Ricordo ancora i mille pensieri, mentre all'incontro informativo nella sede di Caritas ascoltavo testimonianze e spiegazioni sull'esperienza di condivisione e servizio per i giovani della Diocesi di Milano, che da 23 edizioni permette a tantissimi ragazzi di vivere ogni estate i Cantieri della Solidarietà, in tutto il mondo. Occasione di conoscenza e dialogo interculturale e interreligioso, bellezza dell'incontro con gli altri, impegno, mettersi in gioco: tutto questo era già dentro di me.
Scelgo di starci, in tutto questo.
“Wow, che bello!”, “Hai deciso quindi?”, “Hai fatto bene!”, “Sei coraggiosa!”... ma anche “Non era meglio mandare i soldi?” o “Perché non due settimane al mare?”: tentazione “diabolica”, l'avrebbe definita don Mario Antonelli al Mandato missionario nella Basilica di Sant'Eustorgio, di rinchiudersi, la paura che si insinua, ‘Cosa ci vai a fare in Indonesia tre settimane?, Cosa pensi di fare?'. Prevale invece l'energia buona, positiva e contagiosa, e il desiderio che si rifletta nei nostri occhi, nei nostri sorrisi, nei nostri abbracci, nella cura e nella tenerezza che rivolgeremo ad ogni 'piccolo' o grande che incontreremo.
Mai avrei pensato all'Indonesia, probabilmente... a quell'isola, Nias, ai margini, mai sentita prima, che fa parte (leggo nel dossier) di un arcipelago composto da più di 17mila isole (!!!): ma, si sa, il destino a volte ha più fantasia di noi. E allora qualunque posto in cui sei chiamato a metterti al servizio va bene, qualunque posto del mondo può essere casa, se lo si vuole.
Dubbi, preparativi, si parte: e se con una ragazza casualmente ci si conosce da una precedente esperienza estiva che ci ha viste in cammino lungo la Via Francigena, è bello aprirsi e incontrare anche altri giovani che, forse, altrimenti non avrei avuto la fortuna di conoscere.
Mi preparo a vivere pienamente ogni cosa: tutto, che sia un incontro o un'attività! 23 giorni sembrano tanti ma trascorrono veloci, soprattutto se vissuti come veniamo accolti noi: bambini pieni di gioia che ci attorniano appena arriviamo nella nostra comunità, desiderosi di conoscerci e di farsi conoscere. Da lì in poi è un susseguirsi di giochi, conoscenze, novità.
Le differenze rispetto alla nostra quotidianità sono abissali ma mi accorgo che, seppure costi fatica e un notevole spirito di adattamento, riusciamo ad abituarci persino all'acqua gelata del mandi sulla schiena, a camminare scalzi su terra e fango o a mangiare con le mani riso e verdure piccanti… Riusciamo a non demotivarci se l’attività programmata non funziona pienamente, viste anche le numerose e diverse problematiche dei bambini e dei ragazzi con cui ci entriamo in contatto, e, con un po’ di elasticità, valutando il contesto, i problemi si risolvono. Soprattutto le cose assumono un senso diverso, se si è capaci di guardare “davvero” chi si ha di fronte, a mettersi empaticamente nei suoi panni, ad abbassarsi alla sua altezza, ad ascoltare, capire, e da lì inventare, con creatività, e sperimentare… e a vivere con meno ansie, nonostante i problemi siano maggiori, a Nias, una delle zone più povere e arretrate dell’Indonesia.
Le parole indonesiane necessarie per comunicare le annotiamo su blocchi e cellulari, cercando di memorizzarle, ma sono soprattutto il guardarsi negli occhi, il prendersi per mano, il sorridersi, le carezze, gli abbracci e perché no, il solletico, il rincorrersi, i colori, che ci permettono di comprenderci, giocare, dimostrare quanto ci teniamo e quanto vogliamo loro bene.
Feni, vivacissima, imbronciata con poco ma pronta a ridere con nulla; Herman che guarda il cielo e, con la sua voce inconfondibile, dice “Monson” e di lì a poco, ecco il diluvio universale; Mawar che non parla ma gli ultimi giorni rigava il viso con le dita a segnare le lacrime perché stavamo per partire; la dolce Rena... ho ancora negli occhi la cura con cui modellava con l’unica mano la pasta di sale; Sepi che giocava a cucù con la sedia durante il pranzo; Peter, sfuggente a ogni tipo di gioco ma, quando con fatica ci riuscivi, che bello vederlo davvero coinvolto in qualcosa; Tasya che mi stringeva fortissimo… e tutti gli altri, che ci hanno regalato momenti unici che rimangono nel cuore.
Poi, non si sa come, sembra che il tempo acceleri di colpo e dalla malinconia dell’ultimo giorno ti ritrovi a casa, a riprendere le redini della frenetica vita milanese. Le domande, allora, iniziano a prendere forma, insieme alla gratitudine profonda. Quesiti che spesso non hanno risposta, come il fatto che, a seconda del luogo, la tua vita ne sia inevitabilmente condizionata: le possibilità, così differenti dalle nostre, dei ragazzi incontrati, che devono fare i conti con medicine costose, povertà energetica, formazione ridotta, consuetudini radicate. E, allora, quello che abbiamo fatto in tre settimane forse non avrà cambiato le loro vite, o forse in una piccola parte sì, chi lo sa, ma sicuramente ha cambiato la mia. Mi ha permesso di tornare a stupirmi per tutto ciò che ancora c’è di bello da scoprire, di vivere la bellezza della semplicità, nella condivisione essenziale e vera con altre persone, e di ricordarmi di non permettere a nessuna paura di bloccarci, rinchiudere porte, braccia, cuori: quello che puoi fare tu è molto, e se tutti facciamo qualcosa, il mondo sarà davvero migliore.
Letizia Gualdoni
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