giovedì 16 settembre 2004

Il punto due

Nessun commento:
1 6 l u g l i o 2 0 0 3 - 1 6 s e t t e m b r e 2 0 0 4

Se si parla di punti urge assolutamente una voce autorevole che si imponga, quindi chi meglio del rispettabile Signor Larousse per far chiarezza.
Pongo distrattamente e incoscientemente alla sapiente attenzione del lettore tre parole che accompagneranno trasversalmente il resto di questo tentativo di testo denominato punto due

(si è deciso, dato il ritrovamento in terra messicana del suddetto, di trascrivere tali e quali le lettere ri-trovate im-presse).


Cooperación: s.f. Participación a una obra común.
Cooperador, ra o cooperante: adj y s. que coopera.
Cooperar: v.i. Obrar conjuntamente, con otra u otras personas, para un mismo fin.

Il solito problema ritorna a galla e si ripone silenzioso e implacabile alla luce: il punto di vista, annoso e faticoso dilemma del porre il punto di vista. Una sveglia talvolta potrebbe aiutarci, una sveglia che è l'arrivo di un'altra persona, un incontro, un soffio del vento.
Le immagini di Rocco, le sue parole lì sopra di impressioni di pelle e la sua faccia qui sono un trillo che mi fa guardare un poco indietro, operazione per la quale ammetto il mio essere assolutamente restìo, una scossa che mi chiede di rivedere quattrocentoventicinque giorni. Un'istantanea difficile da dipingere pensando alla durata, ma pur sempre istantanea; in una foto, infatti, ci son mille istanti, quello dei soggetti ritratti, le vite delle assi delle loro case, le cellule che si muovono, le piante di caffè sullo sfondo, le galline, l'odore e la storia della terra rossa.
Le immagini e la terra, la Santa Madre Terra che ci circonda e la domanda di Rocco sull'essere inutili qui: si parte bene quindi.

Il sentirsi inutili è un gran punto di partenza, dopotutto cosa ci si fa qui? Cosa portiamo e apportiamo a un popolo che lotta da oltre cinquecento anni contro un'invasione e dominazione che passati gli anni si ricicla sotto diverse etichette più o meno light?
Cosa ci facciamo in Chiapas, dove dalla fine degli anni sessanta finalmente gli indigeni e i contadini stanno lottando per affermare i propri diritti?

Cosa ci facciamo qui, esportatori di pace e democrazia chirurgica quando in Italia, in Europa, in questo Santo Occidente Ridente siamo pieni di contraddizioni, siamo pieni di noi, siamo contraddizioni camminanti.

Caro Rocco, benvenuto, l'importante è camminare e i piedi son macchina del pensiero, così mi hanno insegnato gli indigeni: takal, takal, passo, passo dicono i tojolavales.
L'importante è essere qui, vivere con loro, pelle sulla pelle, carni e sudori che si mescolano, ascoltare, rotolarsi nel fango, sprofondare i piedi nel fango e uscirne; quattro piedi camminano meglio che due soli. Qualcosa si può, qualcosa forse ci spetta, forse una sfida personale, forse il riscatto umano di un popolo, il nostro, di invasori pentiti.
Dopo un anno son convinto che a questo livello, quello dei rapporti con le sofferenze quotidiane e delle lotte di gruppi locali, di comunità, di uomini e donne, qualcosa, probabilmente la solita goccia di cui si parla, si può portare. Un cambio locale, piccolo ma deciso e decisivo esiste.

È passato un anno dal fattore O (Oventic), dai Caracoles zapatisti, le alternative esistono, una vita degna costruita dal basso fiorisce. E son questi fattori che a volte mi permettono di non scorgere il cielo nero.

Ma ora cambio, cambio il punto di vista, mi butto su altri livelli e purtroppo non vedo i fiori che abbondano nelle comunità. Atterro sui piani dell'incidenza politica e mi chiedo se quello che facciamo basta, o ci basta solo come retroalimentazione della coscienza.
La sensazione resta quella di Davide e Golia: come non posso non pensare che non serva a nulla quello che facciamo se poi i vari governi non ascoltano le grida disperate dei loro popoli? Se poi questi signori recepiscono solo le sirene con etichette a forma di dollari?

Cosa stiamo facendo qui???

Credo che si stia giocando una partita ad armi impari e l'arbitro perdipiù appartiene alla loro squadra. Coscientizzare forse è la parola adeguata. Ma una volta coscienti i popoli delle ingiustizie e dei vari piani-progetti dei governi che significano razzie e non sviluppo, che fare?

Il terzo soggetto intermedio si impone ora nel confuso discorso, le organizzazioni non governative, le ONG. Inserendo quest'altro ingrediente la ricetta non migliora affatto.
Le tre lettere quando ero in Italia mi sembravano una marchio di una agenzia di viaggi, ora mi suggeriscono altre letture e penso a un organismo nidificante garantito: un essere che nidifichi dove lo spazio è di altri, dove le decisioni dovrebbero arrivare dalle popolazioni locali, dal basso, un intruso che fa il lavoro che dovrebbe garantire invece un governo e che perlopiù si alimenta degli stessi finanziamenti destinati alle comunità. Non vorrei generalizzare drasticamente (esistono anche buoni tra i cattivi) ma l'esperienza su queste terre mi ha fatto vedere ong che si riunivano coi governi e non con la gente (Cancún ne è stato l'apice), ong che impongono modelli occidentali in regioni dove esistono esperienze millenarie di organizzazione e utilizzo delle proprie risorse.

Non è un altro modello di imposizione? Imporre progetti per lo sviluppo?
Quale e di chi, poi?
Questi popoli sono ricchissimi, non sono poveri, sono impoveriti, altrimenti non si spiegherebbero i grandi interessi commerciali per queste mille risorse locali.
Quindi, come ci suggerisce il signor Larousse dove possiamo trovare questa opera comune alla quale possiamo partecipare?
Quale è il fine comune dell'operare congiuntamente?
Co-operare significa lavorare con e non atterrare come nave spaziale nella selva.
Dove si nascondono questi principi fondanti la cooperazione se i governi non li hanno mai avuti e le ONG li hanno persi?
O forse ha ancora senso parlare di cooperazione? Molti butterebbero nella spazzatura pure questa parola, io credo che vada riscattata nel suo significato originario e la riscatto giorno per giorno dal basso, con la gente, nelle comunità.

La speranza sboccia con la nebbia del mattino della selva con i movimenti sociali, con braccia e gambe. Cosa siano poi questi movimenti sociali macroregionali o latinoamericani è tuttavia in via di definizione e lo spazio non ci permette di aprire altre parentesi.
La mattina dopo di una notte precedente il lettore cd gracchia stanco e mi offre lontane lettere che fanno: "la fantasia dei popoli che è giunta fino a noi non viene dalle stelle [...] non è colpa mia se esistono i carnefici, se esiste l'imbecillità, se le panchine son piene di gente che sta male [...] up patriots to arms, engagez-vous [...] "

[cit. franco battiato]
.

Una tazza di caffè che riscalda e ritempra il cuore e si ri-inizia di nuovo a rabattarsi e ributtarsi in una giornata di Chiapas.

Pués, sí...
[sfridi]

Il punto uno

Nessun commento:
1 - 1 6 s e t t e m b r e 2 0 0 4

Un'immagine: intorno a un tavolo\scrivania, due bottiglie di vino aperte con martello e cacciaviti, una pizza poco cotta che si farà sentire nella notte e un discorso che nasce da una semplice frase detta per far ridere un po': "l'importante è essere felici".
"Come si fa ad essere felici? Siamo qui, festeggiamo un compleanno, vino e pizza, io non sono felice, i miei amici non hanno né vino né pizza in questo momento".
"E se una persona fosse felice bevendo? Cosa dovrei fare? Farla bere in continuazione?".
" C'è anche chi è contento a fare soldi togliendo la terra a noi contadini! Che dovremmo fare allora? Farlo felice? Dargli la nostra terra?".
Risata di tutti, io con loro, la mia diversa però.

La terra? Cosa ne so io? Cos'è la terra? La terra è terra, non è altro, è terra altrimenti si chiamerebbe con un altro nome, magari pizza, magari vino.
Io ho la mia terra, posso farne un campo di fiori, costruirci una città, possa addirittura non farne niente e tenerla lì e vedere cosa succede quando la natura si rimpossessa di se stessa.
I contadini sono felici se hanno la terra, anche loro non sarebbero contadini altrimenti, si chiamerebbero con un altro nome, magari pizza, magari vino.

Un gessetto nelle mani, "delle persone mi hanno spiegato che la nostra società è come una piramide, alla punta ci sono i politici, il governo, guadagnano un sacco di soldi, subito sotto c'è la classe media, intellettuali, quelli che hanno studiato, poi ci siamo noi, i campesinos e noi non abbiamo proprio niente, niente, solo la terra, e se ce la portano via? Che abbiamo noi?".

Seduto accanto alla lavagna, annuivo, non potevo dire altro. Però pensavo a una cosa. Certo che queste persone non assomigliano in nessun modo a Brad Pitt o a Mel Gibson. Sono più bassi di me, e io non sono alto, sono magri come me però scuri di pelle, più di quando mi abbronzo, hanno dei baffetti non proprio bellissimi e certo più brutti del pizzetto che ho coltivato fin da quando sedicenne camminavo con i 7 peli che stavano crescendo sotto il mento.
Qualcuno aveva spiegato della piramide e uno di loro me la ripeteva come l'aveva ascoltata. L'idea della piramide gli piaceva proprio, tutto funziona così. Ricordo che anche a me piacque tanto questa immagine quando la maestra alle elementari mi spiegava della struttura sociale nell'antico Egitto. La piramide si ricorda sempre, chissà perché.

Un'altra immagine da ricordare: il machete. Deludente per certi versi. È un grande coltello, una via di mezzo tra una spada, una sciabola e un coltello da cucina. Bruttino, però taglia! Con un gesto lento della mano da destra verso sinistra, stando attento a non portarmi via un piede, ho tagliato un ciuffo di erba solo sfiorandolo. Mi ha ricordato una scena del film "La guardia del Corpo" quando lei, cantante di fama, gioca con una spada e lui, un po' bello e dannato, duro ma con un cuore grande così, le si avvicina, le sfila il foulard di pura seta, lo fa volteggiare in aria e ricadere giusto giusto sulla spada. La spada ferma, immobile lo taglia e lei cade tra le braccia di lui.
Loro lo usano per tagliare l'erba e io lo provavo e pensavo a questo e alle guerre non intelligenti.

In queste notti, quando mi stendo sul letto mi sento strano e non è solo per la pizza o per i fagioli e tortillas che si mangiano. Provo una sensazione di fastidio che non sempre capisco. Perché quando loro mi parlano o mi guardano con quegli occhi io mi sento piccolo, mi sento un po' inutile, un po' sbagliato, come se avessi capito poco e caspita che di libri ne ho letti! Non sono un dotto però la mia laurea ce l'ho! Ero quasi pronto ad entrare nel mondo del lavoro, avevo praticamente un piede e mezzo dentro prima che venissi qui. Però non mi sento a posto.
Alcune volte, addirittura, provo una cosa difficile da decifrare, sento che mi piacerebbe essere per alcuni momenti della mia vita come loro ed essere capace di trovare la cosa giusta, capace di lottare per la terra, questa caspita di terra, lottare per la verità di qualcosa, un solo contadino senza terra, con la maschera, perché non sono io ma la mia felicità che è quella degli altri e di quel contadino e vorrei guardarmi dentro e sapere che sarei capace anch'io di giocare con la mia vita perché tutto continui, anche senza di me, ma in un modo più bello.

Poi mi addormento... e dormo un sonno profondo e prima di riaprire gli occhi immagino la mia casetta fuori dalla città, con tutti i confort ma nel pieno di una campagna, immagino il mio cane e dei bambini da accompagnare a scuola, immagino il traffico della tangenziale e il clacson che impazzisce. Mi lavo i denti, scendo a fare colazione e un uomo con quei baffetti mi dice "Buon giorno".
Lo saluto, beviamo insieme un caffé, mi offre un po' del suo pane dolce. La casetta si sfuma un po', mi dice "Grazie di essere qui", e io inizio di nuovo a non capire e inizia un'altra giornata in Chiapas.
[rs]

lunedì 6 settembre 2004

Etiopia 2004: torneremo, è una promessa!

Nessun commento:
‘Torneremo: è una promessa’,  sussurra con gli occhi umidi Federica, 35 anni di Udine.
‘Tornate, vi aspettiamo’, chiede Musé, 18 anni di Addis Ababa, nel poco italiano imparato in tre settimane. 

Bole, il modernissimo aeroporto della capitale, è il teatro di un arrivederci struggente, carico di nostalgia, ricordi, voglia di costruire insieme. 
Abbracci commossi suggellano l’amicizia speciale che si è costruita in tre settimane fra i 13 ragazzi italiani e i 10 etiopi che hanno condiviso l’esperienza del campo di conoscenza e lavoro svoltosi in Etiopia dal 4 al 25 agosto 2004.



Let’s share with commitment, condividiamo impegnandoci, è stato l’imperativo che ha guidato il percorso dei ragazzi. Un percorso non sempre facile, a volte anche molto faticoso, che ha richiesto tanta voglia di mettersi in gioco, desiderio di comunicare al di là di ogni barriera, condividere  diverse culture.


Chi aiuta a scoprire in ogni uomo, al di là dei caratteri somatici, etnici, razziali, l’esistenza di un essere eguale al proprio, trasforma la terra da un epicentro di divisioni, di antagonismi, di insidie e di vendette in un campo di lavoro organico di civile collaborazione”. 
(Paolo VI, Giornata della Pace  1971). 

Questo è proprio quello che si è cercato di fare durante questa esperienza.

I ragazzi italiani provenivano dalle diocesi di Milano e Udine e avevano svolto un percorso di formazione di educazione alla mondialità e volontariato internazionale che li ha aiutati ad affrontare meglio il compito a loro richiesto. I 10 ragazzi etiopi  provenivano dalle 10 parrocchie presenti nella capitale ed erano stati segnalati dai rispettivi parroci. 

Il campo si è svolto in due sedi distinte (Wolisso e Debre Markos) e ciò ha permesso ai due gruppi di dimensioni ridotte una migliore integrazione fra italiani e etiopi e la possibilità di relazionarsi più a fondo con le realtà locali. Il confronto finale delle due esperienze è stato un ulteriore elemento di ricchezza e conoscenza. 

Le attività comuni a entrambi sono state il lavoro con i ragazzi (bambini e adolescenti) delle due Parrocchie, attraverso la semplice animazione, l’insegnamento dell’inglese, i laboratori creativi. 
Ma a Wolisso (cittadina a 130 km. a sud di Addis Ababa) la realtà parrocchiale è stata sicuramente l’elemento più caratterizzante dell’esperienza.



I ragazzi hanno vissuto e lavorato gomito a gomito non solo con i ragazzi di Addis ma anche con un gruppetto di giovani di Wolisso che veniva a condividere la quotidianità. Con tanto amore, fatica, sudore, allegria, il gruppo ha ridipinto la Chiesa della Parrocchia, sistemato un magazzino, decorato con artistici murales le aule dell’asilo gestito dalle suore della Misericordia e della Croce e le camerate dell’ospedale cittadino che ospita bambini denutriti. 

A Debre Markos invece, 300 km. a nord di Addis, c’è stata la realtà delle suore di Madre Teresa, con il carico di solitudine, malattia, sofferenza che essa comporta, ma anche ricca dell’esempio di amore e abnegazione che le suore quotidianamente offrono. I volontari hanno condiviso tutte le attività normali del centro, dalla pulizia delle camerate degli ospiti, all'aiuto in cucina, al lavaggio giornaliero delle centinaia di indumenti, a semplici cure mediche e igieniche. Oltre a ciò si sono alternati nel portare un sorriso ai bambini sieropositivi organizzando ogni genere di animazione per loro e per tutti gli altri ospiti della struttura. 

I momenti di confronto e di riflessione comune si sono svolti ad Addis Abeba all'inizio e alla fine del percorso, e i ragazzi sono stati ospiti qualche giorno di famiglie etiopi che li hanno accolti con entusiasmo e generosità.

Ho visto 2 facce dell'Etiopia – dice Serena, 24enne milanese - l'Etiopia della stagione delle piogge (verde, rigogliosa, ospitale, accogliente, amichevole, generosa, gratuita, affettuosa) e quella della stagione secca (povera, bisognosa di aiuto, in difficoltà, malata).” 

Entrambe sono sicuramente importanti per capire le mille sfaccettature diverse di un paese ricco di storia e tradizioni, ma poverissimo per condizioni di vita e prospettive, che l’indice dello sviluppo umano delle Nazioni Unite condanna al 170° posto nel mondo, uno dei luoghi peggiori della terra, dove l’aspettativa media di vita è  44 anni e il guadagno medio è mezzo dollaro al giorno.
Non è facile abbandonarsi a tutto questo, non è facile accettare a cuore aperto un mondo così diverso dal nostro. E’ stata una bella sfida anche se breve, una sfida portata a termine con successo. 


Mi è piaciuto l’abbandono all’ospitalità che ho potuto assaporare fino all’ultimo, in ogni momento. Mi è sembrato davvero di essere quell'ospite povero di cui parlavamo nei nostri incontri: povero perché senza niente e povero di barriere, come una stanza vuota da far abitare…… ho voluto che l’Etiopia abitasse in me, un’esperienza bellissima!” commenta Simona, 31 anni milanese. 

E adesso? Forse la vera difficoltà sarà raccogliere i frutti di questa esperienza una volta tornati nel proprio tran-tran quotidiano

Ma sono tante le cose che si possono fare, la prima forse sarà quella di continuare a tenere aperti gli occhi al mondo, ovvero - per usare le parole di Giacomo 26 anni di Legnano (Mi) - "vedere" le povertà che ci sono ovunque , essere "missionari" a casa propria .


Sara Carcatella 
Operatrice espatriata Caritas Italiana in Etiopia


Nota sul gruppo: i ragazzi italiani erano in tutto 13: 5 provenienti da Udine e 8 da Milano. L’età andava dai 24 ai 36 anni, alcuni  studenti, altri impiegati. I ragazzi etiopi erano 10, età media 22 anni, per lo più studenti, abbastanza attivi e impegnati nelle parrocchie  di appartenenza. La lingua comune usata durante il campo è stata l’inglese, ma soprattutto la voglia di condividere.