi nell’apprezzare il valore terapeutico della propria bicicletta. I ciclisti urbani spesso pedalano proprio perché pedalare li rasserena.

Vivo a Managua da tre mesi e, nonostante il mio amore incondizionato per la mobilità su due ruote, ci ho messo un po’ a prendere coraggio per ricominciare a pedalare. Il timore maggiore era dato dalle strade troppo spesso intasate da un traffico crudele e sregolato. Gli incidenti mortali in pieno giorno non sono rari, la segnaletica stradale sì, è rara; i semafori sono spesso un optional, le piste ciclabili non esistono. Non che sia schizzinosa nello scegliere dove pedalare o meno, ma tutti questi fattori, sommati, mi hanno fatto rimandare la decisione di pedalare per mesi. 
Nel frattempo mi sono spostata sempre in bus o a piedi. Mi piace molto camminare, ma devo tristemente ammettere che camminare a Managua è spesso snervante a causa di una buona parte degli uomini che vivono la strada come fossero degli animali in una squallida stagione dell’amore. Per alcuni degli uomini che vagano per le strade di Managua (per molti, oserei dire) il corteggiamento è un atto da praticare costantemente e incondizionatamente, senza la benché minima eleganza ma, anzi, sempre con un tocco di prepotenza. Gli apprezzamenti sono sempre sfacciati e svilenti, e provengono da uomini di qualsiasi età: dal ragazzino appena uscito da scuola all’anziano alla fermata del bus, non si risparmiano nemmeno i padri con figli fra le braccia che, anzi, danno sin da subito il viscido esempio agli innocenti bambini che li accompagnano. Baci e versi salivosi con lingue che cercano sempre una nuova posizione per emettere una vasta gamma di quei suoni che siamo soliti indirizzare agli animali per avvicinarli. E poi fischi, fischi e ancora fischi. Frasi delle più variegate, complimenti coloriti, riferimenti sessuali, sguardi languidi. Il tutto fatto sfacciatamente, senza accenni a nascondersi, anzi, piuttosto avvicinandosi per bene alla faccia della donna prescelta, in modo tale da farle ascoltare al meglio lo schiocco del salivoso bacio che le si sta indirizzando.
È stato anche per questo che ho deciso di riprendere in mano una bici, per provare a superare il trauma da macho-corteggiatore nascosto dietro ogni angolo mentre ci si sposta a piedi. Un amico mi ha prestato la sua bici e ho ricominciato a pedalare.



Mi sono bastate due pedalate per rendermi conto di quanto mi fosse mancato muovermi su due ruote, di quanto il fatto stesso di potermi spostare indipendentemente dai percorsi preimpostati dei bus o dei taxi, mi facesse rivivere una rinnovata autonomia per la quale avevo provato una grande nostalgia. 
Mi sono bastate un paio di pedalate in più per rendermi conto che del machismo callejero non mi ero affatto liberata, anzi. La velocità media fra lo spostamento a piedi e quello motorizzato, permette a chiunque di attuare i suoi viscidi rituali di corteggiamento, indipendentemente da come e se si sta spostando. Motociclisti, taxisti, camionisti, e chi più ne ha più ne metta, tutti mi inviano una suonata di clacson che mi fa sobbalzare sul sellino, rallentano per accostarmisi e farmi un occhiolino, indirizzarmi un bacio o uno dei loro squallidi versi: prendono la mia velocità per fissarmi bene dal finestrino. Gli uomini a piedi mi urlano dietro, in modo tale che il vento non mi impedisca di ascoltare le loro inutili parole. Tutti coloro che ne hanno voglia si sentono in diritto e in dovere di molestarmi, sono solo una donna qualsiasi che va tranquilla per la sua strada. Ho anche un aspetto sobrio e nient’affatto appariscente, ma questo poco importa.

Il machismo in Nicaragua è forte, e spesso è normalizzato sia dagli uomini che dalle donne. Gli atti di volenza sono ricorrenti ed impuniti, La Prensa, il quotidiano nicaraguense più diffuso, riporta di 21 femminicidi registrati nei primi quattro mesi del 2019: uno ogni sei giorni. Le donne in strada, ma anche dentro le proprie case, non sono al sicuro. Trovare il coraggio di denunciare spesso non porta ad altro che alla derisione di un agente che non ti prende sul serio.
Ho continuato a pedalare, e nonostante i fischi, i commenti, i versi, il vento mi passava fra i capelli, il corpo si adattava a una nuova velocità e, pedalata dopo pedalata, la serenità tipica da bicicletta è stata dilagante. Metto da parte la rabbia e mi prendo la libertà di deridere loro e le loro molestie, di ridere sola con me stessa dei loro tentativi di approccio, tanto viscidi quanto vani. Mi concentro sul respiro, sul ritmo dei pedali, su quei dettagli della strada che solo se visti da una bicicletta assumono una luce così bella. Metto da parte la rabbia e Managua mi sembra bella come non l’ho mai vista prima.