Il termine arabo «lghorba» non è traducibile in italiano con una sola parola. Le tre radici di cui è costituito, la غ (ghayn), la ر (ra) e la ب (ba) fanno riferimento ad una sfera semantica particolare, quella legata all’Occidente. I vocaboli che si possono ottenere attraverso la manipolazione linguistica di queste tre radici non sono esclusivamente legati, tuttavia, a delle nozioni geopolitiche (l’Occidente tout court, per esempio) o direzionali (l’Occidente in quanto punto cardinale dove tramonta il sole), ma possono rimandare a dei concetti legati ad una sensazione di estraneità e lontananza fisica o mentale.
Lghorba è, per l’appunto, uno di questi e porta con sé tutto il peso del suo significato materiale e astratto: non è solo una condizione di effettiva distanza dal proprio paese (che potrebbe essere tradotto in italiano con il termine «esilio»), ma anche un sentimento di congedo – talvolta forzato – dalla propria terra e dalla propria realtà.
La prima volta che sono entrata in contatto con questa parola stavo leggendo alcuni articoli relativi alla migrazione marocchina in Italia, fenomeno particolarmente osservabile in determinati quartieri della mia città natale, Torino. Sapevo, inoltre, che molti giovani cantanti nordafricani avevano dedicato le loro canzoni hip-hop al ghorba, molto spesso denunciando gli effetti devastanti della migrazione forzata verso l’Europa e utilizzando, allo stesso tempo, l’elemento musicale come strumento di riscatto da una vita condannata all'esilio dalla propria terra. Si può dire, dunque, che la mia conoscenza del termine sia stata fino ad un certo momento legata a fenomeni di mobilità e di migrazione economica e/o forzata dai paesi del Nordafrica verso l’Europa.
Tuttavia, vivendo in Libano e parlando con alcuni amici provenienti da diversi paesi arabi ho scoperto che lghorba viene utilizzato nel linguaggio corrente anche quando la condizione di lontananza è legata ad un progetto personale voluto: ana bil-ghorba, sono nel ghorba e dunque sono distante da casa, dalla mia famiglia. Eppure, se penso alla mia situazione in quanto expat, lontana da casa e dalla famiglia, faccio difficoltà a fare mio questo termine, non solo per una questione strettamente linguistica.
Penso al campo profughi di Tel Abbas, situato nella parte settentrionale del Libano, a 5 kilometri dal confine siriano. Salendo su uno degli edifici in muratura che circondano il campo si possono vedere in lontananza le colline e le prime abitazioni della Siria. Penso a quale sensazione si possa provare ogni giorno scorgendo da lontano il proprio paese, la propria casa, senza poterci tornare.
Il campo palestinese di Rashidieh, costruito sul mare subito dopo le spiagge della città di Sur (Tiro) dista pochi kilometri dalla Linea Blu, la linea di demarcazione tra il Libano e Israele istituita dalle Nazioni Unite nel 2000. Di notte, se il cielo è particolarmente limpido, è possibile scorgere le prime luci della Palestina.
Nel giro di pochi giorni, da nord a sud, questi due panorami mi hanno travolto facendomi riflettere sul significato del ghorba e sul perché fosse così difficile identificarmici. Una delle tante riflessioni che ho provato a sviluppare riguarda la nascita di questo termine all'interno di un sistema linguistico preciso, quello arabo e, allo stesso tempo, la sua assenza in una lingua come può essere, per l’appunto, l’italiano. Ed è proprio in questo contesto che la parola assume ed esercita potere, nella misura in cui si fa portatrice di disuguaglianze o privilegi, di esclusione o inclusione, assumendo contorni sfumati a seconda della direzione in cui si guarda.
La spiaggia di Sur (Tiro). In lontananza, il campo palestinese di Rashidieh. |
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