sabato 21 settembre 2019

Come cambia la percezione della pioggia

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- Pensa come cambia la percezione della pioggia in base al posto in cui vivi – mi dice Alessandra.

Alessandra è la mia compagna di servizio civile, di avventure, di vita nicaraguense. Siamo sedute in cucina in un afoso venerdì pomeriggio di quello che convenzionalmente è l’inverno in Nicaragua, che io non riesco a non percepire come una continuazione dell’eterna estate che qui regna sovrana. Quello che cambia è che di tanto in tanto, l’ambiente inizia ad emettere suoni tenebrosi, si tinge di colori arroganti e assume le movenze di un uomo in preda al panico con indosso una camicia di forza. Poi tutto esplode ed arriva la pioggia.

Questo è quello che accade, finalmente, anche oggi. Tutto comincia con i tuoni in lontananza, poi, a poco a poco, si inizia ad avere la percezione che il cielo stia scendendo: le nuvole si fanno spesse e filtrano i colori del tramonto spandendo ovunque una luce gialla densa, accecante, che sembra quasi nociva. Ecco che tutti non hanno altro da fare se non attendere. Noi guardiamo fuori dalla finestra, impazienti; la vicina dal suo patio fissa il cielo con l’aria di una mamma che aspetta l’arrivo del figlio in stazione, tutti i cani del quartiere iniziano ad abbaiare, ad ululare. Ed è un attimo: c’è un breve, intensissimo momento in cui la pioggia inizia a cadere, con gocce piccole e decise che ticchettano sui tetti in lamiera in un crescendo che non hai il tempo di mettere a fuoco perché è subito pioggia, la famosa pioggia tropicale. Secchiate d’acqua lanciate dal cielo ininterrottamente, lampi, tuoni che sembra un bombardamento. Potrebbe durare dieci minuti, potrebbe durare fino a domani, staremo a vedere. L’aria si fa più fresca e io mi godo il sublime di questa guerra del cielo che mi sembra fermare il mondo intero.


Ha piovuto anche ieri notte, tantissimo, fino all’alba. Stamattina a scuola gli alunni presenti erano una manciata per ogni classe. A Nueva Vida, a meno di sei chilometri da qui, la pioggia deve fare un altro effetto. La pioggia rinfresca l’aria, vero, ci si può addirittura permettere di dormire senza ventilatore per una notte, vero, ma le strade sono di fango, le acque di scarico sono a poche decine di centimetri dalle porte di casa, i bagni sono spesso esterni alle abitazioni e si tratta magari di latrine. Una pioggia violenta, ovvero una qualsiasi pioggia invernale-tropicale, può rendere un inferno il mattino seguente. Chi se la sente di andare per primo in bagno? Chi accompagna i bambini a scuola? Con quali scarpe? Meglio rimanere a casa.

Un giorno, mesi fa, si chiacchierava con un marinaio della costa Caribeña, ci trovavamo in quell’angolo di paradiso che sono i Cayos Perlas e stavamo fissando beati la spiaggia che si distendeva calma di fronte ai nostri occhi. – La stagione delle piogge è quella delle nascite: si schiudono le uova, le tartarughe neonate muovono i loro primi passi verso il mare. La stagione delle piogge è la più bella – diceva. Anche quel giorno il pensiero è volato a Nueva Vida, ai racconti dei colleghi. Agli aneddoti sugli impossibili viaggi in bus affollati, bloccati dal fiume di acqua e fango che si crea nella strada che porta alla scuola.

Ancora una volta la geografia a cambiare la percezione della quotidianità, del susseguirsi delle stagioni, della natura tutta. Ancora una volta la geografia, anche a pochi chilometri di distanza a decidere chi è fortunato e chi no. Chi ha la fortuna di poter godere del sublime della pioggia e chi è costretto a volgere il pensiero al domani con i piedi immersi nelle acque nere davanti casa.

Oggi, così come domani, così come il prossimo venerdì, in Nicaragua non ci sarà nessuna adesione al Friday for Future, nessun Global Strike. Qui la povertà si mischia alle tragedie politiche ed alla crudeltà organizzata e manifestare è impossibile. Qui in Nicaragua quest’anno si è registrato in aprile un picco storico della temperatura e si prevede per il 2050 un’emigrazione di massa dalla costa pacifica verso le zone più fresche, nell’altipiano settentrionale. Qui in Nicaragua la pioggia è sacra ma, ancora una volta, la fortuna di poterla apprezzare è una questione di geografia.

martedì 17 settembre 2019

Indonesia. Prendersi cura.

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Ricordo ancora i mille pensieri, mentre all'incontro informativo nella sede di Caritas ascoltavo testimonianze e spiegazioni sull'esperienza di condivisione e servizio per i giovani della Diocesi di Milano, che da 23 edizioni permette a tantissimi ragazzi di vivere ogni estate i Cantieri della Solidarietà, in tutto il mondo. Occasione di conoscenza e dialogo interculturale e interreligioso, bellezza dell'incontro con gli altri, impegno, mettersi in gioco: tutto questo era già dentro di me. 
Scelgo di starci, in tutto questo.

“Wow, che bello!”, “Hai deciso quindi?”, “Hai fatto bene!”, “Sei coraggiosa!”... ma anche “Non era meglio mandare i soldi?” o “Perché non due settimane al mare?”: tentazione “diabolica”, l'avrebbe definita don Mario Antonelli al Mandato missionario nella Basilica di Sant'Eustorgio, di rinchiudersi, la paura che si insinua, ‘Cosa ci vai a fare in Indonesia tre settimane?, Cosa pensi di fare?'. Prevale invece l'energia buona, positiva e contagiosa, e il desiderio che si rifletta nei nostri occhi, nei nostri sorrisi, nei nostri abbracci, nella cura e nella tenerezza che rivolgeremo ad ogni 'piccolo' o grande che incontreremo. 

Mai avrei pensato all'Indonesia, probabilmente... a quell'isola, Nias, ai margini, mai sentita prima, che fa parte (leggo nel dossier) di un arcipelago composto da più di 17mila isole (!!!): ma, si sa, il destino a volte ha più fantasia di noi. E allora qualunque posto in cui sei chiamato a metterti al servizio va bene, qualunque posto del mondo può essere casa, se lo si vuole. 

Dubbi, preparativi, si parte: e se con una ragazza casualmente ci si conosce da una precedente esperienza estiva che ci ha viste in cammino lungo la Via Francigena, è bello aprirsi e incontrare anche altri giovani che, forse, altrimenti non avrei avuto la fortuna di conoscere. 


Mi preparo a vivere pienamente ogni cosa: tutto, che sia un incontro o un'attività! 23 giorni sembrano tanti ma trascorrono veloci, soprattutto se vissuti come veniamo accolti noi: bambini pieni di gioia che ci attorniano appena arriviamo nella nostra comunità, desiderosi di conoscerci e di farsi conoscere. Da lì in poi è un susseguirsi di giochi, conoscenze, novità. 

Le differenze rispetto alla nostra quotidianità sono abissali ma mi accorgo che, seppure costi fatica e un notevole spirito di adattamento, riusciamo ad abituarci persino all'acqua gelata del mandi sulla schiena, a camminare scalzi su terra e fango o a mangiare con le mani riso e verdure piccanti… Riusciamo a non demotivarci se l’attività programmata non funziona pienamente, viste anche le numerose e diverse problematiche dei bambini e dei ragazzi con cui ci entriamo in contatto, e, con un po’ di elasticità, valutando il contesto, i problemi si risolvono. Soprattutto le cose assumono un senso diverso, se si è capaci di guardare “davvero” chi si ha di fronte, a mettersi empaticamente nei suoi panni, ad abbassarsi alla sua altezza, ad ascoltare, capire, e da lì inventare, con creatività, e sperimentare… e a vivere con meno ansie, nonostante i problemi siano maggiori, a Nias, una delle zone più povere e arretrate dell’Indonesia.


Le parole indonesiane necessarie per comunicare le annotiamo su blocchi e cellulari, cercando di memorizzarle, ma sono soprattutto il guardarsi negli occhi, il prendersi per mano, il sorridersi, le carezze, gli abbracci e perché no, il solletico, il rincorrersi, i colori, che ci permettono di comprenderci, giocare, dimostrare quanto ci teniamo e quanto vogliamo loro bene.


Feni, vivacissima, imbronciata con poco ma pronta a ridere con nulla; Herman che guarda il cielo e, con la sua voce inconfondibile, dice “Monson” e di lì a poco, ecco il diluvio universale; Mawar che non parla ma gli ultimi giorni rigava il viso con le dita a segnare le lacrime perché stavamo per partire; la dolce Rena... ho ancora negli occhi la cura con cui modellava con l’unica mano la pasta di sale; Sepi che giocava a cucù con la sedia durante il pranzo; Peter, sfuggente a ogni tipo di gioco ma, quando con fatica ci riuscivi, che bello vederlo davvero coinvolto in qualcosa; Tasya che mi stringeva fortissimo… e tutti gli altri, che ci hanno regalato momenti unici che rimangono nel cuore


Poi, non si sa come, sembra che il tempo acceleri di colpo e dalla malinconia dell’ultimo giorno ti ritrovi a casa, a riprendere le redini della frenetica vita milanese. Le domande, allora, iniziano a prendere forma, insieme alla gratitudine profonda. Quesiti che spesso non hanno risposta, come il fatto che, a seconda del luogo, la tua vita ne sia inevitabilmente condizionata: le possibilità, così differenti dalle nostre, dei ragazzi incontrati, che devono fare i conti con medicine costose, povertà energetica, formazione ridotta, consuetudini radicate. E, allora, quello che abbiamo fatto in tre settimane forse non avrà cambiato le loro vite, o forse in una piccola parte sì, chi lo sa, ma sicuramente ha cambiato la mia. Mi ha permesso di tornare a stupirmi per tutto ciò che ancora c’è di bello da scoprire, di vivere la bellezza della semplicità, nella condivisione essenziale e vera con altre persone, e di ricordarmi di non permettere a nessuna paura di bloccarci, rinchiudere porte, braccia, cuori: quello che puoi fare tu è molto, e se tutti facciamo qualcosa, il mondo sarà davvero migliore

Letizia Gualdoni


sabato 14 settembre 2019

Libano. Domestic workers: una moderna forma di schiavitù

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Parlare del Libano non è semplice, immaginatevi scriverne. I giorni che ho trascorso nel paese dei cedri (ormai ne sono rimasti pochissimi) sono stati una centrifuga di incontri, chilometri, check point e manoush. Le 24 ore di una giornata libanese erano così piene che in alcuni momenti sembravano essere poche.
Tra tutte le realtà presenti in Libano ce n’è una poco conosciuta, quella delle domestic workers ed è proprio di questo che cercherò di scrivere e trascrivere qui quello che ho imparato e annotato di giorno in giorno sul mio taccuino. Quando si parla di domestic workers si parla donne (alcune molto giovani) provenienti principalmente da Africa e Asia che si ritrovano intrappolate in un sistema di human trafficking. Cerco di spiegarmi meglio. La maggior parte delle famiglie libanesi ha una domestic worker in casa. Avere una domestica è (quasi) la normalità in Libano, indipendentemente dalle condizioni economiche della famiglia; pensate che le case vengono progettate già con una piccola (a volte piccolissima) stanza dedicata a questa figura. Fin qui uno potrebbe pensare: dov’è il problema?
Per capire questo fenomeno bisogna fare un passo indietro e spiegare cos’è la Kafala. Le lavoratrici domestiche arrivano in Libano tramite uno sponsorship system, che è appunto chiamato Kafala, secondo il quale il lavoratore/la lavoratrice straniero/a può entrare e soggiornare legalmente nel paese solo se è “sponsorizzato” da un datore di lavoro libanese, che per tutta la durata del contratto di lavoro ne diviene una sorta di tutore. Questo fenomeno è regolato e riconosciuto dalla legge libanese. Purtroppo però, nella pratica, la condizione di lavoro di queste donne diviene presto una condizione di schiavitù moderna. La maggior parte di queste sono costrette a lavorare con ritmi serrati senza avere ore (e giorni) di riposo, addirittura ad alcune si vieta l’uscita dalle mura domestiche, a molte non viene dato lo stipendio stabilito (questo può andare avanti anche per anni!), in alcuni casi le si priva del cibo e altre ancora subiscono abusi fisici, psicologi e sessuali. Come se non bastasse, all’arrivo nelle famiglie, alla maggior parte vengono confiscati cellulare e documenti direttamente dal datore di lavoro: questo funziona come ricatto poiché consente a quest’ultimo di instaurare un rapporto vincolante (dal momento che la lavoratrice domestica non può interrompere il contratto di lavoro se non con l’accordo del datore). L’unica soluzione per queste donne è la fuga dalla famiglia con il rischio di essere arrestate dalla polizia e rinchiuse in centri di detenzione, poiché nella loro condizione, senza documenti, la loro presenza risulta essere illegale su territorio libanese. A livello teorico ci sarebbero molte altre cose da dire, come per esempio come queste donne non siano tutelate dei diritti dei lavoratori o delle leggi emanate dagli stessi paesi di partenza che proibiscono l’emigrazione per lavorare come collaboratrici domestiche… ma non scriverò nulla di tutto ciò, rischierei di diventare noiosa. Preferisco raccontarvi cosa abbiamo fatto noi.
Noi volontari siamo stati in due centri di accoglienza e assistenza per lavoratrici migranti gestiti da Caritas Ambrosiana in collaborazione con Caritas Libano. Immaginatevi questi shelter come dei luoghi sospesi nel tempo e nello spazio. Nel tempo perché quanti giorni starai dentro lì nessuno lo sa, a volte qualche mese, a volte anche più di un anno; l’unico tempo presente è quello dell’attesa, attesa del rimpatrio o del reinserimento lavorativo in Libano. Nello spazio perché fisicamente lo shelter è l’unico spazio vivibile durante questa attesa, tutto quello che succede, succede all'interno del centro.
Quello che cercavamo di fare noi era di spezzare questo senso di sospensione e, nei modi più diversi, cercare di riportare a una percezione del reale. Laboratori di perline, di borsette, di cucina, tornei di pallavolo, giochi con la musica, con l’acqua, sfilate, yoga, canzoni, chitarra, balli, sessione di trucco, smalto, henné. Tutto per riempire e qualificare il tempo. Aspettare non mi è mai piaciuto, né ferma in macchina, né per ricevere una risposta, né per stare in coda alle poste. Attendere può essere snervante, faticoso, doloroso e delirante. Queste donne, invece, mi hanno insegnato silenziosamente che il tempo dell’attesa serve, a volte è necessario e ingiustamente imposto. Così come è imposto anche lo spazio, che in qualche modo diventa la tua casa, il tuo alloggio senza che tu l’abbia scelto. Ecco che quindi “casa” non è più il luogo dove ti aspetta il calore umano, ma è, prima, la tua stanzina nella quale sei costretta a dormire e svegliarti al mattino presto per lavorare, poi, un centro di accoglienza dove ti ritrovi in una camera con altre donne che sono vittime come te di traffico di esseri umani.

Questa delle domestic workers è solo una delle tante e infelici realtà presenti in Libano. Ci sarebbe poi da scrivere anche dell’emergenza dei profughi siriani e di quando sono entrata in un campo profughi siriano, dei minori stranieri non accompagnati, delle condizioni dei palestinesi in Libano, dell’emergenza rifiuti, del confessionalismo… ma tutto questo, se volete, davanti a un caffè (con lo zucchero).

Anna Gritti

Moldova. Siete casa

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Multumesc, Grazie! È la prima parola moldava che abbiamo imparato, quella che più abbiamo ripetuto, una delle poche parole che riconoscevamo tra i tanti discorsi e chiacchierate con le persone del posto, quella parola che ci è entrata così in testa da sostituirla con il nostro “grazie” italiano nei momenti in cui c’era bisogno di dirla (e non solo!), quella parola che mi son portata a casa e nel cuore. Quella parola che mi ripeto ripensando ai tanti volti incontrati, agli sguardi incrociati, agli abbracci ricevuti e donati, alle trecce fatte sui capelli bellissimi e biondi delle bambine dagli occhi blu come il mare, alle facce buffe cercando di imitare e simulare ciò che in moldavo non sapevamo dire, alle sere sotto le stelle insieme ai compagni di viaggio in compagnia di una chitarra e alcuni pacchi di semi di girasole, ai sorrisi belli, sinceri e innocenti dei tanti, tantissimi bambini che abbiamo incontrato.


Andrea, Vica, Dorina, Ghiena, Sofia, Sasha, Gabriela, Darius, Rebeca… Quanti volti, quante storie! Loro e tantissimi altri, con dei nomi un po’ buffi, ma dei veri e grandi sognatori. Sofia, sempre con dei vestiti lunghi e fiorati, con il suo cappello di paglia rigorosamente abbinato alla borsetta, con due trecce e la riga dei capelli sempre perfettamente centrale. Una mattina mi avvicino a lei e cerco di farle capire, con le poche parole in moldavo che ero riuscita ad imparare, che mi piacevano davvero tanto i suoi vestiti dai mille fiori e colori. Lei mi guarda, accenna un sorriso e con naturalezza fa una giravolta, sta qualche secondo in punta di piedi, si toglie il cappello e si accarezza le sue lunghe trecce, poi mi prende le mani e insieme facciamo una giravolta, mi riguarda e cerca di dirmi qualcosa, cerca di scandire le parole per facilitarmi nella comprensione, non capisco tutto e non so bene per quale preciso motivo, ma è come se mi sentissi partecipe di un suo grande sogno: diventare una ballerina.


Tutti avevano occhi profondi desiderosi di immaginare. Come Dorina e Ghiena, fratello e sorella, non mancavano mai, spesso si avvicinavano silenziosamente e guardavano da lontano senza giocare, ma erano in prima linea nel giorno del laboratorio delle barchette di carta. Con occhi curiosi e manine rapide costruirono ben cinque, sei, sette barchette. Li guardavo, le tenevano strette controllando che nessuno potesse copiare la forma della loro bandierina. Forse abbiamo dato loro un’opportunità, un’occasione per immaginarsi il mare lì sotto i loro piedi, vicino a casa. Quel mare blu profondo che era racchiuso nei loro occhi.


Oppure le due piccole Andrea, stesso nome, stesso colore di capelli e occhi. Ci spiavano dalla porta aspettando che uscissimo con le loro amate perline colorate per fare collane e bracciali, così tanti che sembrava quasi dovessero fare la scorta per tutto l’anno. Le guardavo mentre infilavano una perlina alla volta, canticchiando le canzoncine ballate in cerchio tutti insieme.


Gabriela, che ti guardava storto se aggiungevi una elle in più al suo nome. Otto anni e tanta dolcezza. Sempre per mano al suo fratellino a cui dava sempre per primo il bicchiere d’acqua fresca e solo dopo beveva lei. 


Quanti gesti inaspettati, quante storie intrecciate, quanti incontri con il “diverso”, che poi forse così diverso non è. Diverso da chi? Mi son riscoperta diversa quanto così simile. Ed è strano sentirsi e scoprirsi così a chilometri di distanza da casa. Scoprirsi tutti dei grandi sognatori, bisognosi di sorridere e vivere, desiderosi di amare ed essere amati anche e nonostante in mezzo a tanta povertà, in un piccolo villaggio senz'acqua, con le strade polverose e i carretti trainati dai cavalli. Lì dove la povertà era fatta di gesti disarmanti come quello di Darius, che al secondo giorno di visita al centro per minori ci corre incontro con in mano una foglia strappata dall'albero dell’immenso giardino (credo sia stata la prima cosa che ha recuperato simile a un pezzo di carta), voleva farci vedere quanto avesse studiato la magia che la settimana prima gli avevamo mostrato. L’aveva imparata, se la ricordava alla perfezione, comprese le smorfie e la corda invisibile nella tasca dei pantaloni. Sembrava sereno anche se non era facile sopportare l’assenza dei suoi occhi che parlavano di abbandono e solitudine.

Floritoaia Veche, il piccolo villaggio moldavo a due ore dalla capitale, è stato tutto questo e molto, molto di più. È proprio vero che certe emozioni, sensazioni, odori e sapori non si possono spiegare, né dimenticare.


È un po’ come quando ti senti “ricco” e poco dopo ti accorgi di essere a “mani vuote”. Sì, perché quelle tre settimane sono state la prova e la conferma che ciò che ricevi è tanto più superiore a quello che dai. E così sei disarmato di fronte a ogni singolo gesto, ogni carezza, ogni smorfia, ogni sorriso, ogni palloncino usato come corona o spada imitando regine e cavalieri, di fronte a ogni bambino che si ricorda il tuo nome e lo sussurra nell'orecchio, ogni volta che la cancellata del centro per minori si riempie di tante piccole testoline e manine alzate per salutarci. Lì, proprio in quei momenti, ti senti così povero, così “piccolo” in confronto a tutta quella pienezza gratuita che ti è stata appena donata. Lì dove gli schemi vengono ribaltati, dove inaspettatamente sei senza difese, senza maschere, sei vera, perché quella povertà non può che metterti a nudo. Lì dove ogni volto ha un nome e una storia che custodirò. Lì dove il linguaggio dell’amore ha preso il sopravvento con abbracci, carezze, strette di mano e sguardi, senza la pretesa di dire niente. Lì dove il guardare l’altro si nutre della certezza che chi dona non si impoverisce mai. 
Tre settimane dove gli occhi, la mente e il cuore si sono riempiti di quel profumo di casa che ancora ora rivivo. Compagni di viaggio, mitici volontari locali, bambini bellissimi della tabara e dei centri, generosissime signore dalle cene con tavoli imbanditi in compagnia di musica e danze intorno a un falò… Voi per me siete stati una grande occasione, un’opportunità, un incontro vero. Siete casa. 

Anna



venerdì 13 settembre 2019

Serbia. Nuvola

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Vorrei raccontare una storia che nasce nel campo di Bogovaᵭa. Mi chiamo Claudia, ma nel campo il mio nome suonava più "Kelodia" o "Kalaudi" e un giorno un ragazzo mi ha chiesto di ripeterglielo così tante volte, che alla fine gli ho risposto "Claudia, it sounds like cloudy, you know? When the sky is full of clouds..." e lui ha replicato "Ahhh, so you fell down from the clouds! How's the world from up there? Are there borders?". Beh, ora potete immaginare di che storia si tratta.

Sono una nuvola e non mi chiamo. O meglio, gli uomini mi chiamano nuvola ma io non mi chiamo. Sono aria, sono acqua, sono polvere durante le tempeste, sono fuoco quando mi attraversa il Sole. Sono in cielo da molto prima che comparisse l'uomo e, nonostante i suoi deliri di onnipotenza, lo seppellirò. Ho visto la terra, i fiumi, i laghi, tutti i mari e gli oceani. Ho visto anche il deserto. Viaggio con il vento e per me esiste solo il presente, un attimo fa la mia forma era diversa, tra un attimo cambierà ancora. Da quassù la Terra non ha confini, l'uomo costruisce muri, abbatte ponti, sbarra porte, ma niente ferma la speranza.


Mi chiamano nuvola e mi disegnano, con quel solito bordino intorno per evidenziare bene dove finisco. L'uomo ha bisogno di delimitare le cose, di definirle con cura, ma io non posso essere disegnata, definita, delimitata. Limitata. L'uomo ha una paura sconfinata dell'indefinito, dell'infinito. Paradossale, no?

Sono una nuvola e non ho confini, e forse è per questo che non riesco a vedere nessun confine sulla Terra, e quando me li raccontano sembrano qualcosa di così assurdo! I confini non li vedo, il dolore che creano però sì. La diffidenza, l'odio, l'indifferenza. Questi confini sono visibili persino a me, da quassù. Sono confini subdoli perché non sono fisicamente evidenti, e serve lo sforzo di ogni singolo uomo per abbatterli, nessuno può voltarsi ed ignorarli.

Sono una nuvola e sul cielo di Bogovaᵭa oggi mi apro a far passare la luce. Che sia un pomeriggio leggero.


Claudia

domenica 8 settembre 2019

Haiti Tololo

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Come si può raccontare un’esperienza di un mese in poche righe? Come tradurre per iscritto emozioni, sensazioni, odori e gusti provati in questo mese?

“Ma vai ad Haiti quest’estate? Ma sei sicura? Guarda che è pericoloso!”. Ma io queste frasi le ho ignorate, non ci ho dato peso, quasi non le ho neanche ascoltate.
Sono partita per Haiti senza troppi pensieri, senza pregiudizi e senza aspettative per lasciarmi stupire ed emozionare da tutto ciò che mi sarebbe successo.
Ed ecco cosa è successo.

Si, Haiti è davvero uno dei paesi più poveri al mondo.

È un paese con tasso di disoccupazione e di analfabetismo elevati, con 768 km di strada asfaltata (su 4266 km). È il paese dove gli scarichi fognari sono a cielo aperto, i bambini corrono scalzi, dove la giornata è scandita dalla luce del sole perché la corrente, dove c’è, viene fornita solo poche ore al giorno e quando viene buio tutto si ferma perché di notte ci sono i lupi mannari; dove l’acqua potabile non è un bene disponibile così facilmente, dove i bambini camminano ore per recuperare un barile di acqua sotto il sole caraibico.
È un paese dove l’immondizia si brucia e l’odore in capitale è soffocante, dove le case (si possono chiamare case?) sono in cemento (tutte in cemento), una vicina all’altra e i vicoletti dei labirinti stretti stretti.


È un paese dove se sei straniero sei al centro dell’attenzione, dove per la strada ti urlano “blan, blan” con toni a volte aggressivi e a volte per te, i prezzi al mercato si alzano esageratamente, dove sei considerato “quello ricco”, dove bambini e ragazzi quando vedono che hai un paio di occhiali da sole, uno zaino, un bel cellulare ti dicono “Bamwen” (dammi!!) o ragazzi ti chiedono di pagargli le spese dell’università.



Si, Haiti è davvero così!!Ma è soltanto questo?
No! Haiti non è solo questo!Anzi..

Haiti è terra con paesaggi mozzafiato (dalle montagne alle colline, passando per gli altipiani e per il mare), con il mare azzurro caraibico e distese verdeggianti, albe e tramonti da cartolina, cieli e stellate che ti fanno sentire minuscolo.
È il paese dei frutti tropicali mai sentiti che mangi a qualunque ora, delle bibite zuccherate a tutti i gusti e della Mamba spalmata sul panino alla mattina. È il paese delle bananpesee e delle scatole di riso e pesce mangiate in spiaggia.
È il paese degli acquazzoni caraibici che ricorderai per tutta la vita: dei salti nel fango, delle risate e dei canti abbracciati sotto la pioggia.


È il paese dove quando piove i bambini, i ragazzi, gli adulti cominciano a danzare sotto la pioggia ringraziando il cielo.

È il paese della musica: a qualunque ora del giorno e (ahi noi) della notte c’è musica che “spacca orecchie” ma musica che ti rimane dentro e continui a canticchiarla anche se non conosci le parole, tanto da arrivare in Italia e continuare ad ascoltarla in loop.
È il paese della danza. Ballano a qualunque età, bambini e ragazzi, ma anche anziane signore nei villaggi. Ciascuno balla a modo suo, ha il suo movimento ma balla. Ballano perché la danza è vita e loro hanno voglia di vivere. 
È il paese delle presenze. Suor Luisa, suor Gabriella e suor Marie Stel, don Levi, don Ervè e don Claudio, Maddalena, padre Elder, Chiara, la comunità Papa Giovanni XXIII, i volontari. Ci sono. Semplicemente stanno tra la gente.

È il paese dove non serve l’orologio, dove non puoi stabilire l’orario di ritrovo perché tanto prima succederanno altri imprevisti. Dove non c’è fretta né frenesia.

E poi è il paese di Kay Chal. Kay Chal è casa.

Kay Chal sono Vaillant, Jameson, Stanley, Kenchy, Jacklin, Tito, Doumy, Mazlen, Jovenel, Julien, Boy – Guy e metFalou.
KayChal è casa per tutti i bambini del quartiere a CitéJeremie. È casa perché ci puoi trovare amicie trascorrere qualche ora giocando o imparando; è una macchia di colore tra il grigiore della capitale.
Kay Chal è amicizia nata nel giro di poche ore, amicizia che non ha bisogno della lingua per farsi capire, perché a volte bastano uno sguardo o dei gesti. Kay Chal sono animatori a cui dai un dito e si prendono tutto (anche le tue ciabatte), ti travolgono con la loro forza e le loro storie. Sono amici che una volta che hai conosciuto sembra conoscessi da una vita.

Kay Chal è voglia di mettersi in gioco, animatori che prendono in mano il microfono e diventano uno spettacolo da guardare, che non hanno nulla e a volte magari non mangiano per giorni, ma tirano fuori un’energia contagiosa. Animatori che costruiscono aquiloni spettacolari con legnetti e sacchetti di plastica e braccialetti a volontà e animatori che riescono a farti commuovere e ridere allo stesso tempo.
Ragazzi che non vedono l’ora di farti da guida per la Citè e ti portarti a casa loro e farti vedere dove abitano.KayChal sono ragazzi che ti riempiono il telefono di selfie brutti ma intrisi di una storia bella e vissuta.
Kay Chal sono ragazzi che ti dicono “tanto vi dimenticherete di Haiti” e che giustamente si arrabbiano con la vita e poi tornano a viverla.

Kay Chal è casa per i ragazzi di Haiti ma sarà sempre casa per noi.
Si Haiti è tutto questo e forse tante altre cose.

A voi, amici e animatori di KayChal posso dire questo: no, non ci dimenticheremo di Haiti, non è possibile dimenticarsi di voi, di ciascuno di voi, dei vostri sorrisi e delle vostre risate contagiose, dei vostri balli, delle vostre frasi (amwaiiiii, aaaanywayyyy, tissimooooo, ghenbagay, andiamo a mangiare qualcosina), delle vostre storie e della vostra energia.

Grazie a voi ho conosciuto Haiti, grazie a voi casa mia non è più solo in Italia e grazie a voi un pezzo del mio cuore rimarrà sempre ad Haiti.

Haiti tololo!!

Giada

venerdì 6 settembre 2019

Cuánto vale esto?

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Ci sarebbero molte, troppe cose da dire se si volesse descrivere un paese come il Nicaragua.

Ripensando a quello che ho visto e vissuto sulla mia pelle in questo mese sono giunto alla conclusione che ci siano 3 frasi che possono dare un’idea, sebbene parziale, di quello che è uno dei paesi più romantici e tormentati del centro america, una delle ultime fortezze della rivoluzione, in questo caso quella sandinista.

“Cuánto vale esto?”

Me lo sono sentito chiedere spesso. Molte volte i bambini con cui lavoravamo si distraevano guardando i miei tatuaggi con due domande ben fissate in testa: la prima era se fosse un segno del diavolo, sì perché in Nicaragua è molto forte la credenza in Geova e nella mitologia che lo circonda di cui non sono conoscitore e che non intendo certo spiegare adesso; l’altra domanda ancora più frequente è sempre stata “quanto ti sono costati?”. 
In un paese in cui un medico guadagna 200 dollari al mese si può ben immaginare quali siano le difficoltà per la popolazione di classe media e bassa ad arrivare a fine mese, nel barrio di Nueva Vida e nello specifico nel centro redes de solidaridad, dove abbiamo lavorato, la retta della scuola è di 3 dollari al mese e molti genitori fanno fatica a pagarla.

Tra le case in lamiera e i rigagnoli di agua negra però si incontrano quasi sempre sguardi felici e pieni di curiosità per la vita, sguardi di bambini di età che varia tra i 3 e i 12 anni ma che sembrano averne viste tante, troppe da poter dimenticare, sguardi di chi spesso ha perso l’innocenza ma non la gioia di vivere e la speranza, gli sguardi dei bambini di redes.



“Gracias por visitar Nicaragua”

La prima volta me lo sono sentito dire in un bar a Leòn mentre mi apprestavo con le mie compagne di viaggio a bere una  birra, al tavolo a fianco una famiglia piuttosto numerosa si è girata e ci ha detto a più riprese di essere molto felice che stessimo visitando il loro paese (non sapevano fossimo volontari).
La cosa che più mi ha colpito ripensandoci nei giorni seguenti è stata come in effetti dopo le proteste terminate in carneficina dell’anno scorso praticamente non ci sia stato turismo in Nicaragua. Avrò visto 20 gringos come me in un mese in 6 località diverse, e questo per un paese la cui  economia va a rotoli, che non ha piani di riqualificazione dignitosi per i quartieri della capitale se non il montaggio di centinaia di orrendi alberi finti in metallo che si illuminano la notte voluti dalla moglie del dittatore che è attualmente al governo, mentre la gente muore di fame, non è affatto un bene.
Proprio per questo la gente per bene ti ringrazia quando ti incontra, perché vuole che si sappia che in Nicaragua ci sarà sempre posto per chi viene rispettando la natura e le persone, con l’obbiettivo di scoprire un paese tra i più belli che io abbia mai visto.

“Que se rinda tu madre”

Dagli anni '60 per 30 anni è stato il grido del Fronte Sandinista che chiedeva libertà contro il regime di Somoza, uno dei mille piccoli dittatori insignificanti che sono comunque riusciti a infliggere enorme dolore e che purtroppo hanno popolato questo pianeta.
Dopo la fine della guerra fredda e altre vicissitudini che non sta a me raccontare si arrivò al punto in cui Daniel Ortega salì al potere e come ci insegna la storia fu corrotto a tal punto che ormai, nel 2019, la grande rivoluzione del proletariato iniziata negli anni '60, si è trasformata in una dittatura spietata, un cancro in seno al centroamerica, una piaga purulenta che ha portato alla morte di 400 persone circa l’estate scorsa, solo perché protestavano PACIFICAMENTE, la UCA (Universidad Centro Americana) ha perso tutti i fondi statali e le borse di studio essendo stata inquadrato come focolaio principale di questi moti.
La policìa militar ha sparato indistintamente su uomini, donne e bambini. Sì bambini che non potevano essere curati in ospedale, pena il licenziamento (a voi capire in che senso) del medico.
Oggi “que se rinda tu madre” è diventato il grido di chi non tollera più questo governo fantocci
o che altro non è che una cricca della famiglia Ortega, oggi “que se rinda tu madre” letteralmente “che si arrenda tua madre” lo leggi scritto sopra i muri nelle periferie, nei barrios, sui muri delle università, ed è diventato un grido di rabbia e di disperazione, un grido di guerra, quella che nei prossimi anni potrebbe dover affrontare Daniel Ortega per le strade di tutto il paese.
Perché se in molti si sono piegati per soldi paura, e potere, in molti altri non si sono ancora arresi.

Alessandro Prato Previde

giovedì 5 settembre 2019

Nairobi. “Africa è”

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Cos'è Africa? 
Trascorse tre settimane di cantiere a Nairobi possiamo dire che Africa è mille colori, sguardi e sorrisi.
È balli, canti e risate fragorose e spontanee.
È confusione in città, traffico sulle strade e soprattutto caos nella testa.
È stare ore e ore in coda senza lasciarsi mai prendere dallo sconforto.
È cucinare un risotto per 13, tagliare e pelare ogni sera chili di patate o di carote.
È bambini che ti corrono incontro per salutarti o semplicemente darti la mano.
È puzza di plastica che brucia ma anche profumo di un chaparro che cucina chapati.
È lezione di acrobatica che ti fa sudare ma di cui poi rimani soddisfatto.
È calma di Cafasso House e fatica nei campi la mattina.
È infinite partite di calcio e pallavolo sotto il sole cocente del pomeriggio con i nostri ragazzi.
È rimanere svegli a parlare per ore fino a tardi la sera.
È soffrire per farsi fare le tanto desiderate treccine e sciogliersele il giorno dopo.
È Sister Gertrude e Benedict.
È pulire e tagliare il cabbage dell’intero orto di Cafasso parlando di gossip tra ragazze.
È YCTC e chiacchiere con i ragazzi.
È scoperta di un mondo diverso, assurdo ma forse per quello così affascinante. 
È campanella che suona per scandire la giornata.
È ritrovarsi tutti per bere il chai bollente delle 10.30.
È ugali, sukuma wiki e ghitheri ogni giorno aspettando con ansia i chapati del venerdi sera.
È strade con matatu e piki-piki ad ogni angolo.
È compagni di viaggio da scoprire.
È forzata condivisione di ogni goccia d’acqua.
È nutella e mandazi prima di andare a dormire.
È svegliarsi il mercoledì mattina e saltare giù dal letto per controllare se è arrivata finalmente l'acqua.
È farsi prossimo.
È Korogocho, Mathare e Soweto ma anche Kibiko, Napenda kuishi e G9.
È pianto in silenzio ma anche sorriso nel capire che non solo tu provi quel senso di tristezza infinita.
È incomprensione e turbamento.
È condivisione e confronto.
È post-it colorati e parola del giorno. 
È "Dove e quando" come sottofondo fisso a casa e sul matatu privato.
È tazze rosa di Cafasso portate a casa e personalizzate con nastro adesivo.
È "fare serata" all'Africano.
È imprevisti come finire il gas e rimediare prendendo pollo, patatine, samoza, chapati, birra e coca d’asporto.
È "ragazzi dividiamoci tra mercato e tumaini" per fare la spesa.
È risparmiare ogni singolo scellino.
È “Pandana" e "African beauty" a tutte le ore.
È tempo che si dilata e di cui si perde ogni concezione.
È ballare tre ore a Kibiko senza rendersene conto.
È il primo emozionante viaggio in piki-piki e un fantastico matatu da 21.
È storie che ti entrano nel cuore e che lì rimangono.
È silenzio, imbarazzo, difficoltà.
È incontri e ascolto.
È imparare da persone che non hanno nulla, se non un'infinità di cose da insegnarti.
È passare davanti al banchetto di Juliet tornando a casa e fermarsi a chiacchierare.
È stoffe colorate cucite tutte dalla povera Bila.
È diventare abili professionisti nel contrattare al masai market.
È lavatrici eterne che poi, in fondo, non lavano.
È riuscire a lavare a otto mani un esercito di calzini bianchi, ormai diventati arancioni, senza arrendersi.
È terra rossa, terra rossa ovunque.
È safari in bici e fatica nel pedalare sotto il sole cocente dell’una.
È urlare “prendila!” quando vedi una giraffa che corre.
È avere paura che gli ippopotami ti attacchino da una barchetta traballante in mezzo al lago.
È essere un "muzungo" in mezzo alla folla e dimenticare di esserlo.
È scarpe sporche e magliette bianche che non torneranno più come prima.
È braccialetti colorati ed estenuanti lezioni per imparare a farli.
È aiutarsi a lavare i capelli con catino e bottiglia.
È vedere i tuoi compagni addormentarsi in ogni dove e svegliarli di soprassalto.
È tornare e sentire un senso di vuoto.
È semplicemente "home".
Forse (sicuramente) Africa è molto più di questo, ma questa è la nostra Africa.



Asante sana Africa!
 Vittoria e Laura

martedì 3 settembre 2019

Serbia. “Mi troverai nel parco, su quella panchina”

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Cara Halat,

avrei voluto salutarti con un abbraccio venerdì e invece ho in mente il tuo viso dolce che si affaccia dalla finestra della stanza nel campo profughi di Sid e mi saluta commossa, fisicamente distante ma emotivamente vicina.

Da quella finestra ringrazi tutti noi cantieristi per essere stati con voi in queste settimane, e io non so cosa replicare. Sono sprovvista di parole. Avevo preparato un biglietto che avrei voluto darti di persona. C’era semplicemente scritto “Thank you for the time spent together. I hope the best for you and your family”. Ma non c’è stato il tempo, né la possibilità.

Di fatto siamo state insieme due pomeriggi. Poca cosa, se si quantifica il tempo; un Dono immenso, se si qualifica il tempo. Ed è proprio con la seconda opzione che scelgo di guardare il tempo trascorso insieme.

Sei stata per me un Dono, un Dono grande, soprattutto per la fiducia che hai saputo darmi. La domanda “What is home?” ci ha accompagnato per tutto il Cantiere e una delle parole con cui mi sento di rispondere è: “intesa”, quell'intesa che c’è stata fin da subito tra me e te, un’intesa che va oltre la lingua che si parla, un’intesa fatta di sguardi e sorrisi che quando c’è ti riporta a “casa”. 

Ricordo con affetto uno dei primi giorni al campo di Sid quando sei uscita dal “beauty saloon” con la tua mamma e la tua sorellina per mano. Ti sei avvicinata a me con un sorriso limpido e raggiante e mi hai mostrato le unghie che ti eri appena fatta. Mi sono complimentata con te con un banalissimo e accentuato: “Wooooooow… Wonderful nails” che ti ha fatto ridere tanto e ha fatto scoppiare a ridere anche me.

I giorni seguenti comparivi e scomparivi dalla finestra della stanza tua e della tua numerosa famiglia. Ci guardavi mentre eravamo impegnati a giocare con i bambini nel campo profughi dove vivi da 45 giorni, dopo essere in viaggio da circa un anno, insieme a tua mamma, tuo papà e i tuoi sette fratelli. 

Hai osservato quanto bastava finché un pomeriggio ci siamo ritrovate come due amiche su una panchina al parco. Due amiche che hanno voglia di raccontarsi perché è da un po’ che non si vedono, due amiche che hanno voglia di isolarsi da quello che sta attorno perché la cosa a cui tengono di più è proprio quell'amica che hanno davanti e quello che lei ha nel cuore. 

Quel giorno non abbiamo parlato di profughi e di viaggio; abbiamo parlato di ragazzi, di cibo, di famiglia, di vestiti e di bellezza. Argomenti più o meno “futili”, eppure li sentivo così indispensabili quel pomeriggio a Sid perché ci hanno permesso di evadere, di andare davvero in un parco e di sentirci “a casa”. 

Non so se ci rincontreremo, non so se mangeremo mai quella pizza insieme, forse non saprò mai se tu e la tua famiglia avrete raggiunto la Germania, ma voglio farti una promessa. Ti prometto che custodirò i tuoi sogni e che ne avrò cura. Ti prometto che custodirò il tuo sogno di avere un ragazzo europeo, forse tedesco, alto, muscoloso e con gli occhi azzurri perché è così che adesso tu te lo immagini. Custodirò anche il tuo desiderio di farti qualche ciocca rossa ai capelli perché insieme eravamo d’accordo che sarebbe stata bene sui tuoi capelli neri e ricci. Ti brillavano gli occhi quando mi parlavi di tutto questo e io ero felice di ascoltarti.

I tuoi occhi espressivi si sono poi incupiti quando mi hai confidato: “I am not happy here”. È una frase che stride con la tua giovane età, che stride con tutto quello che ci eravamo dette il giorno prima. Ma è una frase che mi fa tornare alla realtà del campo profughi in cui vivi. Non sai quando partirai, non sai se partirai, non sai se mai arriverai a quella meta che tuo papà ha scelto per voi. È una realtà e una quotidianità faticosa per tutti, ma in particolare per te che scalpiti per avere una vita migliore e non ce la fai più a chiuderti in quella stanza e a guardare fuori da quella finestra.

Ma non voglio fermarmi qui e non voglio che tu ti fermi qui. Continua a sognare, Halat, e abbi cura di te come ragazza e come donna. Io ti prometto che ogni volta che avrai voglia di evadere mi troverai nel parco, su quella panchina. 

Ti abbraccio forte!

Martina



lunedì 2 settembre 2019

Moldova. Campo estivo a Ștefan Vodă

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(Versione tradotta in italiano)

Le impressioni di Victoria Preguza, volontaria di Young Diaconia Chisinau, dopo il Cantiere della solidarieta' a Stefan Voda.

2 settimane Molti sentimenti ed emozioni che non possono essere riprodotti con l'aiuto delle parole. Ho creato nuove amicizie che dureranno sicuramente. Ho incontrato persone straordinarie e, naturalmente, ho portato centinaia di sorrisi sui volti di dozzine di bambini. Ho imparato a lavorare in gruppo, a svegliarmi la mattina dopo solo 4-5 ore di sonno e a fare ogni sforzo in modo che la stanchezza non fosse visibile sul mio viso, in modo da non condividere quella spossatezza con i bambini, cercando di essere pieno di energia e con un sorriso sulle labbra. Ho anche imparato che le regole di un gioco non sono così importanti quando i bambini sono felici e godono appieno di quel gioco.

Abbiamo permesso ai bambini di sorridere e divertirsi con noi. Abbiamo lavorato ore di fila per preparare un programma che i bambini avrebber adorato il giorno successivo. Ho ridotto il sonno e le ore personali solo per far sorridere e apprezzare davvero il nostro lavoro. Durante le attività sociali ho visto comevivono alcune persone e ho capito quanti problemi esistono effettivamente. Ho aiutato le persone che ne avevano davvero bisogno e ho dato loro un sorriso dopo tanto tempo.

E poi l'esperienza nel retroscena della tabara per bambini e' stata vermante bella. Con i volontari italiani siamo diventati una vera famiglia, che si sostiene a vicenda e sempre pronta ad aiutarti, indipendentemente dalla situazione. Ho imparato che le condizioni non sono importanti finché hai intorno a te persone straordinarie con cui ti senti a casa. Abbiamo cucinato insieme, abbiamo riso insieme, pianto insieme, tutto ciò che abbiamo fatto lo abbiamo vissuto insieme. È stata un'esperienza unica e straordinaria che non può essere riprodotta con le parole, devi solo sentire e vivere questi momenti per capirle. Ringrazio tutti per questa opportunità e per le 2 settimane più belle di questa estate !!!


(Versione originale, in rumeno)

2 săptămâni. O sumedenie de trăiri și emoții ce nu pot fi redate cu ajutorul cuvintelor. Am creat noi prietenii ce cu siguranță vor dura. Am cunoscut persoane extraordinare și ,desigur, am adus sute de zâmbete pe chipul a zeci de copii. Am învățat cum e să lucrezi în echipă, cum e să te trezești de dimineață dupa doar 4-5 ore de somn și să faci tot posibilul ca oboseala să nu fie vizibilă pe chipul tău, pentru a nu împărtăși acea stare copiilor, încercând să fim plini de energie și cu zâmbetul pe buze. De asemenea, am învățat că regulile unui joc nu sunt atât de importante atâta timp cât copiii sunt fericiți și savurează din plin acel joc. 

Am făcut tot posibilul ca copiii să zâmbească și să se distreze alături de noi. Am muncit ore în șir pentru a pregăti un program pe care copiii să-l adore următoarea zi. Am redus orele de somn și cele pentru interesele personale doar pentru a face pe cineva cu adevarat să zâmbească și să aprecieze munca noastră. În timpul activităților sociale am vazut cât de greu trăiesc unii oameni și am realizat cât de multe avem de fapt. Am ajutat persoanele ce cu adevărat aveau nevoie și le-am oferit un zâmbet după foarte mult timp. Iar, povestea din spatele taberei a fost una cu adevărat frumoasă. 


Cu voluntarii italieni am devenit o adevărată familie, ce se susține reciproc și care este gata mereu să te ajute indiferent de situație. Am învățat că condițiile nu sunt importante atâta timp cât ai persoane extraordinare în jurul tău alături de care te simți ca acasă. Am gătit împreună, am râs împreună, am plâns împreună, totul am facut împreună. A fost o experiență unică și extraordinară ce nu poate fi redata cu ajutorul cuvintelor, trebuie doar să simți și să trăiești aceste momente pentru a le înțelege. Le mulțumesc tuturor pentru această oportunitate și pentru cele mai frumoase 2 săptămâni din această vară!!!

Indonesia. Ogni partenza porta sempre con sé un ritorno.

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Ogni partenza porta sempre con sé un ritorno e questo è il momento di tornare a casa. Vestiti sporchi, abbronzatura da pantaloncini e maglietta, bagagli che rientrano nei limiti. Per fortuna l’unico bagaglio di cui non controllano il peso per l’aereo è il cuore, altrimenti avrei dovuto pagare il supplemento.
Avrei potuto decidere di andare a Capri, a Formentera o all'isola d’Elba. E invece ho deciso di partire per una piccolissima isola dell’Indonesia, Nias, che fin da subito ho percepito come casa.
What is home? In queste settimane spesso risuonava in me questa domanda. 

Casa è quando hai qualcuno che ti aspetta. 
Casa a Gunungsitoli sono i bambini che ti aspettano alla porta e ciascuno a modo suo vuole farti vedere che è contento di vederti.

Casa è quando hai una mamma che ti chiede “dove vai e quando torni”. 
Casa a Gunungsitoli sono Natalia, suster Sinta e tutte le altre che, come delle mamme, hanno sempre pronta la domanda “dari mana?” per paura di lasciarci andare soli. 


Casa è quando hai dei fratelli con cui crescere. 
Casa a Gunungsitoli sono Davide, Luca, Andrea, Marianna e Letizia che, come fratelli, sono riusciti a farmi sentire e vivere la baraonda che, solo chi ha fratelli, conosce.



Casa è fatta di suoni, voci, rumori.
Casa a Gunungsitoli sono le risate di Lestari, il clacson dei motorini, la prepotenza delle onde dell’oceano e, aime, anche l’incessante miagolio di big red boy.


Casa, quando viene vissuta, è impregnata di odori. 
Casa a Gunungsitoli è il profumo di caffè la mattina (perché riso e pesce l’abbiamo sopportato solo una volta), i vestiti sudati e il profumo di borotalco dei bambini dopo il mandi. 

In ogni casa si incrociano sguardi e a volta bastano solo questi per intendersi. 
Casa a Gunungsitoli sono tutte le persone che chiedevano “foto all’uomo bianco” come se fossimo reperti di un museo, gli occhi di Endy che guarda con meraviglia le sue mani colorate di tempere e quelli di Mauar che parlano da soli.

Ogni casa ha sempre una porta d’ingresso: di legno, blindata o semplicemente una foglia di palma. 
Casa a Gunungsitoli è una porta aperta, pronta ad accogliere ma anche a lasciar andare via, perché prendersi cura significa anche questo. 

“Si corre il rischio di piangere un poco quando ci si lascia addomesticare”. 
Grazie Gunungsitoli per tutto questo. 
Grazie Gunungsitoli per avermi ricordato, ancora una volta, che se hai il cuore pronto a ricevere, qualsiasi luogo può diventare casa.

Marta